A. Wattiaux,1† PAS, M. E. Uddin,1 P. Letelier,1 R. D. Jackson,2 e R. A. Larson3
1Department of Dairy Science, University of Wisconsin–Madison, Madison 53706  
2Department of Agronomy, University of Wisconsin–Madison, Madison 53706   
3Department of Biological Systems Engineering, University of Wisconsin–Madison, Madison 53706 

Abstract

Introduzione
Emissioni provenienti dai bovini

Emissioni provenienti dal letame

Emissioni di GHG dal terreno

Valutazione delle emissioni provenienti dagli allevamenti da latte
Applicazioni
Letteratura citata

 

Abstract

Scopo: abbiamo identificato i fattori biofisici delle principali fonti di emissione di gas serra (GHG) in allevamento: metano enterico (CH4), metano e ossido di diazoto (N2O) provenienti dal letame, N2O proveniente dal terreno ed anidride carbonica (CO2). Abbiamo indagato l’effetto di specifiche pratiche di management e della loro interazione sull’attenuazione delle emissioni ed abbiamo riassunto i risultati  ottenuti dall’analisi del ciclo della vita del latte proveniente da allevamenti tipici del Midwest degli Stati Uniti. 

Fonti: la letteratura peer-review è stata la principale fonte dei dati e delle informazioni utilizzate per costituire questa review 

Sintesi: l’ingestione di sostanza secca e l’efficienza della conversione alimentare sono responsabili, rispettivamente, della produzione (g/die) e dell’intensità di emissione (g/kg di latte) del CH4 enterico. Anche la fibra alimentare e i lipidi influenzano la produzione di CH4 enterico mentre le proteine presenti nella dieta influenzano la presenza di N2O nel letame. All’interno della catena di gestione del letame, lo stoccaggio a lungo termine dei liquami non trasformati è una delle principali fonti di emissione di gas serra, ma l’adozione della separazione solido-liquido dei liquami e della digestione anaerobica riducono sostanzialmente il bilancio carbonioso di un allevamento. La quantità, le tempistiche e le modalità di applicazione dei fertilizzanti a base di azoto, sono i punti chiave da tener presenti per ridurre le emissioni di N2O dai terreni. Una riduzione o un arresto della coltivazione, di colture invernali e di colture perenni, aumentano il contenuto di OM nel terreno e riducono le perdite di CO2 dal suolo. La variabilità delle emissioni di GHG in azienda, che mediamente si aggirano intorno a 1.1 kg di CO2eq per chilogrammo di latte, è stata correlata più a specifiche pratiche di management piuttosto che alle dimensioni dell’allevamento o al sistema di produzione lattiero-caseario.  

Conclusioni e applicazioni: l’adozione di ottimali pratiche di gestione dell’alimentazione, delle coltivazioni e del letame potrebbe ridurre in maniera sostanziale le emissioni di gas serra negli allevamenti da latte. I metodi di configurazione e di valutazione dovranno essere migliorati per prendere meglio in considerazione le interazioni tra le componenti del sistema e i co-prodotti della produzione di latte. 

 

Parole chiave: allevamento da latte, metano enterico, gas serra, analisi del ciclo di vita, ossido di diazoto  

Introduzione

Il contributo del settore lattiero-caseario alle emissioni di gas serra (GHG) dovute ad attività umane è stato stimato al di sotto del 2% negli Stati Uniti (Thoma et al., 2013) e intorno al 2.7% nel resto del mondo (FAO, 2010). Tuttavia, a partire dal 2007, negli Stati Uniti la riduzione delle emissioni di questi gas è stata una delle priorità dell’industria lattiero-casearia (Innovation Center for US Dairy, 2018). Il lavoro di Thoma et al. (2013) suggerisce un’impronta di carbonio media di 2.05 kg di equivalenti (eq) di CO2/kg di latte fluido consumato, che corrispondono a 1.0 libbre di CO2eq emesse per ogni bicchiere di latte da 8-oz consumato. Questo valore è stato ottenuto mediante l’analisi del ciclo di vita dalla culla alla tomba” (LCA, Life Cycle Assessement), che tiene conto delle emissioni associate alla produzione, al trasporto, alla lavorazione, alla distribuzione, al consumo e allo smaltimento dei rifiuti dei consumatori. Thoma et al. (2013) hanno riportato anche che il 72% di quelle emissioni è già presente prima che il latte lasci l’allevamento (Figura 1). Le fonti delle emissioni in allevamento comprendevano le bovine [25% come metano enterico (CH4)], il letame [24% come CH4 e ossido di diazoto (N2O)], il terreno [19% come N2O e anidride carbonica (CO2)] e l’energia impiegata in allevamento (4% come CO2). Poiché, nel complesso la bovina, il letame e il terreno contribuivano così tanto all’impronta di carbonio del latte, i ricercatori hanno utilizzato un LCA parziale (dalla culla all’uscita dell’allevamento) per indagare le possibili opzioni utili ad ottenere una riduzione all’interno dell’azienda. Review più recenti si sono concentrate sulle opzioni di attenuazione partendo dalla bovina (Knapp et al., 2014), dal letame (Petersen et al., 2013) e dal terreno (Oertel et al., 2016) o da una loro combinazione (Gerber et al. , 2013; Rodhe et al., 2015). Per questa review, ci siamo concentrati sulle emissioni provenienti dalla bovina, dalla catena di gestione del letame e dal suolo. Per ciascuna di queste fonti, il nostro obiettivo primario era quello di riesaminare la letteratura relativa ai fattori biofisici delle emissioni. In un secondo tempo ci siamo concentrati sul contributo -e sulle possibili interazionidelle metodiche di alimentazione, di gestione del letame e dei sistemi colturali in relazione al loro potenziale di attenuazione dei GHG all’interno di aziende da latte miste (che praticano allevamento-coltivazione) tipiche del Midwest degli Stati Uniti. Il nostro ultimo passo è stato quello di riassumere le nozioni ricavate dal LCA dalla culla all’uscita dell’allevamento, cercando di mettere a confronto specifiche pratiche di management all’interno e oltre i confini nazionali. 

Figura 1. Principali fonti di Gas Serra (GHG) provenienti dalla produzione e dal consumo di latte negli Stati Uniti, con messa in evidenza della tipologia di gas (anidride carbonica, metano, ossido di diazoto o refrigeranti) prodotti all’interno e fuori dall’allevamento. eq = equivalenti (modificato da Thoma et al., 2013, con il permesso di Elsevier). Versione a colori disponibile online. 

