Gli allevatori sono fortemente consapevoli di non godere di un’ottima reputazione nell’opinione pubblica. La comunicazione utilizzata per parlare dei prodotti di origine animale non è riuscita a far evolvere l’immagine dell’allevatore da quella di “contadino naif” o torturatore e inquinatore seriale ad allevatore evoluto attento alla qualità della vita dei propri animali e dell’ambiente. A fare notizia sono sempre stati i “peggiori della classe”, le mele marce che ci sono in ogni angolo della società umana. Gli allevatori comunque stanno investendo su questi aspetti anche se questo non viene adeguatamente ricompensato dal prezzo del latte e della carne alla stalla ma solo dalla PAC e dai PSR, e non sempre. La motivazione spesso addotta dall’industria di trasformazione e dalla GDO è che la gente non è disposta a pagare di più per prodotti recanti i claim relativi al benessere animale e alla sostenibilità, sia nel caso dei prodotti a marchio che per quelli commercializzati con il brand originale, e pertanto nulla è dovuto in più agli allevatori virtuosi.
Questo “presunto” comportamento d’acquisto sembra però in contraddizione con quanto riportato dalle analisi specialistiche che tratteggiano l’identikit di un consumatore particolarmente sensibile alle tematiche etiche e salutistiche.
L’Osservatorio Immagino GS-1 monitora circa 130.000 referenze prodotte da circa 2.000 industrie e distribuite da 59 operatori del retail che rappresentano un valore di 41 miliardi di euro, pari all’82.3 % del totale delle merci distribuite dai super e gli iper mercati in Italia, come riportato nel report pubblicato nel 2° semestre del 2022. I claim relativi all’agricoltura e alla zootecnia sostenibile sono presenti in 14.000 prodotti, che rappresentano il 10.6% del confezionato venduto dal circuito del largo consumo con un giro d’affari di oltre 3.3 miliardi di euro in crescita annua dell’1.9%. Il solo claim biologico o EU Organic compare in 8.335 referenze che generano un volume di affari di 1.1 miliardi di euro. A farla da padrone è il claim “benessere animale” presente in 588 prodotti con un giro d’affari di 585 milioni di euro. Non posseggo informazioni relative a quanto costano in più articoli che recano claim di tipo etico.
Questa situazione è in apparente e palese contraddizione. Gli allevatori sanno che la commercializzazione diretta attraverso gli spacci aziendali, i mercati locali, i ristoranti e il “porta a porta” permette di dare un maggiore valore aggiunto al loro lavoro perché vengono esclusi molti passaggi di intermediazione come l’industria di trasformazione e la GDO. Fondamentale per affermarsi in questo canale sono le caratteristiche organolettiche dei prodotti, lo storytelling e il rapporto “umano” che si crea tra venditore e acquirente.
Dalle figura sottostanti si può notare come i consumi dei prodotti del latte siono in calo, trend evidente ormai da anni con la sola interruzione del periodo del lockdown.
Sorte analoga sembra sia toccata alle carni sia ovi-caprine che bovine.
Quello che non compare nei report dell’Asservatorio Immagino GS-1 è la risposta alla domanda: “Ma il consumatore è disposto a pagare di più latte e carne prodotti in condizioni di sostenibilità ambientale e benessere animale?“
Dai prezzi praticati nelle stalle, o meglio dai premi relativi al benessere animale e alla sostenibilità ambientale sembrerebbe di no. Una “non azione” su questo argomento rischia di far diventare questi claim dei meri requisiti, e pertanto di non generare un maggior ricavo per gli allevatori ma solo un aumento dei costi. Deve essere ben chiaro che per migliorare la qualità della vita degli animali, ridurre la produzione di gas climalteranti e di sostanze eutrofizzanti e migliorare la gestione delle risorse agricole servono ingenti investimenti sia strutturali che gestionali, e quindi spese correnti, che risultano insostenibili se non adeguatamente ricompensate da premi in denaro sul chilo latte e sul chilo carne.
