Formaggio e pasta fresca antico matrimonio 

Poco sappiamo se gli antichi conoscessero cibi ottenuti da impasti di farina e acqua, con o senza altri ingredienti e cotti in acqua, come le nostre attuali paste fresche, anche se è probabile che a questi cibi si riferisse il termine di lagana laganae. Ancora meno ne sappiamo su come queste lagane fossero condite, anche se la presenza di grattugie etrusche di bronzo ha fatto supporre fossero condite con formaggio, come è invece documentato nel Medioevo. Mentre la lagana etrusco-romana è in generale cotta al forno insieme al suo condimento, nel Medioevo inizia la nuova consuetudine, continuata fino ai giorni nostri, di bollire la pasta nell’acqua, nel brodo e talvolta nel latte. 

Nel Liber de coquina, Codice Meridionale (1240?) e attribuito a studiosi di Federico II, nella ricetta De lasanis la pasta trasformata in tortelli e bollita in acqua salata è condita con caseum gractatum. Nella ricetta, inoltre, si consiglia di mangiare la pasta con un attrezzo di legno appuntito, cosa che porta a  sospettare di una precoce diffusione della forchetta in ambito italiano. 

Un secolo dopo Giovanni Boccaccio (1313 – 1375) nel Decameron  (1348-1353,) e più precisamente nella III novella dell’VIII giornata, intitolata “Calandrino  e l’elitropia“, descrive il Paese di Bengodi dove “eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi”. Maccheroni, dal verbo maccare, è identificato in una pasta impastata e lavorata. Secondo Giacomo Devoto, il termine avrebbe una doppia derivazione da macco, polenta di fave, che sarebbe un incrocio di makka (termine mediterraneo) con il latino maccus, dalla grossa mascella. Il termine “Maccheroni” sarebbe inoltre d’origine meridionale, come testimonia il soprannome Mackarone attestato a Cava nel 1041. Importante in Boccaccio la presenza di una montagna di formaggio parmigiano grattugiato che poteva servire solo come condimento della pasta, con ogni probabilità di farina di grano tenero, e che non sappiamo se preparata impastando la farina soltanto con acqua, con il rischio divenisse collosa, o anche con uova. 

Pasta secca medievale 

E’ nel Medioevo che si hanno le prime notizie della pasta secca ottenuta con essiccazione al sole di un impasto di farina di grano duro con acqua, che oggi ha una grande varietà di forme: larghe, strette, corte, lunghe, forate, ripiene con nomi che si richiamano ai vermi (vermicelli), a sottili corde o spaghi (spaghetti). Questa pasta è denominata trie, derivato dall’arabo itriyah (focaccia tagliata a strisce) e sopravvive ancora oggi in molte località del sud Italia. Dal basso Medioevo la pasta,  più genericamente, è definita con il termine di maccheroni perché il siciliano maccarruni proverrebbe da maccari, ossia schiacciare, azione fatta lavorando la pasta di semola di grano duro. Questo genere di alimento, a causa dei minuscoli granelli di cui è composta la farina di grano duro, per amalgamarsi con l’acqua richiede una lavorazione molto più energica rispetto alla farina di grano tenero. 

A ponente di Termini (Palermo) vi è un abitato che si chiama Trabìa, incantevole soggiorno con acque perenni e parecchi mulini. Trabìa ha una pianura e vasti poderi, nei quali si fabbricano tanti vermicelli (itriyah) da approvvigionare, oltre ai paesi della Calabria, quelli dei territori musulmani e cristiani, dove se ne spediscono moltissimi carichi per nave… è la prima testimonianza scritta di pasta essiccata, tratta dal Libro per chi si diletta di girare il mondo, scritto dal geografo arabo Al Idrisi per Ruggero II di Sicilia (1154). L’essicazione prevede un’esposizione al sole per qualche tempo, quindi un passaggio in luoghi chiusi, riscaldati per mezzo di bracieri, per ottenere, come dice Al Idrisi, “di affrontare anche viaggi verso destinazioni lontane senza deteriorarsi”. 

Pasta secca cibo mediterraneo 

La pasta di semola di grano duro è un alimento che ha una speciale destinazione alla marineria e con gli scambi commerciali via mare raggiunge presto altri porti mediterranei. Tra questi quelli napoletani, della costa toscana e liguri dove il grano importato dalla Sicilia è lavorato e trasformato in pasta, tanto che un documento del 1244, conservato presso l’archivio di stato di Genova, cita il termine pasta, utilizzato da un medico che prescrive ad un lanaiolo di eliminare dalla dieta la pasta lissa. 

Ai primi del 1300 la pasta secca è diffusa in tutta l’Italia Settentrionale, un documento del 1284 conservato all’Archivio di stato di Pisa dà notizia della vendita di vermicelli e nel 1295 la pasta essiccata è in vendita nel Regno di Napoli dove la regina Maria, madre di Re Carlo d’Angiò, l’acquista per un banchetto. 