Emissioni provenienti dai bovini

Elementi chiave e modulatori dell’emissione di metano enterico

Nei ruminanti la fermentazione enterica è una delle principali fonti di metano, un prodotto finale della fermentazione anaerobica dell’OM digeribile nel rumine e secondariamente a livello intestinale. Secondo i dati di livello 1 dell’IPCC (2006), una vacca da latte del Nord America, che produce 8.400 kg di latte l’anno, produce anche 121 kg di CH4 all’anno (cioè 331 g/giorno). In una recente meta-analisi, Ramin e Huhtanen (2013) hanno rilevato che vacche con 577 ± 49.4 ( media ± DS) kg di BW e una DMI di 15.2 ± 3.85 kg/giorno e che producevano 23.1 ± 6.75 kg di latte/giorno, emettevano 326 ± 123 g/d di CH4. Questo quantitativo di CH4 era pari al 6.5% dell’assunzione di GE, lo stesso valore suggerito dall’IPCC (2006) per calcolare le emissioni enteriche del settore lattiero-caseario in tutti i paesi. L’ingestione di sostanza secca (DMI) è il principale fattore responsabile della produzione di CH4 (Ramin e Huhtanen, 2013; Moraes et al., 2014). Tuttavia, anche la composizione chimica della dieta gioca un ruolo importante. Secondo Ramin e Huhtanen (2013), l’emissione giornaliera di CH4 è stata associata positivamente alla digeribilità dell’OM e negativamente al rapporto tra carboidrati non fibrosi (NFC) e carboidrati totali, calcolati come NFC + NDF. Analogamente, Moraes et al. (2014) hanno rivelato l’esistenza di una correlazione positiva tra la produzione di CH4 e il contenuto di NDF della dieta. Le migliori equazioni di previsione (nelle sopra menzionate meta-analisi), prevedevano anche un fattore che analizzava l’effetto negativo dei grassi sulla produzione giornaliera di CH4. Questo effetto, tuttavia, è limitato a quelle situazioni che prevedono unintegrazione con oli vegetali primariamente insaturi provenienti da semi (Knapp et al., 2014). Gli effetti dei fattori dietetici possono essere capiti principalmente attraverso i loro effetti sulla fermentazione ruminale. Il profilo dei VFA, derivato dalla fermentazione dei carboidrati, influenza la disponibilità di idrogeno (H2), il principale substrato limitante per la metanogenesi (Janssen, 2010). Substrati che producono acido acetico e acido butirrico aumentano la disponibilità di H2, mentre i substrati che producono acido propionico consumano H2 e, quindi, ne diminuiscono la disponibilità (Figura 2). Il metabolismo dei grassi ruminali non produce H2, ma la bioidrogenazione dei lipidi insaturi contribuisce all’eliminazione di H2. Tuttavia, gli effetti tossici diretti di determinati grassi ed acidi grassi sui digestori di fibre e sui produttori di CH4 sono stati identificati come un altro meccanismo in grado di spiegare gli effetti positivi di determinati grassi alimentari sulla produzione di CH4 (Martin et al., 2010). Un altro fattore importante in grado di intervenire sulla produzione di CH4 è il pH ruminale. Sebbene il lavoro in vitro di Lana et al. (1998) abbia mostrato un forte calo della metanogenesi dopo diminuzione del pH ruminale da 6.5 a 5.7, non è stato condotto un altrettanto adeguato lavoro in grado di quantificare questa correlazione in vivo. Anche il potenziale ruolo dei protozoi, che hanno relazioni simbiotiche con i batteri metanogeni, ha attirato l’attenzione come possibile meccanismo coinvolto (Whitelaw et al., 1984; Martin et al., 2010). A volte sono state osservate diminuzioni della produzione di CH4 (van Zijderveld et al., 2011), con o senza (Moate et al., 2014), effetto sulla popolazione dei protozoi. Tuttavia, i protozoi ciliati producono H2 e un decremento della loro popolazione determinerebbe una diminuzione media dell’11% della produzione di CH4 in vivo (Tapio et al., 2017). 

Figura 2. Il bilancio dell’idrogeno (H2), che guida la metanogenesi enterica, dipende primariamente dalla relativa produzione di acetato, butirrato e propionato come principali prodotti finali della fermentazione dei carboidrati; la bioidrogenazione dei grassi rappresenta un pathway alternativo con disponibilità variabile del numero (n) di H2, che dipende dal grado di insaturazione dei grassi introdotti con la dieta. FA = acidi grassi (fonti: Ungerfeld and Kohn, 2006, and Sauvant et al., 2011). Versione a colori disponibile online. 

Effetto della razione formulata

Tipologia di foraggio impiegato e tenore. Le razioni dovrebbero essere formulate per ridurre la produzione di CH4 senza alcun impatto negativo sulle prestazioni degli animali. Il metano contiene 55.5 kJ/giorno (13.3 kcal/g); quindi, le manipolazioni dietetiche che riducono la produzione di CH4 aumentano l’apporto di ME nella bovina. All’interno di un sistema integrato, tuttavia, la formulazione della razione dipende in parte dall’autosufficienza nella produzione di mangimi all’interno dell’azienda stessa (foraggi e concentrati). Perciò, Aguerre et al. (2011) hanno studiato gli effetti di diete con rapporti foraggio-concentrato (F:C) di 47:53, 54:46, 61:39 e 68:32 (DM di base). In ogni dieta, i foraggi consistevano in insilato di erba medica e insilato di mais in rapporto 1:1, e i concentrati comprendevano mais ad elevata umidità, granella di mais, sottoprodotti della soia (farina di estrazione di soia ottenuta con solvente, panelli di soia, soia tostata e buccette di soia)) e semi di cotone. Seguendo questi presupposti dietetici, il rapporto F:C della dieta non ha avuto alcun effetto sulla DMI (21.1 kg/g) e sulla produzione di latte (37.4 kg/g), ma modificando questo rapporto passando da 68:32 a 47:53, c’è stata una riduzione della produzione di CH4 da 648 a 538 g/die ( la resa di CH4 è passata da 31.9 a 25.9 g/kg di DMI) e l’intensità di CH4 è diminuita da 18.0 a 14.4 g/kg di latte (Figura 3a). Queste emissioni erano elevate rispetto a quelle riportate in letteratura, ma il calo della produzione di CH4 concordava con quello previsto da Ramin e Huhtanen (2013) e correlato ad un aumento del rapporto NFC/(NFC + NDF), che era in media di 0.49, 0.52, 0.55 e 0.58 nelle diete con un rapporto F:C rispettivamente di 68:32, 61:39, 54:46 e 47:53. In uno studio successivo, Arndt et al. (2015b) hanno analizzato gli effetti della tipologia di foraggio utilizzato sulle performance degli animali e sull’emissione di CH4, fornendo come alimento un 65% di diete a base di foraggio nelle quali il rapporto erba medica:insilato di mais era di 20:80; 40:60, 60:40 o 80:20. Come foraggio, l’insilato di mais contiene elevati livelli di amido e basse concentrazioni di CP, mentre l’insilato di erba medica non contiene quasi amido e possiede elevate concentrazioni di CP. Pertanto, le percentuali di granella di mais e di prodotti derivati dalla soia (farina di soia, panelli di soia e buccette di soia) sono state aggiustate per mantenere la CP assunta con la dieta tra il 16.6 e il 18.0%, mentre l’amido nella dieta è diminuito dal 29.6 al 24.0% in seguito all’aumento della percentuale di insilato di erba medica nella razione. In queste condizioni sperimentali, le diete non hanno influenzato l’ingestione di sostanza secca (DMI). Inoltre le bovine hanno prodotto più latte e, sia la produzione che la resa di CH4, risultavano essere maggiori nelle razioni con F:C 40:60 o 60:40 rispetto alle razioni con 80:20 o 20:80 (Figura 3b). I cambiamenti osservati relativi alla percentuale molare di acetato e propionato nei VFA ruminali, hanno contribuito a spiegare questi risultati. Tuttavia, gli autori hanno anche riportato una diminuzione lineare della resa di CH4 per grammo di NDF digerita quando la percentuale di insilato di erba medica nella dieta aumentava. Risultati simili sono stati riportati da Hassanat et al. (2013), e concordano con l’ipotesi che la fermentazione della fibra di leguminosa produca meno CH4 rispetto alla fibra proveniente da graminacea (Archiméde et al., 2011). Questo effetto potrebbe essere dovuto o ad una minore digeribilità della NDF contenuta nelle leguminose o ad un maggior contenuto di emicellulosa (rispetto al contenuto di cellulosa) se paragonato al contenuto di NDF nelle graminacee. 

