Negli ultimi anni, la conoscenza della fibra che compone le diete dei ruminanti d’allevamento, e specialmente quelle delle bovine da latte, è tra le principali priorità dei nutrizionisti per diversi motivi. Allevare ruminanti ha una profonda ragione ecologica spesso offuscata dall’accusa di produrre molti gas serra. Questi animali riescono infatti a produrre grandi quantità di proteine di alto valore biologico, tra cui la caseina e quelle contenute nella carne, a partire da alimenti, o meglio nutrienti, che non possono essere utilizzati dai monogastrici come i polli, i suini e le galline ma anche l’uomo. Tra questi nutrienti troviamo principalmente l’azoto non proteico e la fibra di cui sono ricchi molti sottoprodotti dell’industria agroalimentare e i foraggi.

Il fabbisogno di cibo e la sensibilità dei consumatori verso il rispetto dell’ambiente stanno crescendo, per cui la riduzione al minimo dei cereali e dei legumi integrali nelle diete dei ruminanti è una scelta inevitabile, che però rende necessaria una maggiore conoscenza del valore nutrivo delle fibre. In un ormai lontano passato si riteneva che la qualità della fibra, o meglio la sua digeribilità, e un’approfondita conoscenza della microbiologia ruminale non fossero poi così importanti perché sfruttando il “by-pass” ruminale di molti alimenti si potevano rendere i ruminanti molto più simili ai monogastrici. Le diete di allora prevedevano grandi quantità di amido da mais, nutriente dotato di una bassa degradabilità ruminale, e fonti proteiche poco fermentescibili nel rumine che sono quelle apportate principalmente dagli alimenti di origine animale. Diete poco attente alla valorizzazione della capacità fermentativa del rumine e della qualità degli alimenti che apportano fibra, come i foraggi e i concentrati fibrosi, sono oggi considerate obsolete, anche alla luce del fatto che il nostro paese è leader mondiale nella produzione di formaggi a denominazione, e non solo di origine. Infatti, in molti dei disciplinari che regolamentano la dieta da somministrare agli animali il rapporto foraggi-concentrati ha dei vincoli precisi. Ad esempio, per produrre latte con cui fare il Parmigiano Reggiano e il Grana Padano questo rapporto è del 50%. La quota sale a 60% nel Montasio, al 70% nel Piave ed è addirittura del 75% nella STG “Latte Fieno”.

Fare diete per le bovine da latte, e non solo, con un’alta quota di foraggi non ha solo una motivazione etica e di contenimento dei costi di produzione del latte, ma ha anche la finalità di migliorare le caratteristiche organolettiche di questo prodotto e, particolare non marginale, di avere la massima salute degli animali. Fare diete con un’alta concentrazione di foraggi e di concentrato fibrosi, e relativamente povere di amido e proteine, è estremamente complesso e prevede una profonda conoscenza della fibra e della sua cinetica ruminale. Quando la scienza della nutrizione animale muoveva i suoi primi passi, la fibra di un alimento veniva quantificata in laboratorio con il metodo Wendee ed era denominata fibra grezza. Questo metodo è tuttora utilizzato per realizzare il “cartellino” che accompagna un mangime ma non ha nessun interesse per i nutrizionisti che devono fare i piani alimentari per i ruminanti. Il metodo Wendee di determinazione della fibra non dà alcuna informazione sulla sua qualità e comportamento ruminale e tendenzialmente la sottostima in quanto tende a solubilizzare alcuni componenti dell’alimento.

Nel 1967 Peter J. Van Soest pubblicò un metodo rivoluzionario che permetteva di differenziare la fibra di un alimento in tre frazioni a seconda di come reagivano a vari tipi di solvente. Nacquero allora l’NDF (fibra neutro detersa), l’ADF (fibra acido detersa) e l’ADL (lignina acidi detersa). Sottraendo all’NDF la quota di ADF si riesce a quantificare la concentrazione di emicellulosa mentre togliendo l’ADL all’ADF, si quantifica la cellulosa. Il metodo proposto da Van Soest rivoluzionò la nutrizione dei ruminanti e la conoscenza degli alimenti. L’ NDF, semplificando, altro non è che la quota strutturale dei carboidrati, ossia la misurazione quantitativa dello “spessore” della cellula vegetale. Più un alimento è ricco di cellulose, soprattutto di emicellulosa, e povero di lignina, maggiore sarà la sua degradabilità ruminale e quindi la possibilità di offrire substrato da fermentare alla frazione cellulosolitica del microbioma ruminale in modo che possa proliferare. Conoscere le preferenze nutrizionali di questa parte dei microrganismi ruminali è oggi di grande interesse per le ragioni sopra esposte.

