In uno stimolante articolo di Alessandro Trocino dal titolo Se hai a cuore gli animali, mangiali»: il teorema del carnivoro (e la risposta che lo smonta)”, pubblicato il 1° Febbraio 2022 sul supplemento Animalia del Corriere della Sera, viene affrontato il tema molto complesso dell’allevare gli animali per cibarsene. Il pensiero prevalente è quello di evitare di parlarne, perché la morte, anche di un animale, è un aspetto che, in particolare nella cultura occidentale, crea disagio.

Nell’articolo di Trocino viene riportata l’opinione del filosofo Nick Zabgwill che sostiene che se non ci nutrissimo di animali, non li alleveremmo e non nascerebbero”. Le affermazioni di Zabgwill sollevano le enormi contraddizioni dell’ancestrale rapporto dell’uomo con il pianeta e le altre specie animali. In natura è rarissimo che un animale muoia di morte naturale, sia esso preda o predatore. Infatti, quando le forze per nutrirsi e difendersi gli vengono a mancare, esso diventa cibo potenziale per altri. Questo per la morale di una parte delle culture umane è inaccettabile, mentre è la normalità per la leggi della natura.

L’incessante tentativo dell’uomo occidentale di rendere tutto artificiale, anche gli altri animali, lo porta inevitabilmente ad antropomorfizzarli, e quindi ad attribuirgli gli stessi desideri e le stesse ansie che lui ha, come il terrore della morte. Il fine vita, ossia la morte, è un aspetto da cui la vita trae giovamento, perché utilitaristicamente è funzionale alla vita stessa di altre specie. Pertanto, l’allevare o cacciare gli animali per cibarsene sono pratiche antiche e naturali, e assolutamente accettabili per la natura umana, a patto che la caccia non sia un atto crudele fine a se stesso e che l’allevamento non sia un luogo che nega il diritto degli animali a vivere una vita degna di essere vissuta.

Per alimentare questo importante e non più rimandabile dibattito, abbiamo chiesto ad autorevoli pensatori italiani la loro opinione sull’argomento. Ma prima di scoprirla, vi consigliamo la lettura dell’articolo di Alessandro Trocino che ha generato questo interessante dibattito e che trovate qui.

Vediamo ora le opinioni sull’argomento del Prof. Giovanni Ballarini, del Prof. Giuseppe Pulina e del Dott. Pasqualino Santori.

Mangiar carne, dovere morale?

Giovanni Ballarini – Professore Emerito dell’Università degli Studi di Parma e Presidente Onorario dell’Accademia Italiana della Cucina.

Nick Zangwill è un filosofo britannico, professore di ricerca onorario all’University College di Londra e alla Lincoln University negli USA. È noto per la sua esperienza in filosofia morale, in particolare metaetica, estetica, filosofia della musica e delle arti visive, e di recente si è messo alla prova su di un argomento di moda, soprattutto nel mondo anglosassone, e cioè quello dei vegetariani e vegani e dell’alimentazione carnea umana. Le opinioni di Nick Zangwill sono oggetto di diverse pubblicazioni che hanno suscitato interesse e discussioni soprattutto per il titolo provocatorio Our moral duty to eat meat (Nick Zangwill – Our moral duty to eat meat – Published online by Cambridge University Press, 14 june 2021. Journal of the American Philosophical Association – 7 (3), 295-311, 2021). Negli scritti su Il nostro dovere morale di mangiare carne il filosofo sostiene che mangiare carne è moralmente buono e nostro dovere, perché fa parte di una pratica che giova agli animali. Secondo Zangwill, l’esistenza di molte specie di animali domestici (manzi, maiali, polli ecc,) dipende dalla pratica di mangiarli, e la pratica del consumo di carne avvantaggia questi animali se hanno una buona vita, ma non si applica agli animali non addomesticati.

L’argomento della carnivorità umana da Nick Zangwill è basato soprattutto su elementi filosofici e storici, ma non manca di considerare altri aspetti, come quelli del benessere degli animali e dell’impatto ambientale degli allevamenti intensivi, con considerazioni su elementi peraltro molto discussi, come quelli della psicologia degli animali allevati e quindi dei loro eventuali diritti che ci impedirebbero di mangiarli.