Integrazione lipidica. In una meta-analisi, Grainger e Beauchemin (2011) hanno riscontrato che nei bovini l’aumento di 1 unità percentuale di grasso (fino all’8% di DM della dieta) diminuiva la produzione di CH4 di 10 g/kg di DMI. La formulazione del grasso (olio vs seme) somministrato e la diversa composizione di acidi grassi presenti nelle integrazioni lipidiche (ad es. canola, cocco, semi di lino, soia, girasole) non hanno modificato tale correlazione. Inoltre, i risultati da loro ottenuti indicavano che questi effetti erano persistenti nel tempo. L’integrazione di lipidi sotto forma di mangimi contenenti sottoprodotti ad elevato tenore lipidico (trebbie di birra, farina di semola e farina di colza spremuta a freddo) si è rivelata efficace nel ridurre la produzione, la resa e l’intensità dell’emissione di CH4 (Moate et al., 2011). Inoltre, il lavoro di Brask et al. (2013) ha dimostrato come l’effetto di riduzione sul CH4 (dopo integrazione con colza nelle diete di bovine da latte) non sia stato influenzato dalle caratteristiche del foraggio (specie e tempo di raccolta).  

Additivi della dieta. Molto lavoro è stato dedicato anche agli additivi per mangimi come i tannini (Duval et al., 2016), gli acidi grassi specifici (acido laurico, acido miristico, olio di lino, van Zijderveld et al., 2011), il fumarato (Ungerfeld et al., 2007; Yang et al., 2012), il monensin da solo (Grainger et al., 2008) o il monensin con lasalocid (Guan et al., 2006), il nitrato (van Zijderveld et al., 2010; Olijhoek et al., 2016) ) e il 3-nitroossipropanolo (Hristov et al., 2015). Tranne lo studio di Duval et al. (2016), gli altri studi qui discussi hanno utilizzato periodi di adattamento a breve termine (da 1 a 3 settimane) e ci sono timori che alcuni degli effetti osservati possano essere transitori. Pertanto, l’efficacia della maggior parte di questi additivi rimane da testare in condizioni di alimentazione a lungo termine.  

Effetti indiretti della CP della dieta. Sebbene la CP della razione non abbia essenzialmente effetti sull’emissione di CH4 enterico (Sun et al., 2018), ha comunque un effetto sostanziale sull’escrezione urinaria di N e di azoto ureico (Colmenero e Broderick, 2006; Sun et al., 2018). L’urea contiene 10.5 kJ/g (2.5 kcal/g); quindi, l’escrezione urinaria di azoto ureico comporta una piccola perdita di ME (circa il 3% dell’assunzione di GE, Arndt et al., 2015a). Tuttavia, dopo escrezione, l’azoto ureico presente nelle urine viene rapidamente convertito in ammoniaca (che è altamente volatile) a seconda della concentrazione, della velocità dell’aria e del pH del terreno (Monteny ed Erisman, 1998). L’ammoniaca non è un gas serra, ma può causare l’emissione indiretta di N2O (dopo deposizione atmosferica, IPCC, 2006). La concentrazione di azoto ureico nel latte, che riflette strettamente il contenuto di CP della dieta, viene considerata una misura economica e non invasiva dell’efficienza di utilizzo dell’azoto nelle bovine da latte (Broderick e Clayton, 1997; Nousiainen et al., 2004) e viene anche correlata all’emissione di ammoniaca con il letame (Burgos et al., 2007; Powell et al., 2011) e alle emissioni di N2O (Powell et al., 2014). La meta-analisi di Hou et al. (2015) ha portato alla conclusione che anche l’abbassamento della CP della dieta genererebbe una diminuzione delle emissioni di GHG provenienti dalla catena di gestione del letame. 