La “rivoluzione” di Van Soest permise di studiare più attentamente alcuni fabbisogni che prima delle sue ricerche erano stati solo intuiti. Da molto tempo si sa che la percentuale di NDF di una dieta per bovine da latte ne condiziona l’ingestione che è il primo aspetto della nutrizione che si considera. E’ ancora un fabbisogno utilizzabile quello che serve a stimare la possibile ingestione di sostanza secca della bovina da latte partendo dall’NDF della razione (1.2 – 1. 4 % del peso vivo). Nel 1997, D.R. Mertens ( Journal of Dairy Science 80:1463-1481) introdusse il nutriente peNDF (NDF fisicamente efficace) che rappresenta una misura della capacità di un alimento di stimolare la masticazione e la ruminazione, e di influenzare la natura bifasica del contenuto ruminale. Il peNDF è quella frazione di NDF più lunga di 1.18 mm. Anche questo parametro è ampiamente utilizzato dai nutrizionisti per le bovine da latte, nella consapevolezza che una dieta con un peNDF > 21% è correlabile con un pH ruminale superiore alla soglia di rischio dell’acidosi ruminale (pH < 5.80).

Le frazioni della fibra proposte da Van Soest e il peNDF di Mertens non erano però sufficienti a “capire” la differente qualità delle frazioni fibrose di un alimento, il loro comportamento ruminale e la loro capacità di essere un valido nutriente per il microbioma ruminale e quindi di produrre la massima quantità possibile di proteina metabolizzabile ruminale. Per meglio descrivere la quantità e la qualità dell’NDF di un alimento ora viene utilizzato l’aNDFom che, rispetto all’NDF, non ha alcuna frazione dell’amido ed è privo di ceneri. Può succedere che l’aNDFom sia inferiore di diversi punti percentuali rispetto all’NDF. La ricerca si è quindi ulteriormente evoluta definendo meglio il concetto di iNDF, ossia quella quota di fibra in nessun modo utilizzabile dalla bovina da latte. L’iNDF, o meglio la quota indigeribile dell’NDF, non è un parametro analizzabile mentre l’uNDF lo è. E’ questa la sola differenza tra questi due parametri.

I laboratori meglio organizzati per le analisi degli alimenti zootecnici sono in grado di analizzare l’uNDFom a vari step d’incubazione nel rumine, ossia a 30 a 120 e a 240 ore. Pertanto, per confrontare l’uNDFom dei vari alimenti è necessario sapere a quante ore si fa riferimento. Sottraendo l’uNDFom all’aNDFom si ottiene l’NDFD, anch’esso calcolato ed espresso a 30, 120 e 240 ore. Oggi, grazie alla tecnologia NIR che è veloce, potenzialmente affidabile e più economica, è possibile quantificare routinariamente anche questi nuovi aspetti di determinazione della fibra insolubile. L’uNDF non è necessariamente un nutriente “negativo” dal momento che aiuta ad avere una ruminazione salutare, ossia di lunga durata e con una notevole produzione di saliva.

La nutrizione di precisione o “precision feeding” ha il triplice obiettivo di massimizzare le produzioni, ridurre i costi di alimentazione e contenere la produzione d’inquinanti come i GHG e le sostanze eutrofizzanti. Per utilizzare la nutrizione di precisione è molto importante una sempre maggiore conoscenza della cinetica ruminale delle varie frazioni delle fibre che compongono un alimento. Negli allevamenti che intendono iniziare il percorso virtuoso della “precision feeding” è fondamentale intensificare le analisi degli alimenti, siano essi foraggi o concentrati, perché la loro variabilità è molto elevata. Nella tabella sottostante vengono riportati i dati relativi alla fibra strutturata di quattro tipologie di foraggi, riscontati in 580 analisi e sintetizzati nella versione 1.0 del “Libro delle Analisi” del laboratorio Analisi Zootecniche dei fratelli Mancinelli pubblicata su Ruminantia. Si può notare che le deviazioni standard di ogni nutriente sono piuttosto ampie nonostante gli alimenti siano stati analizzati nel medesimo laboratorio.

Nella tabella sottostante si nota chiaramente come in alcuni concentrati fibrosi la conoscenza dell’uNDFom 120 e del contenuto di lignina permetta di dare un valore a questi alimenti sicuramente diverso da quello che gli sarebbe stato attributo con la sola conoscenza della loro concentrazione di NDF.

Nello studio che vede coinvolti Cotanch e Grant del Miner Agricultural Research Institute, Van Amburgh della Cornell University e Formigoni, Polmonari e Fustini dell’Università di Bologna sono state proposte delle linee guida per utilizzare correttamente questi nuovi nutrienti che descrivono alcuni aspetti dell’NDF:

  • La quantità giornaliera ingerita di uNDF è uguale a quella che viene eliminata con le feci.
  • La massima quantità di uNDF presente nel rumine può essere compresa tra lo 0.48 e lo 0.62% del peso vivo.
  • La massima quantità di NDF ingeribile giornalmente è di 10 kg oppure l’1.47% (1.27-1.47) del peso corporeo.
  • La massima quantità di uNDF che una bovina può giornalmente ingerire è secondo il Miner lo 0.39% e per Bologna lo 0.48% del peso vivo.