Gli scritti di Zangwill danno origine a commenti e soprattutto contestazioni, la più forte delle quali è di Adrian Kreutz del New College della University of Oxford che sul suo post scrive No, We Don’t Owe It To The Animals to Eat Them (No, non dobbiamo mangiare gli animali) contestando soprattutto l’affermazione di Zangwill che uccidere gli animali in realtà faccia loro bene permettendo la loro esistenza, e che quindi per questo dobbiamo continuare a mangiare carne e consumare prodotti animali.

La discussione filosofica sul mangiar carne come elemento di mantenimento in vita degli animali domestici produttori di carne, sia pure in condizioni di benessere loro e dell’ambiente, è comunque molto debole se non discutibile, e per molti non accettabile, nonostante Zangwill associ il suo ragionamento ad altri ben più solidi argomenti di tipo biologico, storico e culturale, ai quali noi aggiungiamo quelli di ordine nutrizionale umano. La discussione innescata dall’articolo di Zangwill, che sfrutta anche il titolo provocatorio che il mangiare carne sia un dovere morale e non invece il più importante e determinante dovere biologico-nutrizionale, è d’interesse più per il filosofo di farsi conoscere, anche attraverso una reazione polemica dei vegetariani e vegani, che non per una reale conoscenza del complesso problema della carnivorità umana.

Cercare un senso della vita a ogni costo: il teorema del pollo per gonzi

Giuseppe Pulina – Professore Ordinario di Etica e Sostenibilità degli Allevamenti Università di Sassari 

Ci sono persone che sanno di non sapere, e sono i saggi; ce ne sono altre che sanno di sapere, e sono gli studiosi; altre ancora non sanno di sapere, e sono gli ingenui; infine, c’è un nutrito gruppo che non sa di non sapere, e questi sono i cretini. A questa ultima categoria appartengono coloro che, prendendosi allegramente beffa delle altre tre, soprattutto della seconda, pontificano sull’intelligenza altrui senza accorgersi che è proprio questo il terreno su cui si misura la propria. Un esempio preclaro lo si ha dalla lettura dell’articolo apparso su uno dei blog del Corriere della Sera in cui si prende in giro l’articolo dal titolo “Why you should eat meat. Not eating animals is wrong. If you care about animals, then the right thing to do is breed them, kill them and eat them scritto da Nick Zangwill, professor of philosophy and honorary research fellow presso l’University College London, che ha anche pubblicato libri su Aesthetic Creation (2007) e su Music and Aesthetic Reality (2015). Il ragionamento dello studioso, che in quanto tale appartiene alla seconda delle categorie citate, ma in quanto filosofo anche alla prima, è rigoroso e, malgrado non sia piacevole, si basa da un lato sulla dottrina utilitaristica secondo cui ogni vita ha senso se vale la pena di essere vissuta, e dall’altro sulla negazione del senso finalistico (teleologico) della vita. Queste due posizioni, apparentemente contrastanti, sono composte dallo studioso il quale afferma che essendo gli animali da allevamento (e anche quelli da compagnia per altro verso) privi di coscienza del sé, l’unico bene che loro possiedono è l’esistere; ma se noi non decidessimo di mangiarli, loro non avrebbero neanche questo unico bene, per cui mangiarli e farli esistere è un bene per loro. Il che, letto sotto il profilo strettamente evoluzionistico non fa una grinza: il successo di poche specie (quelle che si sono dimostrate adatte alla nostra domesticazione) sulle altre è l’unica finalità (se ne esiste una) della vita. Il loro successo evolutivo è anche il nostro: dopo aver sterminato la macrofauna del pliocene (il che la dice lunga sul carnivorismo di H. sapiens), la nostra specie si è trovata in tali ristrettezze che ha dovuto “inventarsi” la domesticazione di animali, prima, e piante dopo. Non solo il consumo di carne, cioè l’uccisione degli animali, ha consentito a noi e a loro di sopravvivere, ma anche di diventare le specie dominanti (culturalmente e biologicamente) sul pianeta. 

