Nonostante la presenza di dati più o meno certi sulle emissioni di gas serra della zootecnia e dell’agricoltura, c’è ancora molta confusione nell’opinione pubblica e nella politica su cosa fare per ridurre la produzione di gas climalteranti.

Di seguito pubblichiamo la lettera inviataci dal Dott. Luca Buttazzoni, ex Direttore Centro di ricerca Zootecnia e Acquacoltura del CREA, che identifica il ruolo della zootecnia in questo contesto e quali sono le misure che dovrebbero essere messe in atto.

La lettera

Gentile redazione,

il 26 settembre scorso, Ruminantia ospitava una mia lettera nella quale documentavo le ragioni per cui le emissioni di metano di origine agricola, quasi tutte zootecniche, non potevano essere responsabili del cambiamento climatico se non in misura trascurabile. Di contro, sostenevo che la zootecnia può contribuire, nei limiti delle proprie emissioni, alla mitigazione del riscaldamento globale.

Successivamente mi è successo di sostenere le stesse tesi in dibattiti pubblici, riscontrando che le mie argomentazioni venivano considerate un modo per evitare che la zootecnia “facesse la sua parte”.

La questione è affatto diversa e molto più seria, e vorrei provare ad esporla in termini più diretti.

Mentre continua la pressione mediatica contro gli allevamenti, anche nel settore zootecnico si stanno diffondendo sistemi di certificazione ambientale degli allevamenti basati sulla metrica standard dell’IPCC, denominata GWP100, la quale equipara i gas a seconda del loro potere radiativo, ma che non tiene conto delle sostanziali differenze nella loro permanenza in atmosfera.

Mentre la permanenza della CO2 si avvicina al millennio, quella del metano è di circa 10 anni. La conseguenza è che, mentre lo stock di CO2 in atmosfera aumenta continuamente, lo stock del metano raggiunge un equilibrio nell’arco di 10 anni e poi segue le emissioni, rimanendo costante ad emissioni costanti e aumentando o diminuendo con esse.

Non esiste quindi una diretta correlazione tra emissioni e potenziale di riscaldamento globale, perché oltre alla differenza nel potere radiativo dei diversi gas va considerata la loro permanenza in atmosfera.

La conseguenza è che il metano di origine biogena recente, come quello di origine enterica, non partecipa al riscaldamento globale a meno di aumenti di emissioni che possono avvenire in pratica solo a seguito di sostanziali aumenti nel numero di animali allevati: aumenti che, come si è visto, sono difficilmente riscontrabili in Italia (e anche in Europa).

È a tutti noto il grafico con cui la Commissione europea ha illustrato la traiettoria verso l’obiettivo i “Zero emissioni” climalteranti nel 2050:

Questo grafico viene spesso invocato da chi non ama gli allevamenti: essi accusano il comparto di mantenere le emissioni di “Gas diversi dalla CO2 di origine agricola” pressocché costanti nel tempo. Addirittura, si sostiene che le emissioni agricole vanno aumentando il loro peso sul totale delle emissioni.

Il punto è che le emissioni non corrispondono al riscaldamento: dovrebbe far riflettere in tal senso il fatto che l’obiettivo “emissioni zero” al 2050 non corrisponde a “zero riscaldamento”, ma ad un aumento di temperatura di 1,5 °C.

Il motivo è che i gas a lunga permanenza (prima tra tutti la CO2) si accumulano in atmosfera. Se invece delle emissioni si considerasse il riscaldamento climatico da esse provocato, il grafico schematicamente apparirebbe come segue:

La curva blu rappresenta l’effetto cumulativo sul riscaldamento globale (°C) dei gas a lunga permanenza in atmosfera (LLG – Long Lived Gases) e le linee orizzontali arancione e verde l’effetto del metano biogeno (enterico e da reflui) sul riscaldamento globale (dalle percentuali CO2 eq. In Italia e in Europa).

Il grafico tende ad un asintoto corrispondente ad un aumento di temperatura di 1,5 °C, ed i rapporti rappresentano più o meno quelli del rispettivo potenziale di riscaldamento. Quindi, contrariamente dall’impressione che si potrebbe ricavare dal grafico delle emissioni, finché si raggiungerà la neutralità climatica il contributo percentuale della zootecnia al riscaldamento globale si ridurrà.

Questo perché il contributo del metano enterico al riscaldamento globale, in costanza di emissioni, è costante. Se facessimo sparire tutti i ruminanti allevati in Italia o in Europa, si azzererebbe il piccolo “zoccolo” di emissioni, si annullerebbe il relativo stock del metano in atmosfera con una minima mitigazione del riscaldamento globale. Oltre che piccola, la mitigazione sarebbe temporanea, perché nel frattempo l’anidride carbonica continuerebbe ad accumularsi annullando ben presto il “beneficio” climatico ottenuto con il sacrificio della zootecnia.

Molto più probabilmente, se l’Italia azzerasse la propria zootecnia, aumenterebbero le importazioni di prodotti di origine animale dai Paesi terzi, con il conseguente fenomeno del Carbon leaching, cioè la delocalizzazione delle emissioni. È infatti assai improbabile che in Italia i consumi pro-capite di carne bovina, che sono già ritornati al livello del 1960 nonostante le presenze (e consumi) turistici, possano ancora contrarsi molto.

Sarebbe opportuna una approfondita ma rapida riflessione su questi temi, altrimenti i previsti interventi normativi europei volti alla riduzione delle emissioni, comunque vengano fatti, imputeranno alla zootecnia responsabilità che non ha e la caricherebbe di oneri ingiustificati.

Lungi dall’essere responsabile del riscaldamento climatico, la zootecnia può fornire un suo piccolo contributo, riducendo le emissioni di metano e il protossido d’azoto. Oggi sono possibili solo tre approcci, la cui applicazione andrebbe fortemente incentivata: l’uso di additivi alimentari che riducano la metanogenesi nel rumine (es: 3-NOP), l’ulteriore diffusione di biodigestori anaerobi aziendali o consortili, e il miglioramento genetico per l’efficienza dei ruminanti.

Luca Buttazzoni, ex Direttore del centro di ricerca “Zootecnia e Acquacoltura” del CREA