Quello del fine vita degli animali d’allevamento è un tema molto delicato. La scelta che ha prevalso fino a oggi è stata quella di non parlarne, di fare finta di niente. Si è celata la vista della macellazione agli occhi della gente, sperando che la carne nelle sue tante preparazioni non fosse ricondotta dai consumatori alla morte degli animali.

L’idea che la gente voglia essere informata sul cibo che mangia e, al contempo, continuare a mantenere il segreto della macellazione, è ormai diventata una certezza condivisa, che sicuramente faciliterà l’ingresso della carne e del latte sintetici nel carrello della spesa. Anzi, bisogna dire che questo atteggiamento è sicuramente ben gradito alle multinazionali del cibo ultra-processato e di quello sintetico. Parole come “mattatoio”, “macello”, “macellaio” e “macellazione” devono essere a nostro avviso sostituite o ricontestualizzate, come del resto le altre nomenclature utilizzate nell’allevamento così detto intensivo. Queste terminologie potrebbero però essere rimpiazzate con altre parole che hanno un significato e che consentano una narrazione.

Con questo articolo iniziamo un percorso che ha come obiettivo quello di spiegare all’opinione pubblica il fine vita degli animali allevati per produrre cibo, chiedendo agli esperti di approfondire alcuni concetti. Partiamo con le considerazioni di Laura Ottogalli, insegnante di religione, alla quale abbiamo chiesto di spiegarci l’antichissimo concetto di “sacrificio”, parola che (forse) potrebbe aiutarci a spiegare meglio il fine vita degli animali da reddito.

Sul “Sacrificio”… riflessioni in libertà

L’analisi etimologica dal latino del termine sacrificio lo scompone in due parti: la parola “sacrum”, che indica un’azione sacra e il verbo “facere”, fare, rendere… sacro. Il termine sacro a sua volta viene dal latino “sacer” che indica qualcosa o qualcuno riservato, quindi con-sacrato (ad una divinità).

Quindi con questa parola si vuol indicare l’azione con la quale si fa entrare qualcosa o qualcuno nella sfera del divino.

I motivi per cui era ritenuto necessario che il quotidiano, il profano, entrasse in contatto con il divino erano vari, e le tracce dei primi sacrifici si perdono nella notte dei tempi e costituiscono un segno importante dello sviluppo del pensiero e della religiosità umana.

Risalgono alla preistoria i primi altari in pietra realizzati presso le fonti d’acqua con resti di animali lì sacrificati per ringraziare, dedicare, offrire, condividere con la divinità un bene così prezioso come l’acqua.

In effetti i motivi, e anche le modalità, di un sacrificio sono molteplici, e cambiano e si arricchiscono di significato a seconda dei popoli e del periodo storico: oltre all’idea di condivisione, il sacrificio contiene in sé anche l’idea di propiziazione, ringraziamento, offerta, espiazione. Anche l’oggetto del sacrificio cambia col cambiare dell’importanza o della gravità della situazione, e della motivazione per cui il sacrificio viene offerto: si passa dall’uso di primizie della terra, all’offerta di animali, sangue umano o dell’intera persona.

Per quanto questo aspetto sia considerato terribile, non è purtroppo da ignorare che i sacrifici umani sono stati ampiamenti praticati, e testimonianze di questo si trovano in tutte le culture e continenti: nelle civiltà precolombiane i sacrifici del sangue dei re Maya, di oggetti, di animali allevati per essere sacrificati, di esseri umani e di bambini raggiunsero livelli numericamente alti, i popoli sottomessi dovevano fornire numeri importanti di individui da sacrificare periodicamente per placare le divinità; il dio della pioggia richiedeva invece sacrifici di bambini. Tutto questo perché la religione partiva dall’idea che affinché l’universo continuasse ad esistere era necessario un grande e continuo sacrificio per ringraziare gli dei della propria esistenza.

Anche nel Mediterraneo troviamo traccia dei sacrifici umani nelle sepolture dell’antico Egitto, nell’Iliade, nel mito del Minotauro.

