Nell’articolo precedente abbiamo visto che bovine “felici” fanno guadagnare di più sia gli allevatori che, potenzialmente, l’industria del latte dal momento che il consumatore è molto sensibile a questi aspetti che lo invogliano nei consumi ed a spendere di più .

Cerchiamo ora di capire se nutrire gli animali con i principi della sostenibilità possa anche essere un affare oltre ad essere eticamente corretto.

Due sono i concetti su cui riflettere. Il primo è quello dell’economica circolare e il secondo è quello dell’impatto ambientale.

Ma cos’è l’economia circolare? Economia circolare è una locuzione che definisce un sistema economico pensato per potersi rigenerare da solo. Secondo la definizione che ne dà la Ellen MacArthur Foundation, in un’economia circolare i flussi di materiali sono di due tipi: quelli biologici, in grado di essere reintegrati nella biosfera, e quelli tecnici, destinati ad essere rivalorizzati senza entrare nella biosfera”.

Allevare ruminanti, siano essi da latte o da carne, si avvicina molto al concetto di economia circolare di tipo biologico. Il consumatore pensa che i ruminanti mangino soia e altre oleaginose o cereali coltivati apposta per loro e questo significa, per loro, deforestazione, abuso di agro-farmaci e competizione alimentare con l’uomo.  Il consumatore non sa, forse perché non glielo abbiamo detto con chiarezza, che a questi animali destiniamo il sottoprodotto dell’estrazione dell’olio dalla soia, dal girasole e della colza. Non diamo loro il grano ma i cruscami, ossia sottoprodotti dell’estrazione delle farine. Lo stesso si può dire del cotone, delle barbabietole e dei tanti sottoprodotti del mais e del riso. Tutti questi scarti, in un mondo dove non si allevano ruminanti, finirebbero nelle discariche ad inquinare il pianeta invece di essere trasformati in alimenti preziosi per la salute e la prosperità dell’uomo.

L’unica eccezione è quella di cereali come l’orzo e il mais, ma se la nostra zootecnia non fosse ossessionata dal produrre sempre di più perché il latte e la carne vengono pagate sempre meno se ne potrebbe tranquillamente limitare l’uso. L’orzo poi viene principalmente coltivato per alimentare gli animali e non è quindi un alimento che viene sottratto all’alimentazione umana.

Definire “l’impatto ambientale” della produzione di latte e carne da ruminanti è più semplice ed intuitivo. Bisogna infatti considerare la produzione dei gas serra (GHG) responsabili del surriscaldamento del pianeta (metano, anidride carbonica e protossido di azoto), molecole eutrofizzanti che inquinano le acque superficiali, come l’azoto, il fosforo e il potassio, e il consumo delle risorse idriche per far bere gli animali e irrigare i campi. Anche qui si deve essere chiari. Ogni attività umana è “inquinante” e paradossalmente anche ogni attività naturale lo è, la differenza la fa la quantità. L’auto più venduta in Europa è la Volkswagen Golf che emette circa 150 grammi di CO2 per ogni chilometro percorso. Per una percorrenza media di 15.000 chilometri/anno una vettura di questo tipo emette in atmosfera kg 2250 di CO2. In Italia circolano 36 milioni di automobili che emettono circa 81 miliardi di chilogrammi di CO2. In Italia produciamo circa 11.500.000 tonnellate di latte. Stimando approssimativamente che per produrre un kg di latte una bovina emette kg 0.49 di CO2, nel nostro paese solo per questa attività zootecnica vengono emessi circa 563 milioni di chilogrammi di CO2. Ovviamente a questo va sommata la produzione di gas serra per allevare il giovane bestiame, che è però di gran lunga inferiore a questa quantità, e nel fare i confronti bisogna considerare che buona parte delle emissioni di gas serra legate all’uso dell’automobile sono dovute ad attività ricreative.

Anche se è difficile accettare che una bovina da latte sia molto meno efficiente nel trasformare l’azoto ingerito in proteine del latte (circa il 30%) rispetto ad un monogastrico (anche il 50%), va sempre considerato che i ruminanti riescono a convertire in proteine ad alto valore biologico anche, e soprattutto, l’azoto non proteico che i monogastrici, uomo compreso, non possono utilizzare. Oltre ad esser capaci di utilizzare a fini nutrizionali le fibre. Cosa, anche questa, che nessun monogastrico è in grado di fare.

Per produrre un grammo di proteina del latte servono 0.044 m2 di terra agricola. Facendo i confronti, per fare un grammo di proteina del riso servono 0.023 m2 di terra agricola, delle uova 0.051, di pollo 0.075 e di suino 0.13.

Anche se gli argomenti a favore del fatto che conviene allevare i ruminanti sono molti, bisogna cogliere gli stimoli del consumatore e dare risposte pratiche al fatto che la terra va rispettata per dare la possibilità alle generazioni che verranno di apprezzarla come lo abbiamo fatto noi.

Molti sono i nutrienti che vengono sprecati nell’alimentazione dei ruminanti e per tante ragioni. Questo dovrebbe spingere i nutrizionisti ad abbracciare “radicalmente” i principi della nutrizione di precisione (precision feeding). I presupposti sono semplici e gli strumenti che oggi abbiamo a disposizione più che sufficienti.

Il primo passo da fare è quello dei “piani colturali” che consistono nel coltivare sui terreni utilizzati dall’allevamento le essenze botaniche più adatte. Ogni azienda agricola ha il suo piano colturale ideale ed è difficile generalizzare. Lo stesso vale per la gestione razionale delle risorse idriche. La coltivazione del mais da destinare all’insilamento è molto interessante e può creare la condizione di una seria limitazione all’utilizzo della granella di mais macinata ma l’impiego dell’acqua per tale coltura deve essere attentamente ottimizzato.

Il secondo passo è quello di analizzare con grande precisione gli alimenti che si intende utilizzare nelle diete dei ruminanti. I nutrients da quantificare nei laboratori sono quelli richiesti dal CNCPS della Cornell University.

Il terzo passo è la quantificazione attenta dei fabbisogni nutritivi di ogni fase dell’allevamento per ogni categoria di nutrienti (energia, proteine, fibra, grassi, macrominerali e vitamine), con la consapevolezza che le carenze e gli squilibri possono avere effetti negativi sulla salute e le performance degli animali e che gli eccessi possono essere dannosi anche per l’ambiente e il reddito degli allevatori. Un aspetto fondamentale che riguarda specialmente i ruminanti da latte (bovine, bufale, capre e pecore) è che l’alimentazione unica, ossia con la stessa razione per tutti gli animali in lattazione, è si comoda ma impraticabile nel contesto della “precision feeding”.

Il quarto passo, anch’esso fondamentale, è quello della verifica, che si auspica sempre più supportata dall’uso dei sensori e dei biomarker, del latte in modo che le scelte che si fanno siano oggettivamente valutate.

La certificazione, per ogni confezione di latte, vasetto di yogurt e forma di formaggio, di quante risorse idriche sono state impiegate per la sua produzione, di quanti GHG emessi, di quante sostanze eutrofizzanti prodotte e se sono stati adottati i principi dell’economia circolare sarà l’ulteriore evoluzione per i formaggi a denominazione d’origine e per la riqualificazione dei prodotti del latte generici.

Sarà l’inevitabile completamento della certificazione della qualità della vita degli animali che producono cibo per l’uomo che noi non amiamo chiamare benessere.