Ruminanti, non solo alimenti

Dai ruminanti, bovini, ovicaprini, camelidi e altri, fin dall’antichità l’uomo non ha ricavato solo carne, latte e lavoro, ma anche pellicce e lane per coprirsi, pelli diversamente conciate, corna e ossa da impiegare per svariati usi. Non è da trascurare che forse la ceramica trae il suo nome da kèras, corno, usato come tazza per bere, che i libri antichi erano scritti su pergamena, detta anche cartapecora o carta pecudina e ricavata dalla pelle di animale (agnello o vitello), e che, fino a metà del secolo scorso, i contadini usavano il corno di bue per conservare la cote usata per affilare la falce. In una strana matematica gli animali non hanno cinque quarti (quattro di carni e uno di frataglie) ma sei, perché vi è anche quello costituito da corna, unghie e ossa usate per costruire i più diversi oggetti.

La pelle e il cuoio ricavati dalla pelle degli animali resa imputrescibile dalla concia sono serviti per millenni per fabbricare indumenti, sandali, scarpe e altri oggetto d’abbigliamento, per rivestire mobili di pregio e per tanti altri usi. Non è forse improprio ricordare che in uno dei più antichi libri della nostra cultura, la Bibbia, è scritto che l’uomo di sua iniziativa inizia a coprirsi con foglie di fico (Genesi 3: 7) ma l’Eterno Iddio fa ad Adamo ed a sua moglie il dono di tuniche di pelle e li veste (Genesi 3:20-21). In tempi a noi vicini, e soprattutto oggi, per diversi motivi gli oggetti di pelle e di cuoio sono stati sostituiti con surrogati vegetali o artificiali, con caratteristiche diverse da quelle naturali.

Sostituti del cuoio

Surrogato o sostituto, in tedesco ersatz, sono parole che agli anziani ricordano i tempi delle sanzioni comminate all’Italia dalla Società delle Nazioni e il periodo della guerra. In questi tristi tempi gli italiani si vestono con surrogati della lana, la fibra artificiale rayon o un filato ricavato dal latte (Lanital), mentre le scarpe sono di cuoio artificiale (Cuoital). Il Cuoital, surrogato italiano del cuoio negli anni dell’autarchia e della guerra, è prodotto dall’Industria Fibre e Cartone ed è ottenuto da una miscela di cascami di cuoio sfibrati, latex e gomma vulcanizzata; gli fanno concorrenza il Sapsa della Pirelli (cascami di cuoio macinati e lattice di gomma) e il Coriacel (cascami di cuoio, fibre vegetali e collanti). Il Cuoital è però il più conosciuto ed essendo prodotto dall’industria Fibre e Cartoni, ma soprattutto per le scarse qualità del prodotto, il popolo, e soprattutto i soldati italiani che durante la Seconda Guerra affrontano il gelo delle montagne greche e delle pianure russe, parla di “scarpe di cartone”.

Il ricorso ai sostituti del cuoio nel periodo dell’autarchia è la conseguenza di una politica agricola indirizzata soprattutto alla produzione di cerali, la cosiddetta Battaglia del Grano, con la conseguente riduzione degli allevamenti animali, in particolare bovini, dai quali ricavare anche pellami da trasformare in cuoio. Nei tempi presenti, invece, la sostituzione del cuoio e della pelle con finta pelle ricavata da gomma, materiali plastici di sintesi o da vegetali, la cosiddetta pelle vegana, è la risposta alla richiesta di chi non solo non vuole mangiare parti di animali, ma neanche indossarle.