Efficienza della bovina ed emissione di metano. È intuibile come una bovina che richieda meno mangime per produrre la stessa quantità di latte rispetto ad un’altra sia desiderabile dal punto di vista dell’economia aziendale e del management ambientale. Arndt et al. (2015a) hanno studiato le fonti della variabilità fenotipica dell’efficienza di conversione dell’alimento (FCE, kg di latte/kg di DMI) con 8 paia di bovine, che comprendevano soggetti sia con alta che con bassa FCE. I risultati ottenuti indicavano che, in media, le vacche con elevata FCE consumavano il 21% in più di DMI, producevano il 98% in più di latte ed eliminavano il 42% in meno di letame per chilogrammo di latte, ma producevano la stessa quantità di CH4 rispetto alle vacche con bassa FCE. Sebbene le vacche con elevata FCE avessero una ridotta efficienza digestiva (molto probabilmente correlata ad un aumento della percentuale di passaggio dal rumine dovuto ad una maggior assunzione di sostanza secca), la loro efficienza metabolica era maggiore perché una percentuale piccola di GE assunta veniva persa come CH4 (5.23 vs. 6.99% ), urina (2.76 vs. 3.40%) e calore (34.1 vs. 44.1%).Gli autori hanno riferito anche che la minore efficienza metabolica e le maggiori perdite di calore nelle bovine con basso FCE erano in parte associate ad un aumento della richiesta energetica utile per la funzionalità immunitaria connessa alla mastite subclinica, poiché la SCC era 3.8 volte maggiore nelle bovine con bassa FCE rispetto a quelle ad alta FCE. Arndt et al. (2015a) hanno riferito che, rispetto alle bovine con bassa FCE, quelle con elevata FCE avevano una resa CH4 inferiore (147 vs 184 g/kg di NDF digerita) e la popolazione di batteri metanogeni ruminali presente al loro interno prevedeva una percentuale inferiore di Methanobrevibacter sp. AbM4, che è noto per il suo contributo sostanziale nella produzione di CH4. L’ingestione residua è un’altra misura della FCE (Connor et al., 2013). de Haas et al. (2011) hanno previsto l’h2 di ingestione residua e l’emissione prevista di CH4 (basata su DMI e composizione della dieta) ed hanno suggerito che 10 anni di selezione in favore di una maggiore efficienza potrebbero ridurre la produzione di CH4 dall’11 al 26% e impiegando la selezione genetica si potrebbero raggiungere gli stessi risultati anche molto prima. Analizzando i dati ottenuti da esperimenti con camera calorimetrica, Yan et al. (2010) hanno osservato una sufficiente variabilità da vacca a vacca che gli ha permesso di ipotizzare come l’emissione di CH4 potrebbe essere ridotta selezionando bovine con una maggiore efficienza di utilizzo energetico. La considerevole variabilità misurata da vacca a vacca nelle emissioni di CH4 raccolte in allevamenti intensivi ha fornito ulteriori prove della fattibilità della selezione genetica (Bell et al., 2014). Tuttavia, l’attuale obiettivo dell’allevamento rimane argomento di discussione (de Haas et al., 2017): le bovine dovrebbero essere allevate per ridurre la produzione di CH4 (g/d), la resa di CH4 (g/kg di DMI) o l’intensità di CH4 (g/kg di latte)? 

Figura 3. Ingestione di sostanza secca (DMI), produzione di latte corretto per l’energia (ECM) o latte corretto per grassi e proteine (FPCM), ed emissioni di metano da bovine alimentate con (A) razioni contenenti una percentuale maggiore di foraggi a discapito dei concentrati (dati provenienti da  Aguerre et al., 2011) o (B) razioni contenenti una percentuale maggiore di insilato di erba medica a discapito dell’insilato di mais (dati provenienti da Arndt et al., 2015b). Versione a colori disponibile online. 

Emissioni provenienti dal letame

Molti gas vengono rilasciati dal letame prodotto dal bestiame, ma le emissioni di NH3, CH4 e N2O sono importanti per i loro effetti diretti ed indiretti sull’emissione complessiva di CO2-eq. La Figura 4 è stata creata per illustrare le principali reazioni e le condizioni microambientali coinvolte nella formazione di questi gas. Solitamente, elevati tassi di emissione di NH3 vengono rilevati durante la raccolta e la prima fase di stoccaggio (Aguerre et al., 2010; Aguerre et al., 2012). L’emissione inizia poco dopo che l’urina e il materiale fecale vengono miscelati, poiché  quest’ultimo contiene ureasi, un enzima che potenzia l’idrolisi dell’urea in NH3. Una volta emessa, l’NH3 ha effetti indesiderati diretti e indiretti sugli ecosistemi naturali, sulle emissioni di gas serra e sulla salute umana. Ad esempio, l’NH3 contribuisce alla formazione di particelle sottili di dimensioni inferiori ai 2.5 μm nell’atmosfera. Se inalato questo particolato inferiore ai 2.5 μm può raggiunge le porzioni più profonde dei polmoni, causando gravi problemi alla salute umana (EPA, 2006). 

Fattori chiave e modulatori delle emissioni di ossido di diazoto e di metano

L’assenza di ossigeno è una condizione necessaria per la formazione del CH4 dal letame di bestiame. Al contrario, per la formazione di N2O è necessaria la presenza dell’ossigeno. Pertanto, è comune osservare l’esistenza di una correlazione inversa tra l’emissione di CH4 e di N2O in condizioni di anaerobiosi, che favoriscono la produzione del primo, e in condizioni di aerobiosi che favoriscono la produzione del secondo (Aguerre et al., 2012; Fillingham et al., 2017). Ad esempio, Aguerre et al. (2012) hanno riscontrato che la crosta essiccata all’aria, che si formava naturalmente dopo circa un mese di stoccaggio del letame contenente lettiera di paglia, era associata ad una riduzione dell’emissione di CH4 e ad un sostanziale aumento dell’emissione di N2O. Probabilmente, il microambiente aerobio della crosta favoriva la crescita di popolazioni batteriche capaci di nitrificazione e denitrificazione, che sono le reazioni responsabili della formazione di N2, N2O e nitrato (NO3; Figura 4). Inoltre, il bilanciamento tra questi prodotti finali dell’attività microbica contenenti azoto variava considerevolmente a seconda della tipologia di letame (ad esempio solido, liquido) e del trattamento a cui veniva sottoposto (ad esempio separazione solido-liquido, digestione anaerobica, compostaggio). In linea generale, i liquami contengono poco o nessun nitrato, invece si è osservato un elevato accumulo di nitrati nello strato superficiale del cumulo di concime organico (Maeda et al., 2011). 

Figura 4. Illustrazione semplificata del passaggio di N tra l’atmosfera e i liquami (dati ottenuti da Aguerre et al.,2012), con enfasi sui processi critici coinvolti nell’emissione dei gas: (1) idrolisi dell’urea presente nelle urine (causa aumento dell’ammoniaca la quale, dopo emissione e deposizione sul suolo, contribuisce all’emissione indiretta dell’ossido di diazoto), fermentazione microbica della OM in condizioni di anaerobiosi (genera un aumento del metano) correlato a (2) crescita microbica, (3) acidificazione del medium mediante la formazione di VGF, e (4) formazione di ammoniaca dalla degradazione di componenti organiche contenenti N. Inoltre quando si forma una crosta organica (5) la nitrificazione dell’ammonio in condizioni di anaerobiosi è responsabile dell’emissione di ossido di diazoto e presumibilmente di N2. Le molecole contenenti azoto sono le seguenti: (NH2)2CO = urea; NH4+= ione ammonio; NH3 = ammoniaca; NH2OH = idrossilammina; NO2 = nitrito; NO3 = nitrato; NO = ossido nitrico (gas emesso); N2O = ossido di diazoto; N2 = azoto molecolare. Versione a colori disponibile online.  

