L’Italia è stata il primo Stato in Europa a sollevare il tema di un’etichetta per i prodotti agroalimentari che fosse il più possibile completa e trasparente, in modo da informare i consumatori e renderli consapevoli delle loro scelte.

Dal 19 aprile 2017 è infatti obbligatoria in etichetta l’indicazione dell’origine della materia prima per i prodotti lattiero-caseari come ad esempio il latte UHT, il burro, lo yogurt, la mozzarella, i formaggi e i latticini. L’obbligo si applica al latte vaccino, ovicaprino, bufalino e di altra origine animale.

Oltre a tutelare il consumatore finale, questo è stato, ed è ancora, un modo per salvaguardare il Made in Italy, evitando che prodotti di dubbia provenienza, senza il rispetto di parametri basilari, potessero arrivare sulle nostre tavole. È ovviamente anche un modo per valorizzare il lavoro dei nostri allevatori e far crescere una vera e propria cultura del cibo che parta dalla filiera. Per arrivare a questi risultati ci sono voluti anni e battaglie culturali, mentre per un altro prodotto di rilievo e largo consumo come il vino, la strada era già tracciata. Su una bottiglia di vino vengono chiaramente indicati vitigno, territorio e annata. Al ristorante il personale di sala è ormai sempre in grado di raccontare poche ma utili informazioni su una bottiglia.

Se agli ospiti piace, una foto e via a googlare per avere informazioni sulla cantina e magari ordinarne qualche cassa.

Ma il formaggio?

La questione si fa più complicata. Le forme sono spesso molto grandi, le etichette o le incisioni sulla crosta vengono tagliate e rese illeggibili. I vicini d’oltralpe francesi, che da sempre fanno forme più piccole, tendono a presentare il formaggio in tavola con la sua etichetta. In quasi tutti i bistrot c’è chi con maestria sa raccontare cosa si sta per assaggiare. Non è un caso che in Piemonte, regione confinante con la Francia, si trovino molti ristoranti con carrelli di formaggi strutturati in modo perfetto, curati e mantenuti con cura.

Nel resto d’Italia è considerata una cosa un pò anni ‘80. Alcuni chef stellati stanno proponendo il carrello dei formaggi 2.0, dove si esalta il formaggio in purezza e lo si propone anche in abbinamenti innovativi o in preparazioni particolarmente accattivanti, però si presenta un solo formaggio alla volta, la varietà è diventata un lusso.

Dare valore all’etichetta quindi non è un semplice esercizio di stile, ma diventa un modo per far emergere il valore di un prodotto, del formaggio che si va a degustare, del lavoro che parte dall’allevatore e finisce con il casaro.

Alcuni caseifici agricoli, pur facendo prodotti eccellenti, hanno del tutto rinunciato a creare un minimo di packaging aziendale. Spesso nei mercati locali ci sono banchi dove non si sa cosa e da chi si sta acquistando. Va bene il passaparola quando i prodotti sono di qualità, però come si dice ‘anche l’occhio vorrebbe la sua parte’. Avere un’etichetta, in special modo una bella etichetta, può essere quindi un buon punto di partenza per incuriosire, spronare alla ricerca, interessarsi. Intorno ad un’etichetta si può creare quello che viene chiamato storytelling, un breve racconto di un prodotto, origine e caratteristiche gustative, non informazioni noiose, ma poche e accattivanti.

Un piccolo passo ma che nasconde una rivoluzione culturale, esattamente come tanti anni fa è successo per il vino. La speranza è che si tratti solo di un ritardo ‘fisiologico’, ma che siamo sulla strada giusta. A volte copiare fa bene!

La foto è stata scattata nel Ristorante Del Lago di Bagno di Romagna (FC).