Differenze tra vera pelle, finta pelle e pelle vegetale o vegana

La vera pelle o il vero cuoio ottenuti da animali hanno qualità uniche e durature, grande resistenza che si mantiene nel tempo ed elevata traspirabilità (che li differenzia da quella della gomma o plastica), con maggiore comodità per chi la indossa, idrorepellenza e termoisolanza dal freddo e dal caldo. La pelle e il cuoio sono materiali di recupero, perché gli animali non sono uccisi a questi fini e non utilizzare la loro pelle sarebbe uno spreco. I bovini e altri ruminanti sono allevati per la carne e il latte e la loro pelle, se non fosse utilizzata, sarebbe un materiale di scarto da smaltire. Non esistono, quindi, alternative più ecologiche alla pelle conciata al vegetale secondo gli standard ambientali Europei e italiani. L’Italia, da questo punto di vista, è un centro di eccellenza mondiale nel settore a livello di inquinamento e sostenibilità. La pelle è quindi anche ecologica o bio, soprattutto se conciata al vegetale quando si usano sostanze non dannose per l’uomo e l’ambiente e con un impatto ambientale molto basso o prossimo allo zero

La finta pelle che non ha alcun elemento di origine animale è un prodotto industriale ottenuto da materiali plastici, come il poliuretano (da qui il nome PU Leather), e sul quale sono impresse stampe per simulare un vero pellame. Spesso per produrre finta pelle si usano resine poliuretaniche spalmate su tessuti di diversa origine e composizione. I  vari tipi di finta pelle si differenziano in base ai materiali e al tipo di produzione; questi hanno inoltre diverse caratteristiche che non raggiungono però mai quelle della vera pelle o del vero cuoio. Con il tempo, la finta pelle tende sempre a rovinarsi, al contrario della pelle vera che se non tende a migliorare rimane sempre bella. Inoltre, la finta pelle è poco o niente traspirante perché composta da materiali plastici, risultando anche meno comoda che un uso quotidiano. I sostituti della pelle presentano limiti di utilizzo rispetto alla vera pelle e quando usano resine poliuretaniche hanno un importante impatto sull’ambiente.

La pelle vegana o pelle e cuoio vegetali, erroneamente detta anche ecopelle, è prodotta con materiali eco-sostenibili e considerata un’alternativa, come la finta pelle, all’utilizzo di prodotti di origine animale. Questi sostituti dei pellami e del cuoio sono ottenuti usando diverse matrici vegetali, tra le quali si possono citare gli scarti della lavorazione del vino, come raspi, bucce e semi d’uva, oppure partendo da mais, soia e fibra di cotone. Le fabbriche d’indumenti e scarpe Puma, Adidas e Nike stanno già testando i campioni di questa innovazione verde per offrire alla propria clientela prodotti vegani, esenti da materia animale. Per produrre materiali sostitutivi dei pellami e del cuoio sono state utilizzate anche le foglie dei pomodori, la buccia delle barbabietole e delle patate, e le foglie degli ananas: dalle 480 foglie di circa 16 ananas si estraggono le fibre che permettono di realizzare un metro quadrato di un materiale robusto che ricorda il cuoio e denominato “pelle di ananas”. Per produrre sostituti di pellami sono oggetto di studio anche miceli fungini coltivati su rifiuti organici e altri materiali vegetali come il sughero, le alghe o altre piante in cui il processo produttivo non incide negativamente sull’ambiente. In conclusione, la pelle vegana, nella stragrande maggioranza dei casi, è un falso mito, soprattutto in confronto ad un vero pellame animale conciato al vegetale.

Uso delle parole “pelle” e “cuoio”

La pelle e il cuoio sono in commercio da almeno cinque millenni e negli ultimi cinquecento anni sono stati oggetto di molteplici tentativi di imitazione. Già nel corso del Medioevo, una delle funzioni delle gilde competenti era di accertarsi della fedeltà della qualificazione del prodotto come pelle o cuoio, addirittura dotandosi di poteri diretti di perquisizione, sequestro e pubblica distruzione delle partite di materiale differente da quanto pretendeva di essere.

Le parole pelle e cuoio possono essere utilizzate per designare un materiale diverso da quello ottenuto dalla pelle animale?

Nota è la discussione in corso sull’uso della parola “carne” per i sostituti delle carni di animali con vegetali diversamente trattati o con materiali derivati da coltivazioni cellulari; lo stesso è per l’uso delle parole pelle e cuoio per i materiali sintetici o vegetali. La difesa dei termini pelle e cuoio avviene soprattutto in paesi quali l’Italia, la Francia e altri che, per tradizione, hanno sviluppato una grande attività artigianale e artistica di prodotti di alta moda di pelle e cuoio naturale arrivando ad una grande reputazione di qualità e nobiltà.

