Formaggi, necessità di una cultura pastorale

L’addomesticazione di animali che producono latte, soprattutto ruminanti quali pecore, capre bovini, porta al costituirsi di una cultura pastorale dei pascoli e delle transumanze che mantiene rapporti con la cultura agricola stanziale dei campi coltivati. In questa relazione vi è uno scambio di prodotti anche alimentari: gli agricoltori vendono cereali e leguminose ai pastori che da parte loro ricambiano con carni e latte o suoi derivati. Tutte queste produzioni sono stagionali e se gli agricoltori costruiscono granai, i pastori sono indotti, se non costretti, a conservare le carni con l’essiccamento e soprattutto a trasformare il latte in formaggio che si trasporta facilmente e che si conserva oltre il periodo di lattazione degli animali, che in generale inizia in primavera e termina con l’autunno e inoltre coincide con la macellazione di giovani animali e con la presenza di vegetali che servono a cagliare il latte dal quale ricavare il formaggio. Per giungere in tempi a noi vicini, fino agli anni sessanta del secolo scorso nella Pianura Padana dove si producevano i formaggi grana (lodigiano, piacentino, parmigiano ecc.) i caselli o caseifici aprivano per San Giuseppe (19 aprile) e chiudevano per la Festa dei Morti (2 novembre). Per questo i formaggi sono nati e a lungo rimangono l’espressione di una cultura pastorale che la cultura agricola, e soprattutto quella urbana a quest’ultima collegata, qualifica come barbara.

Oggi sentiamo magnificare le qualità dei forse più di mille formaggi offerti alle tavole degli italiani, formaggi ai quali sono attribuite lontane e spesso nobili origini. Ma quale era la qualità e soprattutto il significato e il valore gastronomico che nel passato era loro attribuito? Quando e come è avvenuto il passaggio dal formaggio come cibo povero se non barbaro all’odierno prezioso cibo d’alta gastronomia? Non è facile dirlo perché, salvo alcuni periodi, mancano le documentazioni. Non è tuttavia impossibile tracciare un breve e rapido excursus sulla storia dei formaggi in tavola, da un passato barbarico a un presente gastronomico.

Formaggi barbarici sulle tavole dell’antica Roma

Nella lunga e differenziata storia dell’Antica Roma il formaggio ha una prevalente connotazione barbarica, anche se vi è un timido passaggio a cibo di qualità, come risulta anche da un lungo e accurato studio di Paola Caruso dell’Università degli Studi di Napoli intitolato “Marziale 13, 30-33. Caseus: da alimento barbarico a gradito cadeau in Xenia”, parte di un saggio collettivo dal titolo “Tra letteratura di consumo e consumi in letteratura: Xenia e Apophoreta di Marziale, (a cura di A. Borgo), in Atti dei Seminari di Dipartimento” (Pubblicazioni del Dipartimento di Filologia Classica “F. Arnaldi” dell’Università degli Studi di Napoli 2014).

I Romani non ci hanno lasciato molto sui loro costumi a tavola e su come si svolgesse un loro normale pasto. Al di là delle generiche ricostruzioni di Jérôme Carcopino e altri non abbiamo infatti descrizioni dettagliate. Quelle giunte fino a noi sono spesso in contrasto tra loro e in queste un alimento come il caseus poco si presta ad essere menzionato anche se riteniamo fosse presente, come pare, nelle mense dei ricchi.

Nella celebre cena di Trimalcione il formaggio è assente e manca quasi del tutto nel ricettario di Apicio, mentre Marco Porcio Catone lo nomina quindici volte soprattutto come ingrediente di varie ricette campagnole e una volta per la sua lavorazione. Malgrado l’ambientazione pastorale, la parola caseus ricorre una sola volta nelle Bucoliche virgiliane e il contesto agreste consente una citazione in Albio Tibullo. Naturalmente è ingrediente presente nello pseudo-virgiliano Moretum. Orazio non ha preso in considerazione questa parola e neppure i poeti elegiaci. Tra i poeti latini la parola caseus ricorre un numero molto esiguo di volte in Plauto e in Marziale.