Ma l’inizio della prima religione monoteista, l’Ebraismo, vedrà il passaggio dal sacrificio diretto al sacrificio di sostituzione: in Gen. 22, 1-18 Dio ferma la mano di Abramo che sta per sacrificargli, come da Lui stesso richiesto, l’adorato figlio Isacco, indicandogli di sacrificare al suo posto un ariete. Anche nella Bibbia tutte le primizie della terra e i primi nati degli animali, e soprattutto i primogeniti degli uomini, comunque appartengono a Dio, che però non chiede che venga sacrificata la vita di alcuni in cambio della conservazione di altri, ma riscattata offrendo altro, qualcosa di prezioso, e di comunque importante per l’uomo.

Mi piace pensare che la condanna nella Bibbia dei sacrifici umani praticati dai popoli confinanti con Israele abbia spinto gli altri popoli verso la fine questa pratica, nella consapevolezza che la vita umana viene da Dio e dunque è sacra, intoccabile.

Per i sacrifici, qualsiasi sia il motivo della loro attuazione, si useranno solo primizie della terra o animali, ed essi diverranno progressivamente prerogativa riservata ai sacerdoti. Rimane innegabile che il sacrificio, inteso come “il trasferimento di un oggetto inanimato o di un essere animato dalla sfera del profano a quella del sacro”1, comporta un’azione violenta in cui l’oggetto del sacrificio viene consumato, o comunque distrutto, per permetterne il passaggio alla divinità, per ottenere dalla stessa benefici e protezione, e, nel caso di condivisione di una parte della vittima oggetto di sacrificio, di comunione con la divinità stessa.

L’aspetto della condivisone tra gli uomini e la divinità degli animali sacrificati mostra un altro aspetto importante del nostro discorso: l’uomo rendeva sacro il proprio pasto e anche il consumo della carne a cui poteva accedere grazie alla divinità, uscendo dall’azione cruenta della sua uccisione, che veniva portata fuori dalla sfera profana e diventava passaggio necessario per offrire tributo sacro a Chi aveva creato quell’animale e aveva permesso all’uomo di allevarlo affinché gli fosse sacrificato: nel capitolo 17 del libro del Levitico Dio proibisce agli Ebrei di sacrificargli animali selvatici e li invita apertamente a nutrirsi solo di carne condivisa con Lui tramite offerta sacrificale (Levitico 17, 1-16).

Forse è per questo aspetto di condivisione o per il riconoscimento che non solo la vita, ma anche tutto ciò che è necessario alla vita umana arrivi dalla divinità, che in alcune delle grandi religioni l’uccisione degli animali è sottoposta ancora oggi al controllo dei sacerdoti non solo nelle azioni sacrificali, ormai quasi del tutto abbandonate, ma anche in quelle motivate dal nutrimento umano, nel rispetto di un rigido protocollo volto a rendere quell’azione violenta non sacrificale comunque sottoposta all’accettazione della divinità e dunque ricondotta alla sfera del sacro. La sopravvivenza dell’umanità dipende da sempre dalla sua possibilità di nutrirsi e nell’evoluzione del pensiero religioso l’idea che la provvidenza divina sia in qualche modo colei che rende disponibile all’uomo il sostentamento di cui ha bisogno, si manifesta anche nei protocolli di soppressione degli animali sottoposta al controllo sacerdotale, e quindi ricondotta all’accettazione divina.

Ora però una buona parte del pensiero dell’Occidente si è allontanato da questa costante reciprocità tra profano e sacro, ritenendo necessario questo passaggio per liberarsi dai vincoli che ciò comportava, perdendo così un bagaglio di risposte a domande esistenziali sulle quali si trova inevitabilmente a riflettere, passando dall’incapacità colpevole di fermare distruzioni di interi habitat della natura alla drammatica consapevolezza che anche gli animali e persino le piante “soffrono”…

Un equilibrio va ricostituito: bisogna ribilanciare il rapporto tra il prendere il “necessario”e il dare; tornare a restituire alla Terra quello che prendiamo, un po’ come credo volesse fare l’uomo di Neandertal, la prima specie umana a praticare la sepoltura, che deponeva i suoi defunti nelle “sacre” foreste ai piedi di alberi secolari affinché la loro energia vitale tornasse da dove veniva, alla “sacra” Terra, trasformandosi in nuovo nutrimento per gli animali che lì vivevano.

1. Cit. Enciclopedia Treccani