Il comparto della carne bovina biologica ha una marginalità piuttosto bassa soprattutto per la filiera più intensiva che non commercializza direttamente il proprio prodotto. Inoltre, presenta una diffusa difficoltà nella commercializzazione della produzione certificata dovuta in parte a una carente organizzazione della filiera e in parte a una domanda del mercato che ancora non si è espressa pienamente. In futuro dovranno quindi essere messi in campo interventi in grado di coinvolgere allo stesso modo tutti gli attori della filiera, agevolando ad esempio le fasi della macellazione e lavorazione e migliorando la comunicazione per invogliare il consumatore ad acquistare carne rossa biologica.

E’ quanto emerge dall’analisi della catena del valore della filiera della carne bovina bio realizzata dall’Ismea, che scatta una fotografia del settore zootecnico biologico mettendo in risalto le barriere alla crescita del comparto ma anche le opportunità per una sua valorizzazione. Lo studio riporta analiticamente i costi e i ricavi sostenuti dagli attori lungo tutta la filiera, valorizzando i risultati di interviste sottoposte alle principali aziende biologiche rappresentative della filiera.

Allevamenti e numero di capi

Secondo l’analisi Ismea, il numero di capi bovini biologici (latte e carne) in Italia per il 2021 si aggira intorno alle 400.000 unità, con un’incidenza di circa il 7% sul patrimonio bovino complessivo. Di questi, circa 160 mila possono essere attribuiti ad allevamenti da carne o misti.

Nel settore della carne bovina biologica sono prevalenti le aziende di piccola dimensione a conduzione familiare (la media dei capi presenti si colloca sui 21-22 capi); non mancano però allevamenti di dimensioni ben più consistenti.

La dimensione intermedia può essere problematica; per esempio, nel caso degli allevamenti integrati, non consente di servire la grande distribuzione e rende allo stesso tempo difficile collocare l’intera produzione tramite vendita diretta. Una parte dei produttori è entrata in questa filiera per un fatto etico/ideologico; altri per ricevere i contributi relativi a questo tipo di produzione; più recentemente stanno emergendo imprenditori che hanno convertito o stanno convertendo le loro aziende per una precisa scelta imprenditoriale. Il differenziale di prezzo tra bio e convenzionale è però ritenuto da molti produttori insufficiente per fare fronte alle spese da sostenere, probabilmente a causa di una domanda non sufficientemente sensibilizzata sulle valenze del bio. Tale percezione è cresciuta nel primo semestre del 2022.

Il problema dei costi di produzione

Tra le barriere alla conversione al bio, si segnala il timore di molti allevatori convenzionali di fare un salto nel vuoto, ossia di andare a produrre con una complessità maggiore e a un costo superiore senza avere la sicurezza di spuntare un prezzo sufficiente sul mercato.

L’insieme dei costi fa sì che l’Italia non possa essere competitiva rispetto a un capo biologico polacco o austriaco, tanto che la distribuzione si rivolge anche alla carne estera, che ha prezzi inferiori. La filiera è resa complessa proprio dal flusso in entrata proveniente da altri paesi. Un problema attuale è dato dal consistente incremento avvenuto nei costi di produzione (in modo particolare cereali ed energia), mentre i prezzi di vendita sono rimasti sostanzialmente stabili.

Mercato e domanda 

Il mercato finale della carne bovina biologica italiana si colloca attorno alle 8 mila tonnellate, per un valore, stimato in base ai prezzi al consumo, pari a 160 milioni di euro, ossia lo 0,8% della carne bovina complessivamente consumata.

La domanda della carne bovina biologica è in crescita; una crescita leggera in termini di quantità. Da un lato il consumo di carne rossa è in fase di contrazione, dall’altro è aumentato l’interesse verso il biologico, in virtù di una maggiore sensibilità del consumatore rispetto alla salute e all’alimentazione. Non si può tuttavia ignorare un problema, sottolineato da diversi operatori: parte dei consumatori biologici sono vegani o vegetariani, e vivono quindi con indifferenza la presenza di carne bovina biologica.

È anche per questo che la carne bovina biologica ha una presenza sugli scaffali poco rilevante. Gli stessi punti vendita specializzati nel bio hanno un numero di referenze ridotto, in certi casi non la trattano affatto. Non essendovi una domanda vivace di biologico, talvolta la carne proveniente da capi biologici viene venduta come convenzionale, perdendo così l’auspicato valore aggiunto. In altri termini, essendo in Italia l’organizzazione della filiera bio piuttosto carente, una parte degli allevatori si certifica bio, poi vende il prodotto come convenzionale in quanto è difficile fare un percorso di filiera senza un’organizzazione efficiente.

Se la destinazione è l’Horeca o una parte della Gdo, poi, spesso non si riescono a utilizzare tutte le parti del capo come bio, per cui le restanti sono vendute come carne convenzionale. Molte grandi imprese di macellazione non hanno linee biologiche o al massimo hanno linee bio con quantitativi veramente minoritari rispetto al loro volume di attività. Si stima che le imprese di macellazione italiane che macellano capi bovini biologici siano comprese in un range fra 60 e 70 unità, includendo sia gli impianti che macellano in conto proprio, sia quelli che macellano in conto terzi.