Il formaggio nell’antica Roma, e in molti secoli successivi, è un cibo frugale e semplice che compare in un contesto di barbarie e di inciviltà che ha il suo rappresentante nel ciclope Polifemo, pastore e casaro, e diviene parte di un’idilliaca visione di un buon passato pastorale ed arcaico che rimanda spesso al concetto di barbaries, inteso anche come arretratezza, nomadismo e brigantaggio. Non a caso i Liguri “duri atque agrestes” e i Sanniti “montani atque agrestes” sono due dei popoli citati da Plinio come produttori del formaggio apprezzato a Roma. La rudezza dell’alimentazione a base di caseus è testimoniata nell’Historia Augusta da Adriano, che volentieri mangia il rancio militare consistente in lardo, formaggio e posca, il vino acidulo dei soldati. Pastorizia, rudezza, ambiente montano sono caratteristiche dei fornitori di formaggio dell’urbe nominati da Plinio e da Marziale: gli Etruschi di Luni, i Vestini delle montagne d’Abruzzo, i Trebulani. Nella geografia gastronomica di Marziale, ai formaggi citati va aggiunto il graveolente formaggio tolosano e quello di Sarsina, e il caseus è sempre connesso a contesti poveri o addirittura miserabili.

Inoltre, sembra che nelle opere letterarie latine il formaggio sia nominato solo in contesti umili o scherzosi e da autori che utilizzano un linguaggio disinvolto o addirittura trasgressivo. Anche in questo contesto il poeta epigrammatico Marco Valerio Marziale cita quattro tipi di caseus, che riassumono le grandi tipologie di formaggi italici dei suoi tempi (I secolo d. C.): formaggio bovino in grande formato di Luni capace di offrire mille colazioni agli schiavi; formaggio pecorino abruzzese forte e nutriente che può sostituire lo spuntino a base di carne; formaggio caprino affumicato a Roma nella zona del Velabro; formaggio di Trebula, migliore se riscaldato sulla brace o con l’acqua calda. L’ordine di presentazione sembra ricalcare quello già esposto da Varrone (bubuli, ovilli, caprini) ma Marziale aggiunge una quarta categoria cioè quella dei casei Trebulani, simili forse a quelli di Caedia, citati da Plinio prima dei caprini affumicati e che potrebbero essere formaggi a pasta filata.

Nella economia generale in cui sono ordinati gli epigrammi di Marziale, ed in particolare negli Xenia, i casei fanno parte degli antipasti (gustatio), collocati dopo i legumina e gli holera e prima delle portate importanti, e possono servire come alimento per gli schiavi o nutrienti al posto della carne.

Formaggi barbarici nell’alimentazione medievale e rinascimentale

Nei confronti del formaggio la cultura medievale mantiene sostanzialmente la posizione romana e i misteriosi meccanismi della coagulazione e della fermentazione sono visti non solo con sospetto, ma anche come espressione di fenomeni negativi, di putrefazione se non diabolici. I codici di dietetica pongono forti limiti al loro consumo e un aforisma attribuito alla Scuola Medica Salernitana recita “Solo il formaggio mangiato a piccole dosi non fa male alla salute“. Rimane ben radicata l’immagine romana secondo cui i popoli che consumano tale alimento sono privi di civiltà e il formaggio continua a essere associato alla cucina povera, al mondo dei pastori, contadino, degli eremiti, dei pellegrini e della penitenza e per questo difficilmente mancava nei menù popolari, come è possibile desumere dai conti d’osteria. Si potrebbe quasi affermare che il formaggio in questo periodo è la carne dei ceti bassi. Questo modo di pensare tipico soprattutto dell’Alto Medioevo permane nel Basso Medioevo, con i modelli alimentari monastici che esercitano la loro influenza sui consumi della società e che in una rinuncia totale o parziale del consumo di carne fanno dei formaggi un valido sostituto. Questo regime alimentare si estende ben presto con le regole che aumentarono i giorni di magro durante l’anno. È chiaro che per il formaggio rimane una connotazione popolare ma esso divenne oggetto di maggior interesse e attenzione, e per questo qualche pezzo di formaggio è presente sulle mense degli signori, ma con diverse e opportune modalità di differenziazione nel consumo e nell’utilizzo. A questo riguardo si narra che Carlo Magno (IX secolo) compie una visita inattesa a un importante vescovo in un giorno di astinenza dalle carni e allora quest’ultimo, non disponendo di pesce per onorare l’illustre commensale, serve un semplice pasto con un formaggio bianco e grasso.

