Nel numero di Gennaio 2019 della rivista “Le Scienze”, Elena Castellani, Professore associato del Dipartimento di filosofia dell’Università di Firenze, ha pubblicato una stimolante riflessione sul rapporto tra scienza e società intitolata “Metodo scientifico e società”. Ne riportiamo la parte introduttiva per poi esprimere un nostro parere dal momento che, occupandoci di divulgazione tecnico-scientifica, e per giunta sul web, ci sentiamo chiamati in causa.

“Siamo in un periodo in cui accade sempre più spesso che, nel trattare dell‘impatto di questioni di natura scientifica sulla società, la competenza acquisita non sia più ritenuta necessaria. Si pensa che basti informarsi su qualche sito web e seguire qualche divulgatore per diventare esperti e poi diffondere le proprie opinioni o, peggio, imporle (nel caso se ne abbia facoltà). Gli scienziati  vengono tacciati di arroganza, mentre imperversano sulla scena pubblica personaggi improvvisati, che a volte hanno anche il potere di fare grandi danni. Le ricadute di questo atteggiamento, purtroppo diffuso in una parte non piccola dello­pinione pubblica, sono ben evidenti, come dimostrano le vicende legate ai vaccini e più in generale a questioni di salute pubblica, per ricordarne una tipologiaE di tutto questo risentono in modo notevole anche le politiche in fatto di ricerca scientifica, con scelte e tagli che la danneggiano profondamente. Il rapporto tra scienza e società è un tema classico della filosofia della scienza: è natura­le che lo sviluppo della conoscenza scientifica sia da sempre accompagnato da una riflessione sulla metodologia seguita e sul suo impatto sociale, economico e politico.”

In primis ci troviamo in disaccordo con le generalizzazioni che troviamo nell’articolo, che in epoche passate erano chiamate semplicemente ”qualunquismo”. La Castellani classifica, senza se e senza ma, come “dannosa” l’attività dei divulgatori e l’uso che la gente fa del web per acquisire informazioni. In un passato evocato come perfetto da tanti o pochi giornalisti e docenti universitari, la divulgazione era affidata a titolo univoco a queste due categorie in quanto era necessaria l’intermediazione di qualcuno abilitato da concorsi, ordini professionali o affiliazione politica. Questa impostazione, se pur non criticabile a priori, dava un enorme potere a queste figure e non necessariamente aveva come mission quella di far evolvere la cultura di una società.

Il web ha sparigliato le carte dando voce a chi prima non aveva diritto di parlare. Certo nel vociare assordante della rete si rischia di perdere la bussola ma ritenere che tutto ciò sia negativo a prescindere, e che era meglio come si faceva una volta, non è sicuramente un pensiero da condividere. La comunità scientifica, ossia chi fa ricerca sia nei centri di ricerca pubblici che nelle università, ha oggi come assoluta priorità quella di pubblicare più ricerche possibili per ragioni legate all’avere un buon posto fisso e un buon stipendio. Per non essere qualunquisti va detto che ci sono anche scienziati che pubblicherebbero a prescindere, per il solo amore della conoscenza. Per passare dall’essere precario all’avere un contratto a tempo indeterminato in un ente di ricerca pubblico, o per fare i passaggi ricercatore – professore associato – professore ordinario, è richiesta la pubblicazione “seriale” e spesso compulsiva di lavori di ricerca sulle riviste maggiormente indicizzate e che appartengono ai pochissimi colossi dell’editoria. In sintesi, più si pubblica e più i lavori vengono citati in quelli altrui, maggiori sono le possibilità di fare carriera e continuare a vedere finanziata la propria attività di ricerca. Questo perverso meccanismo, a cui si è arrivati anche per contrastare le carriere ereditarie e clientelari, di fatto può mettere in secondo piano la qualità della didattica e la divulgazione della conoscenza al mondo produttivo o semplicemente alla gente.

L’articolo che uno scienziato o un docente universitario pubblica su una rivista divulgativa non ha alcun valore ai fini della carriera. Chi lo fa, è spinto prevalentemente da un senso dello Stato e del dovere. I docenti universitari e i ricercatori degli enti pubblici hanno poche occasioni per confrontarsi con chi può rendere concreti i risultati della ricerca scientifica. La Castellani scrive testualmente che “gli scienziati vengono tacciati di arroganza” e senza generalizzare come fa la professoressa si può confermare che in molti casi è così.

Condividiamo il fatto che il vociare incontrollato della rete, dove vale tutto e il contrario di tutto e dove l’opinione di un premio Nobel vale quanto quella di chi non ne sa nulla, sia un problema molto grave, ma altrettanto grave era il fatto che solo una casta potesse esprime la propria opinione.

A nostro avviso la soluzione può essere trovata attraverso questi passaggi:

  • Dividere nell’ambito accademico l’attività di ricerca da quella didattica, senza penalizzare in questo modo la possibilità di fare carriera.
  • La ricerca effettuata utilizzando fondi pubblici deve essere pubblicata in open source, ossia deve essere accessibile gratuitamente a tutti.
  • Inserire nella didattica, fin dalle scuole inferiori, l’insegnamento dei metodi attraverso i quali è possibile informarsi correttamente in un mondo di overload dell’informazione.
  • Inserire nella didattica anche i professionisti “di Chiara fama”. Ciò permette allo studente di distinguere l’approccio di chi appartiene alla comunità scientifica da quello di chi appartiene alla comunità dei professionisti.
  • Pubblicare i risultati della ricerca non solo sulle riviste indicizzate ma anche su quelle divulgative.