La risposta non si è fatta attendere: “No, We Don’t Owe It To The Animals to Eat Them” scritta da Adrian Kreutz del New College, University of Oxford  il cui argomento principe è l’elencazione di una serie di casi marginali da cui deriverebbe che se è lecito far nascere un animale per ucciderlo, lo è anche far nascere un figlio per ucciderlo. Contro questo tipo di argomentazioni esiste una sterminata letteratura, resa attuale dalle istanze antispeciste e animaliste che, appiattendo tutte le differenze fra gli esseri viventi, negano alcun posto privilegiato all’H. sapiens e alle sue azioni. Per chi fosse interessato al dibattito, suggerisco il libro “The end of animal life: a start for ethical debate” (Wageningen Academic Publishers). Per coloro che si avvicinano a questo argomenti armati della cultura e del buon senso, da praticarsi anche alla luce del recente riconoscimento del rispetto degli animali nella nostra Costituzione, indico una risposta operativa, magari semplice, sicuramente non banale: rispettiamo tutte le vite (da quelle dei nostri simili ai ratti delle fogne; dai nostri pet alla zanzara), senza però mai perdere di vista, magari con circonvoluti sofismi o con argomenti privi di qualsiasi fondamento, ciò che per la comunità umana è utile e ciò che è dannoso. 

Il consumo della carne

Pasqualino Santori – Presidente Istituto di Bioetica per la Veterinaria e l’Agroalimentare

La questione se sia giusto o sbagliato mangiare carne è fortemente sentita. Forse è uno dei ragionamenti più accattivanti tra quelli un pò banali di una riunione tra amici. L’argomento, proprio perché pubblico e perché di notevole portata teorica, interessa la Filosofia.

Generalmente però chi si occupa di certi temi ha già una sua posizione critica sui consumi di origine zootecnica; quindi ben venga l’opinione diversa di Nick Zangwill.

Che ci sia un dibattito tra parti intenzionate a far valere i propri argomenti è utile prima di tutto agli allevatori, anzi agli agricoltori in generale, per una serie di ragioni che cercherò di esporre brevemente.

Mi occuperò solo di questioni etiche, anzi di etica applicata, col fine di raggiungere degli obbiettivi pratici (la finalità della Bioetica), come quelli dei consumi quotidiani. Le questioni salutistiche, di gusti alimentari, di corretta alimentazione vanno separate dalle scelte morali e portano a un dibattito meno teso, mediato da dati scientifici e da una medicina che nei paesi ricchi può prevenire e curare anche i più grossi errori alimentari.

Perché è utile per i produttori partecipare a un dibattito bioetico sul consumo di carne? Perché hanno molti argomenti validi da spendere e perché non è giusto che vengano tenuti, standone fuori, in una posizione di minorità. E in ultima analisi perché da imprenditori, se dovessero scoprire, cosa che non credo, che il consumo di carne non ha futuro, potrebbero decidere di chiudere prima di fallire.

Per alcuni versi gli allevatori (e non tutta la filiera compresi i consumatori) hanno la posizione più animalistica, non potendo volere che i propri prodotti possano finire per costituire delle commodity, soggette agli alti e bassi di mercato. Cosa che non dovrebbe accettata per degli esseri senzienti. La questione dell’allevamento non industriale come comunità antrozoologica con interessi comuni tra allevatori, animali e consumatori responsabili, sarà uno degli argomenti che l’IBVA vorrà approfondire in futuro.

La filosofia che si occupa di animali segue essenzialmente due filoni: quello del “diritto” alla vita e quello del “diritto alla qualità della vita”. Nessuno in questo momento difenderebbe l’idea che gli animali debbano essere trattati come oggetti animati ma insensibili, a parte qualche improbabile cartesiano dell’ultima ora contrario all’articolo 13 del patto di Lisbona.

Già questo è un bel dibattito, ma in effetti le cose sono molto più complesse e spesso le possibili soluzioni controintuitive. Vanno aggiunte considerazioni morali sul cibo in generale e il rispetto per chi lo produce, le questioni legate al clima, la biodiversità e l’agrobiodiversità, da cui gli esseri umani dipendono ancora di più ma di cui non si parla, il concetto di natura ecc.

La Bioetica ci aiuta a trattare questi temi evitando le polarizzazioni, in modo pacato e rispettoso delle parti; di tutte le parti, e non solo quelle che hanno più facile accesso ai divulgatori che ben infarciti di preconcetti non fanno il minimo filtro.