Analisi dei costi e della catena del valore

Per l’analisi dei costi e della catena del valore, questo studio ha affrontato due modelli:

• la filiera non integrata, o filiera lunga, composta a monte da allevamenti a ciclo chiuso e a valle da imprese di macellazione e/o sezionamento/lavorazione (come attività in conto proprio); nella filiera lunga, quindi, gli allevamenti non sono integrati a valle e vendono i capi vivi a grossisti o a imprese di macellazione;

• la filiera integrata, costituita dagli allevamenti (anche essi a ciclo chiuso) che si occupano anche delle attività a valle rispetto a quella zootecnica, quindi della macellazione e del sezionamento della carne, e naturalmente della commercializzazione della carne. Questa seconda tipologia è costituita da aziende zootecniche biologiche che vendono una parte significativa della loro produzione in canali commerciali corti o diretti. Per queste imprese, si pongono alcune scelte di tipo “make or buy” relative soprattutto alle fasi della macellazione e della lavorazione successiva. Nella maggior parte dei casi, la macellazione, per tutta una serie di fattori legislativi, sanitari ed economici, è in misura preponderante realizzata all’esterno dell’allevamento, ricorrendo a macellatori in conto terzi, mentre più variegata è la situazione riguardante il laboratorio di sezionamento e preparazione dei tagli.

La fase del sezionamento e della lavorazione in tagli può essere effettuata dall’impresa di macellazione, dall’allevatore che dispone di un proprio laboratorio, da cooperative di allevatori, da commercianti, macellerie o da imprese il cui core business è proprio questa attività. L’indagine svolta ha evidenziato che, nell’ambito della filiera non integrata, gli allevamenti vedono un totale di costi espliciti, diretti e generali, pari a 660 euro a capo, a cui si devono aggiungere 74 euro attribuibili alla manodopera familiare e soprattutto 580 euro come valore della produzione propria di foraggi.

Considerando un prezzo medio di vendita del capo di poco inferiore a 1.400 euro, si ricava un margine netto (differenza fra il prezzo di vendita e i costi espliciti e impliciti) di 72 euro (sempre per capo). Non si devono però dimenticare il meccanismo di compensazione dell’Iva, i contributi pubblici e le diverse tipologie di premi, sensibilmente variabili da azienda ad azienda.

Il costo di macellazione non presenta sostanziali differenze fra capi biologici e capi convenzionali. Per la sola macellazione vera e propria, il costo si colloca sui 110 euro per capo, a cui occorre aggiungere le spese di distribuzione e di vendita, oltre a un margine netto di qualche punto percentuale.

La lavorazione che consente di ottenere il prodotto sezionato e disossato nei vari tagli ha mediamente un costo complessivo di 270 euro a capo. La fase successiva, per ottenere le vaschette pronte per il consumo, ha un costo di 830 euro a capo. In entrambi i casi, la componente più rilevante è quella del lavoro. Per quanto riguarda la catena del valore, la vendita di carne bio al consumatore finale porta a un ricavo medio di poco meno di 4.600 euro a capo (Iva esclusa), di cui il 30% (circa 1.400 euro) è costituito dal ricavo dell’allevatore. Considerando che in diversi casi fra allevatore e macello intervengono intermediari, il prezzo di acquisto dell’impresa di macellazione si colloca sui 1.600-1.700 euro.

Il prezzo di vendita del capo, dopo la sua macellazione, attorno ai 1.850 euro a capo, rappresenta il 40% di quello che sarà il suo prezzo al consumatore finale. Il margine netto del macellatore cresce se si tengono in considerazione i ricavi derivanti dalla valorizzazione dei sottoprodotti, molto difficili da stimare.

Aggiungendo le attività legate al sezionamento e al confezionamento in vaschetta si arriva a un valore di 3.120-3.130 euro, ovvero il 68% del valore del capo a prezzi finali. In diversi casi intervengono, prima del distributore al dettaglio, intermediari logistici/commerciali (oppure la piattaforma distributiva – Ce.Di.), il cui margine commerciale (differenza tra il prezzo di vendita del prodotto e il suo costo di acquisto) è stimabile intorno ai 250 euro.

Si arriva così a un prezzo medio d’acquisto del prodotto in vaschetta da parte della distribuzione al dettaglio sui 3.400 euro (sempre con riferimento a un capo), cifra che costituisce il 74% del prezzo finale al consumatore.

Infine, il retailer si caratterizza per un margine commerciale stimabile sui 1.200 euro, corrispondente a un ricarico del 38-39%.

Presso gli allevatori integrati, il principale capitolo di spesa è rappresentato dai costi diretti, i cui tre item principali sono l’acquisto degli alimenti con il 14%, la voce energia e acqua con quasi il 10% (dati riferiti al 2021) e la commercializzazione e lavorazione in azienda con il 9%. Ci sono poi i costi generali con il 16% e i costi impliciti attribuiti alla manodopera familiare (quasi il 14%) e alla produzione di foraggi (10%). In valori assoluti, il costo medio sostenuto dall’allevatore è pari a circa 2.400 euro. Il prezzo di vendita si colloca sui 2.650 euro, media dei capi commercializzati come tali alle imprese di macellazione e della carne che invece è venduta al consumatore finale o al retailer.

Scarica il report integrale cliccando qui.