Emissioni lungo la catena di gestione del letame

La “catena di gestione del letame” si riferisce alle varie pratiche associate alla raccolta, allo stoccaggio, alla trasformazione (se possibile) e all’impiego sul terreno del letame (Chadwick et al., 2011; Hou et al., 2015). Gli studi hanno dimostrato la necessità di un approccio integrato, poiché le pratiche volte a ridurre le emissioni in una certa fase della catena potrebbero influenzare la quantità e la tipologia di emissioni nelle fasi successive. Il Wisconsin Survey Work di Powell et al. (2005) indicava che gli allevamenti con stalle a posta fissa con catena o con montanti raccoglievano, in media, il 68% del letame prodotto dalle bovine in lattazione, non avevano sostanzialmente capacità di stoccaggio e portavano quotidianamente il letame solido sul terreno. Al contrario, gli allevamenti con stalla a posta libera (> 100 capi) raccoglievano in media il 98% del letame prodotto dalle bovine in lattazione, lo stoccavano come liquido (liquame) e lo disperdevano sul terreno stagionalmente (applicazioni in autunno e in primavera). Durante un’indagine più recente condotta sul settore lattiero-caseario del Wisconsin, Aguirre-Villegas e Larson (2017) hanno identificato 3 tipologie di alloggio per i bovini (a posta libera, a posta fissa con catena, con lettiera compost permanente), 5 metodi di raccolta del letame (raschiatore per corsie, pavimentazione fessurata, miniscavatori con pale gommate, sistemi di pulizia della stalla e lavaggio delle canaline), 2 categorie di stoccaggio (a breve termine, a lungo termine), 4 metodiche di trasformazione (nessuna trasformazione, digestore anaerobico, separatore solido-liquido, separatore di sabbia) e 3 metodi di applicazione sul terreno (applicazione solo in superficie, in superficie e mediante iniezione e solo mediante iniezione). Utilizzando un approccio LCA, gli autori hanno stimato che, a seconda della gestione del letame applicata in azienda, le emissioni di gas serra (kg di CO2-eq/t di letame) variavano da 2.2 a 12 per la raccolta, da 0.2 a 2.4 per il trasporto, da 16.0 a 84.0 per lo stoccaggio e da 16.4 a 33.5 per la distribuzione sul terreno. Non tutte le possibili combinazioni delle pratiche erano ugualmente probabili poiché la pertinenza (e la convenienza) delle specifiche pratiche di gestione del letame variavano a seconda delle dimensioni dell’allevamento. Pertanto, gli autori hanno concepito le emissioni di gas serra riferendosi a 3 categorie di dimensione degli allevamenti. Negli allevamenti piccoli (1-99 capi), in quelli grandi (200-999 capi) e in permitted operation (> 1.000 vacche), l’emissione media concepita era, rispettivamente, di 45.5, 104.9 e -21.9 kg di CO2-eq/t di concime e queste emissioni corrispondevano a 71, 323 e –77 g di CO2-eq/kg di latte. I numeri negativi relativi alle permitted operation riflettevano i benefici associati alla digestione anaerobica del letame, visto che questi calcoli tenevano conto dei gas serra non emessi dalle centrali elettriche locali, poiché in questi grandi allevamenti l’elettricità proveniva dall’impiego del CH4 come alimentazione dei generatori elettrici. I valori delle emissioni correlate alla digestione anaerobica erano circa 60 kg di CO2-eq/t di letame (219 g di CO2-eq/kg di latte). La Figura 5 è stata disegnata allo scopo di illustrare il range di emissioni che potrebbe essere previsto sulla base della catena di gestione del letame che si rileva tipicamente negli allevamenti del Wisconsin. La colonna più a sinistra mostra lo scenario migliore mentre la colonna più a destra rappresentava lo scenario peggiore all’interno di ciascuna categoria dimensionale dell’allevamento. Occorre prestare attenzione durante l’interpretazione di questi dati a causa delle dimensioni del campione relativamente piccole (n = 16, 47 e 45 per i piccoli, i grandi e le permitted operation, rispettivamente) e perché le emissioni sono state stimate piuttosto che misurate effettivamente. Tuttavia le principali nozioni da riportare a casa erano le seguenti. In primo luogo, la dimensione degli allevamenti di per sé non era un fattore determinante per le emissioni di GHG dal letame (ad esempio, l’emissione nello scenario peggiore dei piccoli allevamenti era superiore all’emissione nello scenario migliore dei grandi allevamenti). Tuttavia, il probabile range di emissioni aumentava sostanzialmente con le dimensioni dell’allevamento (come suggerito dall’aumento in grandezza della differenza tra lo scenario migliore e quello peggiore per i  piccoli, i grandi e le permitted operation). In secondo luogo, la fonte principale delle emissioni variava a seconda delle dimensioni dell’allevamento. Nei piccoli allevamenti la fonte principale delle emissioni era rappresentata dalla N2O che scaturiva dalla dispersione superficiale del letame sul terreno. Nei grandi allevamenti la fonte principale delle emissioni era il CH4 prodotto durante lo stoccaggio, con un aumento sostanziale delle emissioni correlato ad un prolungamento dei tempi di stoccaggio (Figura 5). In terzo luogo, il trattamento del letame operato nei grandi allevamenti ha permesso di ridurre in maniera sostanziale le emissioni di gas serra. La separazione della frazione solida da quella liquida ha ridotto sostanzialmente le emissioni di CH4 durante la fase di stoccaggio. Inoltre, la combinazione della digestione anaerobica con la separazione solido-liquido ha quasi eliminato l’emissione di CH4 durante lo stoccaggio. Amon et al. hanno riscontrato degli effetti simili relativi alla combinazione della separazione solido-liquido con la digestione anaerobica (2006). In quarto luogo, la diminuzione dei gas serra prodotti dalle centrali elettriche locali (come effetto dell’impiego di elettricità alternativa  generata dalla digestione anaerobia) ha più che compensato le emissioni prodotte dall’intera catena di gestione del letame. In contrasto con i sostanziali benefici, come la riduzione delle emissioni di gas serra e l’aumento dell’efficienza dell’approvvigionamento energetico, il principale svantaggio della digestione anaerobica era il notevole aumento dell’emissione di ammoniaca (Tabella 1), che in sostanza diminuiva il valore della fertilizzazione azotata (contenuto di azoto disponibile per la pianta) del letame sottoposto a digestione rispetto a quello non trattato ed utilizzato sempre per concimare il terreno (Aguirre-Villegas et al., 2014). Infine, va considerato che l’effetto della dimensione dell’allevamento sull’emissione complessiva di gas serra dalla catena di gestione del letame qui discussa, dovrebbe essere interpretato con cautela. Nel loro sforzo di creare un modello adeguato, Aguirre-Villegas e Larson (2017) non hanno tenuto conto di un’emissione di GHG maggiore di 3.2 volte quando il letame viene iniettato nel terreno (pratica usuale negli allevamenti molto grandi, eseguita soprattutto come misura di controllo degli odori) piuttosto che quando viene sparso sulla superficie del terreno, un effetto dovuto principalmente al sostanziale aumento della denitrificazione (emissione di N2O) e ad una maggiore dispersione di carbonio nel suolo (emissione di CO2; Agnew et al., 2010). 

