I lettori attenti di Ruminantia conosceranno bene il nostro pay off “libero confronto di idee“, espressione della linea editoriale della rivista che rifiuta gli scontri ideologici e crede invece che un dialogo costruttivo e argomentato sia l’unico modo per trovare soluzioni concrete.
Per questo ospitiamo spesso idee e punti di vista diversi, ma sempre argomentati e ragionati, e abbiamo aperto la possibilità di inviare “Lettere alla redazione“.
Di seguito pubblichiamo quindi la lettera inviataci da Damiano Di Simine, tecnologo alimentare e responsabile scientifico di Legambiente Lombardia, in risposta a quella dalla Dott.ssa Alessia Tondo “Allevamenti e inquinamento: e se iniziassimo a guardare veramente ai dati? L’appello di Alessia Tondo ai giornalisti” pubblicata nelle scorse settimane su Ruminantia.
La lettera
Mi permetto, con rispetto, di inserirmi nel dibattito sul futuro della zootecnia. Prendo spunto dall’articolo a firma di Alessia Tondo, e dal suo invito a guardare i dati dell’impronta climatica dell’agricoltura italiana.
Dobbiamo allora prendere atto che i dati (fonte ISPRA – inventario nazionale delle emissioni climalteranti) non ci riservano forti emozioni. Tutt’altro.
Per le emissioni climalteranti del comparto agricolo infatti il diagramma è piatto. Avevamo emissioni per 32,6 milioni di tonnellate di CO2 equivalente nel 2010, diventate 32,9 Mt nel 2021. Poi nel 2022 un tuffo al cuore: un calo inedito di ben 2,1 Mt, – 6% in un anno. Guardando dentro questo numero scopriamo che riflette il crollo dei consumi di fertilizzanti azotati (e quindi delle emissioni di protossido di azoto): ISTAT calcola che nell’agricoltura italiana il consumo di azoto reattivo sia passato da 540.000 tonnellate nel 2021 a 300.000 t nel 2022. Una riduzione del 44% in un anno, più del doppio dello sfidante obiettivo decennale della strategia europea ‘from Farm to Fork’! Troppo, per essere considerato un solido dato strutturale, dunque aspettiamo ad esultare.
Passando alla zootecnia, il diagramma dedotto dai dati ISPRA è ancora più piatto: dal 2010 al 2022 le emissioni climalteranti del settore si muovono all’interno di una forbice strettissima di valori compresi tra 20 e 20,5 Mt annue di CO2 equivalente. Questo significa che i miglioramenti, che pure ci sono stati ad esempio nella gestione dei liquami, sono stati complessivamente modesti e in gran parte controbilanciati dagli aumenti emissivi riferiti alla componente enterica.
Per fare un paragone, nello stesso periodo, il settore industriale ha ridotto le proprie emissioni di quasi il 30%: il settore agrozootecnico appare destinato ad aumentare la propria quota, in termini relativi, sul bilancio emissivo nazionale. Un destino inevitabile? Credo di no, o almeno lo spero.
Nel leggere i dati dobbiamo evitare di ricorrere ad artefatti narrativi consolatori, come quelli di un supposto effetto benefico del metano per mitigare l’effetto serra. E’ vero che il metano, di cui il settore agrozootecnico è la prima fonte emissiva in Italia (pesa per oltre il 45% delle emissioni di questo gas, per confronto la somma delle emissioni generate da impianti industriali ed energetici si attesta al 15% ed è in riduzione), ha una vita in atmosfera più breve di altri gas climalteranti, ma questa non è una attenuante, bensì un elemento di maggiore urgenza: tutti gli organismi internazionali impegnati dall’accordo per la riduzione del metano sottoscritto alla COP 26 di Glasgow (il Global Methane Pledge) richiamano all’importanza strategica di ridurre le emissioni di questo gas proprio perché ciò assicurerebbe effetti climatici positivi a più breve termine (parliamo di decenni, anziché di secoli) rispetto alla sola riduzione della CO2. Senza dimenticare che la degradazione chimica del metano atmosferico non avviene a costo zero: il metano è infatti uno dei precursori dell’ozono, di cui in particolare la Pianura Padana è un hotspot europeo, gas inquinante che causa danni severi alla salute umana ma anche alle colture agricole e alle foreste.
Anche la retorica degli assorbimenti va ricollocata: se gli assorbimenti di gas climalteranti da parte di suoli e vegetazioni in Italia aumentano, non è per ‘merito’ dell’attività agricola, ma un effetto del ridimensionamento delle sue superfici. Esse infatti si trasformano progressivamente in foreste, dove colture e pascoli vengono abbandonati. Siamo sicuri che sia stato un bene, in un Paese con relativamente poco territorio agricolo, la perdita di oltre 4 milioni di ettari di SAU collinare e montana negli ultimi cinquantanni? Una foresta in crescita assorbe CO2, certo, ma non produce foraggio. La dipendenza della zootecnia nazionale dall’importazione di mangimi da Paesi terzi, in cui le superfici coltivate crescono a spese delle foreste o delle praterie originarie, è in crescita: si parla di ‘deforestazione esportata’, ancorchè non contabilizzata negli inventari nazionali. Oltre a ciò non giova alla reputazione del nostro agroalimentare un ‘made in Italy’ la cui materia prima mangimistica è importata, come lo sono il mais dell’Est Europa o la soia sudamericana.
Il settore dell’allevamento è chiamato a fare la sua parte, come tutti gli altri settori dell’economia nazionale, per la transizione ecologica e la riduzione della propria impronta climatica. Ci sono sicuramente sentieri di innovazione che vanno perseguiti, ad esempio nella gestione delle deiezioni anche attraverso la produzione di biogas. Ma occorre anche ripensare gli ordinamenti produttivi nelle aree del Paese che hanno puntato troppo sulla zootecnia intensiva e sulla concentrazione in grandi o grandissimi allevamenti slegati dal territorio e dalla sua produzione primaria. Come farlo, come ridurre i numeri di capi, senza compromettere il reddito di chi vive di allevamento? Non ho soluzioni pronte, ma un suggerimento arriva da un altro articolo della vostra rivista, quello firmato da Alessandro Fantini, che interrogandosi sul successo del marketing delle bevande alcoliche nota come, a proposito del vino, esso “lo ha trasformato da alimento presente su tutte le tavole degli italiani ad esperienza sensoriale, sacrificando i volumi di vendita ma amplificando i profitti”.
Vino e prodotti di origine animale: al di là degli accostamenti gastronomici, stiamo parlando di due categorie merceologiche profondamente differenti, ma accomunate da una forte propensione all’export, e da una componente sensoriale che tende a prevalere, nei comportamenti di consumo, rispetto al valore nutrizionale in sé, specialmente se parliamo di prodotti che afferiscono alle grandi DOP nazionali.
Produrre (e consumare!) meno, ma con più alta qualità intrinseca del prodotto di origine animale, e con un marketing che ne sappia valorizzare il legame con il territorio: non può essere questo un percorso da intraprendere per la ristrutturazione della zootecnia italiana, in chiave di sostenibilità e di protagonismo dei produttori primari all’interno della filiera?
Damiano Di Simine, tecnologo alimentare e responsabile scientifico di Legambiente Lombardia