Dicevamo del comune interesse di allevatori e animali a non finire nel tritacarne delle commodity, ma nella stessa condizione è tutta la produzione agricola e tutti i produttori di cibo. A ogni generazione nei paesi ricchi, da millenni, il numero degli agricoltori diminuisce, e il basso numero percentuale di addetti all’agricoltura è considerato indice della ricchezza di un paese. Ma perché gli agricoltori lasciano la campagna che tutti dicono di amare? Perché è un lavoro più povero, difficile, duro, soggetto a fallimento. Ci si dovrebbe porre il problema di etica pubblica del cibo consumato e non autoprodotto, visto il dato oggettivo che lo spopolamento delle campagne e l’abbandono delle attività agricole costituisce dall’inizio del neolitico. Quindi dovrebbe esserci un problema morale verso tutti i consumi anche quelli vegetali? Le filiere a marchio etico vorrebbero rispondere a questo problema ma, a parte la marginalità, ci riescono?

Le ricerche sulla sensibilità e addirittura intelligenza dei vegetali proseguono e si affermano. Nessuno dice che non si possono uccidere i vegetali, ma se c’è onestà intellettuale non si può disconoscere questo dato e non lo si può semplicemente ignorare.

Allora che si dovrà fare? Morire di fame? Non direi, ma si può passare dalla visione perfezionistica dell’essere umano, quasi angelo, che mangia solo il “giusto” col marchio giusto per il solo problema messo all’ordine del giorno, a un essere umano che riconoscendo le difficoltà dell’orientarsi nella complessità cerca di fare il meno peggio senza ergersi a Solone.

Proprio in questo ambito emerge una grande contraddizione, quella tra vegani e vegetariani. Il vegetarianesimo è integrabilissimo con l’alimentazione storica di chi mangia ciò che c’è (onnivoro). C’è chi mangia tutto e chi mangia solo alcune cose (latte, uova ecc.). Ma tra coloro che sono vegani o vegetariani per ragioni morali, il conflitto dovrebbe essere più forte in quanto i secondi pur riconoscendo un “male” non riescono a fare a meno di farlo, tenendo in vita allevamenti che producono latte e uova.

Considerando che tutti ai nostri giorni sono animalisti o ambientalisti, nessuno è contro, bisogna rilevare che la differenza è tra chi lo è in senso ideologico e chi non lo è. Non giudico negativamente il conflitto se portato avanti con argomenti e ricorrendo allo sforzo intellettuale, anzi credo che trattarlo possa permettere grandi avanzamenti.

C’è però un altro conflitto sempre un pò sottotraccia, quello tra animalismo e ambientalismo ideologico. Gli animalisti hanno prima di tutto a cuore i diritti/interessi del singolo individuo animale, al contrario gli ambientalisti considerano prima di tutto la specie che come entità non prova alcuna sofferenza. Il risultato conflittuale di questa contrapposizione tenuta nascosta, spesso, sembra scaricarsi sulla parte debole costituita dagli allevatori.

Probabilmente da tutto ciò deriva il non vedere l’incoerenza nel fare appelli per le stragi di agnelli a Pasqua e non altrettanto per le stragi di pecore uccise dai lupi. I lupi, evidentemente visti come animali totemici più che reali, debbono subire ritorsioni che prima non dovevano subire quando erano in minor numero. Questo per usare l’argomento che Zangwill contrasta, ma che viene usato da chi dice che per eliminare la sofferenza degli animali domestici bisognerebbe eliminare gli stessi animali domestici, e non magari, occuparsi di qualcosa di completamente nuovo come la “Macellazione inconsapevole” (CBVA 2018). La motivazione ecologica iniziale delle scelte dei decenni scorsi che stanno portando ad arcaiche battaglie tra umani, lupi, pecore e cani da guardiania non sarà sufficiente se si produrrà il danno ecologico reale dello spopolamento dei pascoli alpini e appenninici. 

Si potrebbe continuare con molte altre questioni che costituiscono il panorama di complessità di questo mondo che mette in relazione i produttori di cibo con i consumatori, oggigiorno soprattutto cittadini, ma bisogna però accennare a quella che per alcuni sarà la soluzione finale di tutti i problemi, la carne sintetica.

Sarà sicuramente un successo visti i capitali investiti e le personalità degli investitori ma se lo dovesse essere troppo, finirebbe per aggravare il problema ecologico principale, quello della fertilità dei suoli, le poche dita di crosta terrestre che permettono la vita sulla terra.

Le rotazioni agrarie prodotte dalle foraggere e le deiezioni di animali che vivono in equilibrio col territorio, in aziende agricole che possano avere una certa tranquillità economica con un consumatore finale responsabile delle proprie azioni di acquisto, potrebbero essere uno dei drive di quel mondo futuro che si va ricercando.