 

Figura 5. Emissioni modellate di gas serra (GHG) provenienti dalla catena di gestione del letame in 3 tipologie di fattorie del Wisconsin [S = piccola (< 99 bovine), L = grande (200-999 bovine) e P = permitted operation ( >1.000 bovine)] in scenari contrastanti (scenario migliore a sinistra e scenario peggiore a destra all’interno di una categoria di allevamento). Il componente principale della catena di gestione del letame responsabile della differenza tra gli scenari è rappresentato nel grafico. La maggior parte delle emissioni correlate all’applicazione del concime sul terreno erano costituite da ossido di diazoto e la maggior parte delle emissioni rilevate durante lo stoccaggio erano costituite da metano. SS = separazione della sabbia, SLS = separazione solido-liquido e AD = digestione anaerobica del letame processato. eq = equivalenti. Ristampato da Aguirre-Villegas e Larson (2017) con il permesso di Elsevier. Versione a colori disponibile online. 

Tabella 1. Effetto della separazione solido-liquido (SLS) in azienda e della digestione anaerobica (AD) del letame sulle emissioni di gas serra (GHG), sulla riduzione dell’impiego di combustibili fossili, sulle emissioni di ammoniaca ed sull’efficienza della generazione di energia rispetto alla rete elettrica (dati di Aguirre-Villegas et al., 2014). 

Emissioni di GHG dal terreno

Fattori chiave delle emissioni provenienti dal terreno

Attraverso i vari ecosistemi, l’attività microbica, i processi di decomposizione e la respirazione (radici delle piante, fauna del suolo e funghi) sono le cause naturali delle emissioni di gas serra (come CO2, CH4 e N2O) dal suolo. Nei terreni agricoli, l’emissione di CH4 è in genere minima (Osterholz et al., 2014). Al contrario, le emissioni dirette ed indirette di N2O possono essere fonte di importanti preoccupazioni. L’emissione diretta di N2O deriva dai processi di nitrificazione e denitrificazione che avvengono nel suolo, mentre la volatilizzazione dell’ammoniaca e la lisciviazione dei nitrati sono fonti indirette di N2O (Figura 6). Un’altra preoccupazione importante (verso la quale è diretta un’area di ricerca molto attiva) riguarda le dinamiche del carbonio organico (SOC) presente nel suolo, che potrebbe esaurirsi o accumularsi nel tempo. Uno sfruttamento eccessivo delle terre coltivabili porta alla perdita di C del terreno sotto forma di CO2 (Sanford et al., 2012), mentre un accumulo (nei pascoli) porta ad un sequestro del carbonio (Lal, 2004; Soussana et al., 2010). A livello globale, Oertel et al. (2016) hanno identificato 8 fattori chiave che determinano il rilascio di gas serra dai terreni. Questi fattori includono (1) i cambiamenti nella destinazione di utilizzo del terreno (ad es. la conversione di ecosistemi naturali, come le foreste, in terreni agricoli); (2) gli incendi della vegetazione; (3) la tipologia di vegetazione (ad esempio, l’aumento della biodiversità dei pascoli con l’introduzione di leguminose, di piante C3 e C4 che aumentano il potenziale di sequestro del C nel suolo; vedere meglio in seguito); (4) l’esposizione del terreno (ad es., emissioni maggiori si verificano nelle terre basse depresse, che mantengono un’umidità del suolo maggiore rispetto ai terreni localizzati più in alto) e la pressione atmosferica (una pressione più bassa ad altitudini più elevate è stata associata a maggiori emissioni); (5) il contenuto di nutrienti del terreno (fortemente influenzato dalle pratiche di fertilizzazione e dal risultante rapporto carbonio-azoto (C:N), vedere in seguito); (6) il pH del terreno (ad esempio, condizioni acide del terreno diminuiscono un certo tipo di attività microbica e le correlate emissioni); (7) la temperatura (ad esempio, i fattori Q10, che descrivono un cambiamento nell’attività microbica in seguito ad un cambiamento di temperatura di 10°C, di solito fino a 37°C, e che sono stati determinati per molte reazioni legate alle emissioni); e (8) l’umidità del terreno (il singolo fattore più importante poiché regola l’attività microbica influenzando sostanzialmente l’emissione di N2O). Il contenuto di acqua nel suolo, la temperatura, il pH e la disponibilità dei nutrienti sono probabilmente i fattori chiave delle emissioni di gas serra provenienti dai terreni agricoli. Come illustrato nella Figura 7, alcuni di questi fattori possono essere controllati mediante un corretto management, mentre altri sono fattori ambientali che sfuggono al controllo dell’allevatore. Ad esempio, la temperatura e l’umidità potrebbero presentare ampie variazioni stagionali ma, a lungo termine, i sistemi colturali e le pratiche di gestione potrebbero influenzare il contenuto di OM del terreno, che a sua volta potrebbe influenzare la capacità di ritenzione idrica, il pH, la disponibilità di nutrienti e la fertilità complessiva del terreno (Powell, 2014). 