Nel Basso Medioevo e soprattutto dopo il XII secolo si avvia un lento percorso di nobilitazione del formaggio dovuto a diversi fattori: l’insegnamento dei Benedettini (ora et labora), la diffusione dei Cistercensi con le loro Abbazie e Grance dove su larga scala si svolge la rotazione agraria che prevede l’alternanza fra cereali e colture da foraggio per il bestiame di lavoro che produce anche latte trasformato in formaggio vaccino, che via via sostituisce quello ovicaprino. Dal XII secolo circa vengono alla luce formaggi come il Montasio, il Grana meglio noto come Lodigiano e soprattutto Parmigiano, e la Mozzarella, invenzioni delle Abbazie di Moggio Udinese, Chiaravalle, Fontevivo e Valserena nella Pianura Padana, e San Lorenzo di Capua. In questa via di nobilitamento si modifica anche l’idea medica nei confronti dei formaggi e Bartolomeo Sacchi, detto il Platina (1421 – 1481), sostiene che in Italia si contendono il primato due tipi di formaggi: il Marzolino Toscano (pecora) e il Piacentino o Parmigiano delle regioni cisalpine (mucca), anche se in “De honesta voluptate et valetudine” afferma che: “è pesante da digerire, nutre mediocramente, non fa bene allo stomaco e all’intestino, genera bile, fa venire la gotta, dolore ai reni, renella e calcoli”. Il formaggio viene utilizzato anche in cucina e il suo impiego si diversifica in funzione del fatto che sia fresco o stagionato: nel primo caso viene pestato e mescolato ad altri ingredienti (come uova ed erbe) per formare pasticci e torte, nel secondo caso è grattugiato e oltre all’impiego nelle preparazioni assieme a quello fresco è utilizzato in molte altre ricette, tipicamente come condimento come Giovanni Boccaccio nel Decamerone (1349) descrive dicendo che “in una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce e avevasi un’oca a denaio e un papero giunta; ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n’aveva.”

Con il Rinascimento il consumo di formaggio fra i cibi di corte si afferma ulteriormente, come testimoniano i trattati di Cristofaro di Messisbugo (… – 1548), di Bartolomeo Scappi (… – 1570 circa), e di Pantaleone da Confienza che scrive la Summa Lacticinorum (Torino, 1477) che rappresenta la più antica trattazione organica e sistematica sul latte e derivati, dopo quella tentata da Plinio il Vecchio, un’autentica enciclopedia dei formaggi di parte dell’Europa tardo Medievale e che nell’esordio fa capire che il prestigio di cui godeva l’oggetto delle sue fatiche era nonostante tutto ancora basso: “tratto un argomento rozzo (vulgaris) – si giustifica infatti – ma lo affronto perché mi sembra che i concetti siano comunque utili“. L’autore afferma comunque di avere visto re, nobili e mercanti, nutrirsi spesso e volentieri di questo alimento.

In ogni modo fino al Milleseicento e oltre, San Lucio, protettore dei casari, è ritratto quando dà a un povero un pezzo di formaggio.

