Milanese di nascita, Riccardo Facciolo è un analista programmatore con una passione legata ai ricordi ed alle origini della famiglia: la vita in campagna. La vita a Sesto San Giovanni (MI) lo ha portato ad affrontare una professione distante dalla sua reale passione, ma il licenziamento nel 2016 lo ha portato ad una svolta importante della sua vita, riavvicinandolo al mondo agricolo. Dividendosi tra attività nell’informatica e campagna, la sua voglia di fare lo vede primo nella valorizzazione di un formaggio che sembrerebbe essere il “bisnonno” del Castelmagno: la toma del legno.
Riccardo, ci può raccontare di questa sua avventura dal mondo della programmazione di software a quello di allevatore e casaro?
É un sogno che ho sin da quando ero ragazzo. Essendo cresciuto a Sesto San Giovanni, la realtà non mi permetteva di vivere a pieno questo desiderio, allora mi sono riciclato nell’informatica, lavorando a tempo pieno per 25 anni. Nel 2016, quando l’azienda per cui lavoravo ha venduto il mio reparto, sono rimasto senza lavoro. Allora, con mia moglie, ho deciso di dare una svolta alla nostra vita e ho fatto un investimento acquistando una cascina a Dorzano (BI) e quattro vacche, avviando così l’attività.
Perché avete scelto proprio Dorzano? Ci sono dei legami emozionali?
In realtà il nostro progetto nasce con l’obiettivo di riportare in vita la borgata a 1500 m di altezza, vicina a Ronco Canavese, dove nacquero mia madre e mia nonna. Per raggiungerla, c’è solamente una mulattiera di 2,6 km, che non permette di trasportare agevolmente il materiale necessario per costruire stalla e laboratorio di caseificazione. Poi c’è da considerare che le condizioni climatiche invernali, senza strade facili da percorrere, sarebbero state difficile sia per me che per le mie vacche. Il posto più vicino dove poter stabilire l’attività, che fosse nel pieno della natura incontaminata e che avesse una struttura fruibile per i miei obiettivi, era appunto a Dorzano. Con la valorizzazione della Toma del legno e con la mia attività, vorrei stimolare le autorità locali a prendere l’iniziativa per intervenire sulle infrastrutture per raggiungere la borgata nel canavese, in modo che possa portare il materiale a 1500 m nelle mie proprietà, che peraltro si trovano all’interno del Parco Nazionale del Gran Paradiso.
Parliamo della Toma del Legno. L’opera di valorizzazione che ha intrapreso è curiosa e sicuramente molto importante per il mondo dei prodotti agroalimentari tipici. Come è arrivato a scegliere proprio questo formaggio?
L’ultima produzione della toma del legno risale al 1950, anno in cui venne dismessa. É sorprendente che neppure i manuali di arte casearia parlino di questo prodotto. L’unica fonte attendibile per poter lavorare sulla toma del legno sono i miei ricordi dei racconti di mia nonna, che mi ha tramandato la ricetta. Dai ricordi sono risalito quindi a come produrre la toma.
Ha delle prove che effettivamente il prodotto rispetti le caratteristiche di gusto e aromi che aveva nel passato?
Ho fatto assaggiare a un gruppo di anziani di 80-90 anni del Canavese la toma da me prodotta. Mi hanno confermato che il gusto e il profumo sono esattamente quelli che percepivano anni fa mangiando la toma del legno. Anche la consistenza della pasta, granulosa e friabile, è la stessa che si sarebbe avuta anni fa.
Un panel di degustazione d’eccezione… come hanno affrontato questa degustazione?
Sono stati assolutamente felici della mia iniziativa, affrontandola con entusiasmo.
Ma perché questo formaggio si chiama “toma del legno”?
È una curiosità che stiamo cercando di toglierci, ma le informazioni si perdono nella notte dei tempi. Pare che, poiché la pasta risulta essere molto friabile, essa ricordi i trucioli di legno, da qui Toma del legno o Tomà Bohc, in dialetto franco-provenzale della Val Soana. Anche il dialetto è una lingua ormai perduta, io lo comprendo perché mia nonna comunicava con me esprimendosi in dialetto.
Quali sono i progetti per il futuro della sua azienda e per il suo prodotto?
Vorrei poter aumentare il numero di vacche per aumentare la produzione di latte e quindi di formaggio. L’obiettivo è quello di recuperare le mie proprietà all’interno del Parco Nazionale del Gran Paradiso per utilizzare l’erba dei pascoli del Canavese, che danno dei sentori diversi al latte ed al prodotto finito. Inoltre, vorremmo unirci al gruppo dei piccoli produttori biellesi per farci conoscere attraverso sagre e mercati.
Per quanto riguarda le vacche, che razza ha scelto di allevare?
Si tratta di una razza alpina autoctona in via d’estinzione. Ha una bassa produttività di latte, ma qualitativamente molto valido. Con due munte al giorno, ottengo intorno ai dieci litri di latte che, con soli quattro capi, non mi permettono di produrre più di due chili di formaggio al giorno.
Valorizzazione della biodiversità, impegno nel mantenere viva una tradizione, quella della toma del legno, voglia di riportare in vita borghi di montagna. Le piacerebbe che la toma del legno venisse inclusa tra i Prodotti Agroalimentari Tradizionali dell’Italia?
Assolutamente sì!