La cultura digitale e l’imperante pensiero biocentrico spingono la riflessione sul mondo animale verso l’idea unica di un’emotiva e sempre più indistinta comunione con loro, eppure mai come ora l’uomo e gli animali che producono i suoi mezzi di sostentamento sono tanto lontani.

Una distanza disturbante che ci interroga su questo abbandono, mentre il loro spettro digitale inquieta chi lo incontra nel profluvio di immagini, ora melense ora scioccanti, che ne tradiscono identità e valore.

Smarrito il loro distratto padrone, alienati dal paesaggio urbano che nasconde le ultime tracce di cultura rurale, gli animali che abbiamo addomesticato nel corso di millenni, più che nutrire corpi e menti, suscitano ansie e animano conflitti; finiti i tempi in cui abitavano il sogno e animavano la festa, si sono fatti cibo senza corpo.

In questa assenza, vacilla l’antico senso di alterità dell’uomo nei confronti della natura e si rafforza per contrappunto il sentimento di colpa verso gli animali che ci nutrono.

Nasce così l’esigenza di pensare l’animale domestico in modo più consapevole, di recuperarne l’inestimabile valore sociale, le reciproche appartenenze che millenni di domesticazione hanno prodotto, l’abissale prossimità che ci distingue.

Per colmare questa infinità alterità, il testo cerca di superare le contrapposizioni obbligate del pensiero animalista, senza facili moralismi o tentazioni apocalittiche, per raccontare l’arcano rapporto che ci unisce, gli edifici sociali costruiti sulle loro spalle, il misterioso silenzio dell’animale sacrificato che rimanda ad un altrove in cui cercare la nostra più autentica identità di specie e, con essa, la responsabilità e gratitudine che da uomini dobbiamo loro.

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