Attenuazione dell’emissione dell’ossido di azoto 

Le principali reazioni chimiche implicate nella formazione e nel rilascio di N2O dal terreno sono illustrate nella Figura 6. La conversione dell’ammoniaca, in condizioni aerobiche (nitrificazione), in nitrito (NO2) e poi in nitrato (NO3) e la riconversione del nitrato in nitrito e in diazoto (N2) in condizioni di rigorosa anaerobiosi (denitrificazione), sono processi critici che determinano la quantità di NO3 presente sul terreno e la disponibilità per la crescita delle piante. A seconda delle condizioni del terreno le forme intermedie di N, compreso l’ossido di azoto (NO) e l’N2O, vengono rilasciate come emissioni dirette (Schreiber et al., 2012; Hu et al., 2015). I picchi di emissione dell’N2O si associano ai processi di congelamento e scongelamento che si hanno durante l’inverno (Oertel et al., 2016) e alla comparsa delle precipitazioni che si hanno subito dopo la fertilizzazione durante la stagione vegetativa (Oates et al., 2015; Friedl et al., 2017). La presenza di acqua nel terreno è inversamente correlata al contenuto di ossigeno e l’emissione di N2O è quasi nulla nei terreni asciutti (spazio poroso riempito di acqua < 30%). Poiché l’umidità sposta l’ossigeno, l’N2O viene rilasciato sempre di più dai terreni, fino a che lo spazio poroso riempito d’acqua non raggiunge il 60% circa. Quando il suolo è vicino alla completa saturazione d’acqua, prevalgono condizioni di anaerobiosi, diminuisce l’emissione di N2O ma aumenta nettamente l’emissione di N2 a causa della denitrificazione (Oertel et al., 2016). Inoltre l’attività microbica (e quindi le emissioni) dipendono fortemente dalla disponibilità di C organico come fonte di energia e dalla disponibilità di N come elemento essenziale per la sintesi di AA e proteine. Pertanto la disponibilità di ammoniaca, come substrato per la nitrificazione, dipende sostanzialmente dall’equilibrio tra mineralizzazione e immobilizzazione dell’azoto nei terreni (Figura 6). I microrganismi presenti nel terreno hanno un rapporto C:N vicino a 8:1, ma un substrato bilanciato per il microrganismo presenta un rapporto C:N di 24:1 perché per le 8 parti di C trattenute, 16 parti vengono restituite all’atmosfera come CO2 (NRCS-USDA, 2011). Quindi, il rapporto C:N del suolo è correlato con l’emissione di N2O. L’abbondanza di C rispetto all’azoto (rapporto C:N ≥ 30) riduce le emissioni di N2O, ma un eccesso di N rispetto a C (C:N ≤ 11) favorisce ed incrementa l’emissione di N2O (Gundersen et al., 2012). I concimi ottenuti dalle deiezioni animali sono importanti fonti di C, N e micronutrienti, ma il rapporto C: N è estremamente variabile a seconda della composizione della dieta (Sørensen et al., 2003; Powell et al., 2006), delle condizioni della lettiera, della lavorazione e dello stoccaggio. Al contrario, i fertilizzanti sintetici a base di azoto hanno composizioni standard sotto forma di N facilmente disponibile per le piante (principalmente NO3 e secondariamente NH4+). In linea generale, il tasso delle emissioni di N2O decresce con la diminuzione del tasso di applicazione dell’azoto (Zaman et al., 2012; Bell et al., 2015; Oertel et al., 2016), ma la sfida di ridurre le emissioni di N2O mantenendo la resa delle colture viene complicata da numerose variabili spaziali e temporali e dai molteplici fattori che ne influenzano l’emissione (Figura 7). Tuttavia, Venterea et al. (2012) hanno suggerito che dalle modificazioni del tasso, della fonte, della distribuzione o dei tempi di applicazione dei fertilizzanti azotati potrebbero risultare delle promettenti vie di attenuazione. Inoltre, le pratiche in grado di migliorare il contenuto di OM nel terreno (come fresatura minima o assente, conservazione dei residui delle colture, pacciamatura, applicazione di concimi organici e così via) e una calcinazione regolare del suolo (per mantenere il pH verso valori elevati) sarebbero probabilmente in grado di ridurre il tasso di emissione di N2O e il rapporto N2O:N2 (Zaman et al., 2012). 

Figura 6. Illustrazione semplificata del passaggio di N tra atmosfera e suolo con enfasi su aspetti agronomici correlati alla fertilizzazione delle piante e sulle reazioni implicate nella formazione e nell’emissione di ossido di diazoto (diretto ed indiretto). Diverse tipologie di frecce sono utilizzate per identificare le principali trasformazioni correlate a (1) immobilizzazione, (2) mineralizzazione, (3) nitrificazione, (4) denitrificazione e (5) fissazione biologica dell’azoto (BNF) da parte di piante leguminose. Le molecole contenenti azoto sono le seguenti:  N2 = azoto molecolare; NH4+= ione ammonio; NH3 = ammoniaca; NH2OH = idrossilammina; NO2 = nitrito; NO3 = nitrato; NO = ossido nitrico (gas emesso); N2O = ossido di diazoto (fonti: Schreiber et al., 2012; Hu et al., 2015). Versione a colori disponibile online.  

 

Figura 7. Fattori che influenzano le emissioni dirette ed indirette di N2O dai terreni agricoli (modificato da Venterea et al., 2012, con il permesso di John Wiley & Sons Inc.). Versione a colori disponibile online. 

Effetti della rotazione delle colture sulle emissioni di GHG

Il Wisconsin Integrated Cropping Systems Trial è una sperimentazione a lungo termine condotta sul campo avviata nel 1990 che prevede 6 sistemi di coltivazione tipici del Wisconsin (Posner et al., 1995). Comprende 3 rotazioni di cash crop (tipiche di aziende specializzate nella produzione di cereali: CS1, CS2 e CS3; Figura 8a) e 3 rotazioni di colture foraggere (tipiche delle aziende zootecniche: CS4, CS5 e CS6). Il CS1 è un metodo continuo di produzione del mais ad alti input esterni. Il CS2 è una rotazione di 2 anni con metodo mais-soia, con input esterni moderati. Il CS3 è un metodo biologico di rotazione della durata di 3 anni che prevede l’impiego di mais seguito da soia e frumento invernale, intervallati da trifoglio rosso nel terzo anno. Il CS4 è rappresentato da una rotazione ad alti input esterni della durata di 4 anni di foraggio-mais seguita da 3 anni di erba medica. Il CS5 è una rotazione biologica della durata di 3 anni di mais, seguito da avena-erba medica e da erba medica nel terzo anno. Infine, il CS6 rappresenta un sistema di pascolo per manze costituito da foraggere, seminato con una miscela di trifoglio rosso, fleolo, bromo inerme e dattile. I risultati delle prestazioni agronomiche ed economiche, ottenuti dopo oltre 2 decenni di raccolta dei dati, sono disponibili  altrove (https:// wicst.wisc.Edu/publications/). Utilizzando i dati del Wisconsin Cropping Systems Trial, le emissioni di GHG sono state quantificate e classificate in 3 sezioni principali: (a) emissioni dirette e indirette nel terreno, (b) emissioni integrate correlate alle pratiche di produzione e agli input utilizzati, e (c) cambiamento nel SOC che rifletteva sia il sequestro che la perdita di C (Sanford et al., 2012; Figura 8b). I dati per completare la valutazione delle emissioni di GHG provenivano dal software Gabi (http://www.gabi -software.com/databases/), dall’IPCC (2006) e da 16 anni di misurazioni condotte sul campo. Le emissioni nel terreno (CO2-eq/ha annuali) variavano da 511 kg per CS3 (grano biologico) a 2.116 kg per CS6 (pascolo rotazionale), ed erano comprese tra 1.500 e 1.600 kg circa per tutte le altre rotazioni. Le emissioni integrate (CO2-eq/ha annuali) variavano da 517 per CS3 (grano biologico) a 1.610 kg per CS1 (mais coltivato con metodo continuo) ed erano 800 kg circa per tutte le altre rotazioni. Queste emissioni, tuttavia, sono state oscurate dalle emissioni di CO2, in particolare per quanto riguarda i sistemi di rotazione dei cereali (Figura 8b). Le perdite di CO2 erano in media di 7.106, 3.194, 3.505, 1.654, 2.684 e 642 kg/ha all’anno. Sebbene il sistema che prevedeva pascoli a rotazione sequestrasse C nei primi 15 cm del terreno, questi guadagni sono stati contrastati dalle perdite di SOC proveniente da zone a maggiore profondità. Gli autori hanno concluso che, per le condizioni territoriali del Wisconsin meridionale, sia le pratiche di non fresatura del terreno che l’adozione di coltivazioni perenni riducevano le perdite di SOC, anche se non portavano ad un sequestro di C nel suolo (Sanford et al., 2012). In uno studio complementare, Osterholz et al. (2014) hanno concluso che il passaggio da sistemi continui di coltivazione di mais ad alto input a sistemi più diversificati e con rotazioni più lunghe, e il passaggio da sistemi di rotazione più brevi con mais-erba medica a metodi di rotazione più lunghi con erba medica (quindi con applicazioni di letame meno frequenti) o a sistemi di pascolo rotazionale, potrebbero ridurre le emissioni di gas serra dai terreni di alta qualità derivati dalla prateria dell’alto Midwest degli Stati Uniti. Queste conclusioni sono state supportate dalle scoperte di Oates et al. (2015), che ci suggeriscono come le emissioni di GHG si siano ridotte considerevolmente passando dalla monocoltura annuale (ad es. Mais, soia, canola) alla monocultura perenne (ad esempio, panico verga) e ancora di più con i sistemi di policolture perenni (recupero delle praterie). Sebbene questo progetto di ricerca illustrasse principi importanti, non è stato progettato per studiare la produzione di foraggio per i bovini da latte. Altri hanno suggerito che l’introduzione di leguminose azoto-fissatrici all’interno della rotazione di colture a base di cereali, ridurrebbe l’impiego di fertilizzanti sintetici a base di azoto e potrebbe attenuare l’emissione di N2O dal suolo (Schwenke et al., 2015). 