In Italia la Legge n. 1112/1966 stabilisce che i nomi «cuoio», «pelle» e i termini che ne derivano o loro sinonimi siano riservati esclusivamente ai prodotti ottenuti dalla lavorazione di spoglie di animali sottoposte a trattamenti di concia o impregnate in modo tale da conservare inalterata la struttura naturale delle fibre, nonché́agli articoli con esse fabbricati. È vietato mettere in vendita o altrimenti in commercio con i nomi «cuoio», «pelle» e loro derivati o sinonimi, ovvero sotto i nomi generici di «pellame» e «pelletteria», prodotti che non siano ottenuti esclusivamente da spoglia animale, e le disposizioni si applicano anche ai prodotti importati dall’estero.

Con il tempo i prodotti conciari italiani sono diventati un’eccellenza in ambito internazionale, anche grazie all’utilizzo di nuove tecnologie di produzione che riducono l’impatto ambientale (utilizzo di nuovi metodi di depurazione delle acque e riduzione degli agenti inquinanti) e massimizzano la tutela del consumatore attraverso l’eliminazione dalle fasi di lavorazione dell’impiego di agenti pericolosi per la salute. Per questo, rispetto all’impianto normativo del 1966, si è posta l’esigenza di adeguare la normativa nazionale a quella europea, aggiornare la definizione delle caratteristiche qualificanti dei prodotti, predisporre un’efficace tutela contro condotte concorrenziali scorrette, provenienti da chi – soprattutto all’estero – non usando le accortezze suddette e violando specifiche disposizioni normative nazionali ed europee, pone sul mercato prodotti pericolosi per la salute dei consumatori o fabbricati con tecniche a forte impatto ambientale. Per questo con l’articolo 7 della legge 3 maggio 2019, n. 37 (Legge europea 2018), il Governo è stato delegato ad adottare, entro il termine di dodici mesi dalla data di entrata in vigore della legge stessa (26.05.2019), un decreto legislativo che disciplina l’utilizzo dei termini «cuoio», «pelle» e «pelliccia», e di quelli da essi derivati o loro sinonimi, nel rispetto della legislazione dell’Unione europea nei settori armonizzati e dei pertinenti principi e criteri direttivi generali di cui all’articolo 32 della legge 24 dicembre 2012, n. 234, recante “Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea”.

 

 

Giovanni Ballarini, dal 1953 al 2003 è stato professore dell’Università degli Studi di Parma, nella quale è Professore Emerito. Dottor Honoris Causa dell’Università d’Atene (1996), Medaglia d’oro ai Benemeriti della Scuola, della Cultura e dell’Arte del Ministero della Pubblica Istruzione della Repubblica Italiana, è stato insignito dell’Orde du Mérite Agricole della Repubblica Francese. Premio Scanno – Università di Teramo per l’Alimentazione nel 2005, Premio Giovanni Rebora 2014, Premio Baldassarre Molossi Bancarella della Cucina 2014, Grand Prix de la Culture Gastronomique 2016 dell’Académie Internationale de la Gastronomie. 

Da solo e in collaborazione con numerosi allievi, diversi dei quali ricoprono cattedre universitarie, ha svolto un’intensa ricerca scientifica in numerosi campi, raggiungendo importanti e originali risultati, documentati da oltre novecento pubblicazioni e diversi libri. 

Da trenta anni la sua ricerca è indirizzata alla storia, antropologia e in particolare all’antropologia alimentare e anche con lo pseudonimo di John B. Dancer, ha pubblicato oltre quattrocento articoli e cinquanta libri, svolgendo un’intensa attività di divulgazione, collaborando con riviste italiane, quotidiani nazionali e partecipando a trasmissioni televisive. Socio di numerose Accademie Scientifiche è Presidente Onorario dell’Accademia Italiana della Cucina e già Vicepresidente della Académie Internationale de la Gastronomie.