Il formaggio sulla pasta del capitano 

Dagli elementi che abbiamo, possiamo immaginare che la pasta secca sia un cibo pregiato riservato ai capitani delle navi corsare arabe che già nell’anno mille solcano i mari, terrorizzando le popolazioni delle coste mediterranee, mentre la ciurma delle veloci feluche corsare si nutre con zuppe di gallette e legumi. Il capitano e i suoi aiutanti di più alto grado hanno il privilegio di pasteggiare con pasta di grano duro, non sgranata come nel cuscus, ma ridotta in fili ed essiccata, denominata tria o tris. Bollita in acqua di mare, la pasta è condita con formaggio piccante di capra o pecora, grattugiato all’istante, come ancor oggi si conviene. 

Pasta secca e formaggio stagionato sono alimenti che sopportano bene lunghe navigazioni e che sono imbarcati nei porti di partenza degli arabi, i primi inventori di questo cibo e ancora oggi, Giovanni Soldini nelle sue lunghe navigazioni solitarie usa nutrirsi con pasta cotta in una miscela di parti uguali di acqua di mare e acqua dolce. 

Per soddisfare il gusto del piccante, che invoglia e agevola le bevute di vino, il capitano delle navi arabe che solcano il mediterraneo, non di rado si concede il lusso di aggiungere un poco del prezioso pepe, che fa parte della mercanzia trasportata dal veloce veliero. Spaghetti cacio e pepe molto probabilmente sono la prima ricetta della pasta, una ricetta che ancora resiste, ancora ben ancorata in particolare a Roma. 

Il successo di questa ricetta primigenia è tale che quando gli arabi s’insediano in Sicilia, iniziano la produzione della pasta, non solo per le condizioni che permettono la coltivazione del grano duro, ma forse anche per la presenza del formaggio. Pastorizia e formaggi sono già presenti fin dalla notte dei tempi o almeno dai tempi omerici, quando Polifemo è un provetto casaro e stagionatore di formaggi, e ben lo documenta il padre Omero nell’Odissea. 

Il formaggio sulla pasta dei popoli mediterranei 

Partendo dai porti siciliani, la pasta approda a Napoli dove trova un entroterra favorevole alla produzione del grano, ma soprattutto l’acqua e il clima necessario per la produzione della pasta. E’ qui che, per produrre una pasta dura, non la si impasta con le mani ma con i piedi, asciugandola ai raggi di un cocente sole, ma anche sotto nugoli di mosche, fino a quando il Re borbonico amante delle nuove tecnologie e che fa costruire la prima ferrovia italiana, interviene e impone l’uso dell’uomo meccanico, l’impastatrice. L’entroterra napoletano fornisce cacio e questo, con la pasta, può arrivare alla foce del Tevere e da qui insediarsi non tanto nelle alte e fastose cucine rinascimentali e barocche, quanto nella cucina popolare. Dalla capitale la pasta si diffonde divenendo il cibo che interessa i carbonai, gli abitanti di Amatrice, con le loro ricette e tanti altri. 

Quando la pasta arriva a Genova i bravi commercianti locali la diffondono è la commercializzano nei grandi e piccoli regni dell’Italia settentrionale e, a cavallo tra il milleseicento e il millesettecento, i Farnese di Parma ricevono la pasta che il loro cuoco segreto, Anton Maria Dalli, cuoce per un’ora (!) e condisce con formaggio parmigiano. 

Questi documenti seppelliscono la leggenda che vuole la pasta essiccata importata in Italia nel 1295 da Marco Polo, al ritorno dalla Cina, dove esisteva un cibo in fili ottenuti dalla farina di riso. 

 

 

Giovanni Ballarini, dal 1953 al 2003 è stato professore dell’Università degli Studi di Parma, nella quale è Professore Emerito. Dottor Honoris Causa dell’Università d’Atene (1996), Medaglia d’oro ai Benemeriti della Scuola, della Cultura e dell’Arte del Ministero della Pubblica Istruzione della Repubblica Italiana, é stato insignito dell’Orde du Mérite Agricole della Repubblica Francese. Premio Scanno – Università di Teramo per l’Alimentazione nel 2005, Premio Giovanni Rebora 2014, Premio Baldassarre Molossi Bancarella della Cucina 2014, Grand Prix de la Culture Gastronomique 2016 dell’Académie Internationale de la Gastronomie. 

Da solo e in collaborazione con numerosi allievi, diversi dei quali ricoprono cattedre universitarie, ha svolto un’intensa ricerca scientifica in numerosi campi, raggiungendo importanti e originali risultati, documentati da oltre novecento pubblicazioni e diversi libri. 

Da trenta anni la sua ricerca è indirizzata alla storia, antropologia e in particolare all’antropologia alimentare e anche con lo pseudonimo di John B. Dancer, ha pubblicato oltre quattrocento articoli e cinquanta libri, svolgendo un’intensa attività di divulgazione, collaborando con riviste italiane, quotidiani nazionali e partecipando a trasmissioni televisive. Socio di numerose Accademie Scientifiche è Presidente Onorario dell’Accademia Italiana della Cucina e già Vicepresidente della Académie Internationale de la Gastronomie.