Formaggi nell’Età Moderna

Il processo di nobilitazione dei formaggi, sia pure molto lentamente, prosegue dal Rinascimento in poi, ma si deve aspettare il Settecento per vedere i primi, anche se non sostanziali, apprezzamenti. Questo fenomeno si realizza grazie all’imperante moda arcadica delle pastorellerie, opere letterarie di genere pastorale per lo più affrettate e artificiose in cui i cibi genuini come il latte e i formaggi sono esaltati, mentre nell’arte il formaggio, oltre ai significati connessi alla simbologia religiosa, è presente nei quadri come un simbolo dell’ambiente rustico e contadino.

Nel XVIII Secolo dei Lumi la ricerca scientifica e divulgativa connessa alla pubblicazione della Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri (Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers nel titolo originale) di Denis Diderot con la collaborazione di Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert un posto di rilievo hanno le tecnologie e le applicazioni pratiche delle scoperte scientifiche con le loro ricadute sul quotidiano. Famose sono le tavole che riproducono con cura l’attività casearia, della quale illustrano gli strumenti e le attrezzature usati nei caseifici e non manca una trattazione degli aspetti dietetici legati al consumo di cacio, né la descrizione di formaggi come il Groviera o il Parmigiano. Il Millesettecento è anche l’età della rivoluzione industriale, foriera di sviluppo nel mondo della produzione casearia, durante la quale viene introdotto il principio della produzione industriale per il consumo di massa, destinato a progressiva e grande fortuna nei periodi successivi. In questo secolo inizia a essere marcata la contrapposizione tra la produzione contadina, esigua nel numero e volta unicamente alla sussistenza dei nuclei famigliari rurali, e le nuove esigenze cittadine, nate a seguito del progresso industriale che caratterizza in modo graduale la produzione casearia dei secoli successivi.

Milleottocento e i formaggi nella tavola borghese

Con il Milleottocento il formaggio, sia pure con difficoltà e contrasti, entra a pieno titolo nella gastronomia della tavola. Questo è principalmente dovuto alla migliore qualità dei prodotti e ad una maggiore uniformità della produzione, che non è più familiare o casalinga ma che avviene in caselli o caseifici nei quali si applicano le nuove conoscenze sulla caseificazione che derivano anche dallo spirito illuminista del secolo precedente. Come nel Medioevo erano stati i monaci francesi delle Abbazie cistercensi a migliorare la produzione di latte vaccino, anche nel Milleottocento è la Francia che fa da capofila nell’evoluzione qualitativa dei formaggi e nella loro entrata nella gastronomia.

Il XIX secolo vede il fiorire della gastronomia borghese che avrà il suo culmine nel periodo della Belle Époque. All’inizio del secolo nei negozi di alimentari di Parigi dominano cinque o sei formaggi a pasta dura di più o meno lunga stagionatura e che resistono ai lunghi viaggi come Gruyère, Chester, Parmigiano o a pasta tenera come il Neufchâtel e il Roquefort, con prezzi che superano quelli della carne. Pian piano e con alti e bassi nei decenni successivi si aggiungono altri formaggi e quando Émile Zola scrive il romanzo Ventre de Paris (1873) oltre ai formaggi Gruyère, Chester, Parmigiano Neufchâtel e il Roquefort cita i formaggi Brie, Romantour, Monts-d’or, Troyes, Camemberts, Limbourg, Marolles, Pont-l’èvêque, Livarots, Olivets, formaggi di capra e formaggi quadrati diversi. Una sinfonia di formaggi che sembra aver conquistato la gastronomia francese, ma anche la tavola anche se vi sono ancora dei contrari come Alexandre Dumas che nel suo Le Grand Dictionnaire de la Cuisine (1870 – 1873) del formaggio afferma che “non si potrebbe mangiarne molto, perché è indigesto e anzi, a volte, pericoloso”.