Pertanto, analizzando freddamente i dati si dovrebbe giungere alla conclusione che la gente manifesta interesse per un cibo prodotto più eticamente, ossia nel rispetto degli animali e dell’ambiente, ma che per varie ragioni non sembrerebbe sia disposta a pagarlo di più. Questo ovviamente si riverbera sulla produzione primaria che, a causa di una mancata maggiore remunerazione, anche volendo non può fare investimenti sulla sostenibilità ambientale e il benessere animale, oppure se li fa vede erodere molto sensibilmente il suo profitto mettendo a rischio la sopravvivenza della sua attività.
Dal grafico sottostante si vede chiaramente come la maggior parte dei prodotti alimentari sia venduta dalla GDO. Di conseguenza, se questo grande canale distributivo non riesce né con i prodotti a marchio né con quelli a brand originale ad aumentare il posizionamento dei prodotti “etici” i rischi sono due. Il primo è che gli allevatori sempre più pressati da normative sul benessere animale e sull’ambiente non riescano più a continuare l’attività, e il secondo che un consumatore che non trova rassicurazioni etiche sui prodotti di origine animale ne riduca il consumo rivolgendosi a prodotti ultra-processati e sintetici.
Ho quindi voluto visitare Marca per comprendere meglio il fenomeno e capire se ci sono soluzioni premianti per gli allevatori che vogliono emanciparsi dall’essere indifferenziati produttori di commodity in balia di un prezzo stabilito dal rapporto domanda/offerta e dalle speculazioni finanziarie. Marca è una fiera annuale organizzata da BolognaFiere dove le insegne della GDO espongono le loro linee di private label (prodotti a marchio), ossia referenze che hanno la stessa marca del distributore. Accanto alle principali catene distributive ci sono molte aziende in esposizione con marchi e prodotti propri, oppure disponibili ai conti lavorazione (co-packer). 900 espositori, 2500 brand e 17.000 visitatori del B2B sono numeri importanti. A Marca ho trovato anche molti caseifici che ambiscono a vendere alla GDO, fare conti valorizzazione o ad offrirsi per i prodotti a marchio, magari per le linee tipo Fior Fiore di Coop, Terre d’Italia di Carrefour o Sapori e Dintorni di Conad.
A disposizione degli allevatori come alternativa parziale o totale alla GDO c’è la trasformazione e la vendita diretta. Caseifici e macellerie aziendali stanno in Italia proliferando, anche se è difficile stabilire quanti esercizi ci siano esattamente. Queste strutture in costante crescita distribuiscono direttamente i loro prodotti nei punti vendita aziendali, nei mercati rionali e contadini, negli agriturismi annessi agli allevamenti oppure tramite l’e-commerce. La reputazione e il “metterci la faccia” sono argomenti altamente rassicuranti nei confronti dei consumatori, forse anche di più di molte raffinate certificazioni. Ho esperienza di aziende agricole e zootecniche che hanno abbandonato le certificazioni, anche quelle biologiche, perché certi che la narrazione diretta della loro azienda e il rapporto personale con i clienti possa essere più efficace di esse.
Per un agricoltore e un allevatore trasformare e vendere la produzione è però un ulteriore aggravio di lavoro e responsabilità, fattibile solo se per queste attività viene coinvolta una parte importante della famiglia.
A mio avviso due potrebbero essere le strade da percorrere per rendere possibile la diffusione dei claim “sostenibilità” e “benessere animale”: la prima è avviare un dialogo costruttivo e non conflittuale con la GDO, perchè gli obiettivi della produzione primaria, dell’industria di trasformazione e della distribuzione sono necessariamente gli stessi, e la seconda è aiutare le piccole produzioni a raggiungere fasce più ampie della popolazione attraverso canali distributivi alternativi come i mercati locali ma soprattutto l’e-commerce.
Scrivi un commento
Devi accedere, per commentare.