Tra gli estimatori dei formaggi a tavola vi è indubbiamente il grande gastronomo francese Anthèlme Brillat-Savarin (1755 – 1826), autore di un estroso trattato, La Physiologie du Gout (1825) (La fisiologia del gusto) che mescola nozioni scientifiche, aforismi, riflessioni filosofiche, aneddoti e consigli tra cui “Un dessert senza formaggio è come una bella donna a cui manchi un occhio”. Un’affermazione che suscita una lunga discussione che arriva fino alla seconda metà del secolo successivo e che può essere sintetizzata nel dilemma “a fine pranzo, formaggio, frutta e dolce, in quale ordine?”.

Chatillon-Plessis (La vie à table à la fin du XIX° siècle – Firmin – Didot, Paris, 1894) sentenzia che il pranzo finisce con il tramezzo di verdure, il formaggio è portato in tavola come tramezzo di transizione fra il pranzo e il dolce e il dessert viene in tavola dopo il formaggio. Quindi bisognerebbe intendere giusta la successione come formaggio, dolce e infine la frutta che, come al tempo dei romani, chiude il pranzo (Ab ovo usque ad mala: dall’uovo fino alle mele come dice anche il poeta Orazio).

Di diverso avviso è Pellegrino Artusi che ne “La Scienza in Cucina e l’Arte di Mangiare Bene” (prima edizione 1891) nelle Note di Pranzi segue la diversa successione di dolce, frutta e formaggio.

Nel secolo successivo vi è ancora chi sostiene che, secondo il galateo (ma quale?) il pranzo termina con il dessert con il seguente ordine di dolce, formaggio e frutta, anche se i formaggi sono frequentemente serviti prima del dolce, o addirittura eliminati lasciando il posto al dolce e alla frutta.

Gastronomia attuale dei formaggi

Nel secolo ventesimo, soprattutto nella seconda metà, e nell’attuale ventunesimo secolo il formaggio è completamente uscito dalla barbarie pastorale e a pieno diritto è entrato a fare parte dell’attuale più elegante alta cucina.

Grazie alla grande disponibilità di formaggi di grande qualità e ai diversi modi di mangiarli, questi alimenti entrano negli Aperitivi e negli Apericena, uno o più formaggi o il Tagliere dei Formaggi diventano una portata principale, se non un pranzo o una cena veloce, e si elabora un Galateo dei Formaggi. Il formaggio in questo modo, e con le sue quasi infinite varietà di gusti, sapori e aromi, è diventato un alimento di pregio e come tale è consumato in una sempre più raffinata gastronomia, ma questa è un’altra storia.

 

 

Giovanni Ballarini, dal 1953 al 2003 è stato professore dell’Università degli Studi di Parma, nella quale è Professore Emerito. Dottor Honoris Causa dell’Università d’Atene (1996), Medaglia d’oro ai Benemeriti della Scuola, della Cultura e dell’Arte del Ministero della Pubblica Istruzione della Repubblica Italiana, é stato insignito dell’Orde du Mérite Agricole della Repubblica Francese. Premio Scanno – Università di Teramo per l’Alimentazione nel 2005, Premio Giovanni Rebora 2014, Premio Baldassarre Molossi Bancarella della Cucina 2014, Grand Prix de la Culture Gastronomique 2016 dell’Académie Internationale de la Gastronomie. 

Da solo e in collaborazione con numerosi allievi, diversi dei quali ricoprono cattedre universitarie, ha svolto un’intensa ricerca scientifica in numerosi campi, raggiungendo importanti e originali risultati, documentati da oltre novecento pubblicazioni e diversi libri. 

Da trenta anni la sua ricerca è indirizzata alla storia, antropologia e in particolare all’antropologia alimentare e anche con lo pseudonimo di John B. Dancer, ha pubblicato oltre quattrocento articoli e cinquanta libri, svolgendo un’intensa attività di divulgazione, collaborando con riviste italiane, quotidiani nazionali e partecipando a trasmissioni televisive. Socio di numerose Accademie Scientifiche è Presidente Onorario dell’Accademia Italiana della Cucina e già Vicepresidente della Académie Internationale de la Gastronomie.