Figura 8. (A) Rotazioni colturali studiate nel Wisconsin Integrated Cropping Systems Trial e (B) emissioni correlate di gas a effetto serra (GHG): emissioni in campo (fertilizzanti, residui colturali, N2O indiretto), emissioni integrate (diesel, essiccazione del grano, fertilizzanti, letame, pesticidi, semi e altro) ed emissione di CO 2 determinata come la perdita di carbonio organico del suolo durante un periodo di 20 anni. CS = sistema di coltivazione (dati provenienti da Sanford et al., 2012); eq = equivalenti. Versione a colori disponibile online.

Riserva di carbonio organico del suolo: emissioni di C vs. sequestro di C 

Le perdite di SOC (Soil Organic Carbon stock), a prescindere dai sistemi di coltivazione riscontrati nel Wisconsin meridionale, concordavano con quelle segnalate da altri autori europei, che concludevano come nella maggior parte delle condizioni i terreni emettessero CO2; tuttavia, gli autori europei hanno anche individuato alcune pratiche che potrebbero portare ad un sequestro di C, cioè ad un afflusso netto di CO2 nel terreno (Soussana et al., 2010; Oertel et al., 2016). Queste pratiche erano riferibili principalmente ai pascoli, ed includevano quanto segue: impedire ogni ulteriore conversione dei pascoli in terreni ad uso agricolo, non praticare la fresatura, intensificare i pascoli permanenti moderatamente poveri di nutrienti, adottare un pascolamento leggero invece di uno pesante e convertire pascoli provvisori in pascoli costituiti da un insieme di graminacee-leguminose o in pascoli permanenti (Soussana et al., 2010). Una recente meta-analisi basata su 42 studi a lungo termine (dai 3 agli 83 anni, con una media 18 anni) provenienti da tutto il mondo (Maillard e Angers, 2014) ha stabilito l’importanza relativa del clima, delle proprietà intrinseche del suolo, dell’utilizzo del terreno e delle caratteristiche del letame (di bovini, pollame e suini) sulla SOC. Gli autori hanno scoperto che quest’ultimo aspetto è uno dei fattori chiave in grado di spiegare il 53% di differenza di SOC stoccato nel suolo esistente tra terreni fertilizzati con letame e terreni non fertilizzati o fertilizzati con concimi minerali. Un altro studio a lungo termine ha mostrato l’importanza della rotazione delle colture e gli effetti positivi della concimazione sul SOC (Maillard et al., 2015). Gli autori sottolineavano come un elevato contenuto di OM implicasse un accumulo di forme azotate stabili nei terreni, suggerendo l’impiego di colture con rapporti C:N elevati e la reintroduzione delle leguminose nelle rotazioni che sono state troppo semplificate allo scopo di mantenere la fertilità del suolo e di aumentare il potenziale di sequestro di  C dei terreni. L’importanza del letame sul SOC è stata riconosciuta visto anche il suo effetto di innesco: il potenziamento dell’attività microbica coinvolta nella decomposizione del SOC dopo l’aggiunta di nuovo C (facilmente reperibile) sulla superficie del terreno (Fontaine et al., 2011). Sebbene questa importanza venga sempre più riconosciuta anche su scala globale (Guenet et al., 2018), i suoi effetti a lungo termine sono ancora poco chiari (Fontaine et al., 2011; de Graaff et al., 2014). 

Valutazione delle emissioni provenienti dagli allevamenti da latte

In una recente pubblicazione, Rotz (2018) hanno identificato 13 modelli aziendali in grado di stimare le emissioni di gas serra prodotti dagli allevamenti da latte. Questi modelli sono stati sviluppati in Europa, Nord America ed Australia a scopo di ricerca, d’istruzione o di supporto decisionale. Si basano su vari metodi di configurazione e utilizzano diversi insiemi di ipotesi per riflettere le condizioni prevalenti nei territori esaminati. Oltre a questi strumenti avanzati, i LCA (Life Cycle Assessement) sono diventati uno dei metodi di scelta utili ad identificare le fonti e per calcolare le emissioni dai sistemi zootecnici, a partire dalla pubblicazione del rapporto IPCC (2006) che stabilisce un approccio metodologico uniforme. Pertanto in questa sezione finale ci siamo concentrati sui LCA dalla culla all’uscita dall’allevamento, al fine di esplorare i vari tentativi di confronto di specifiche pratiche gestionali tipiche dei vari sistemi di allevamento da latte (convenzionale, al pascolo, biologico e così via) all’interno o oltre i confini nazionali. I 3 elementi chiave di ogni LCA sono l’unità funzionale, i confini del sistema e il metodo di allocazione del co-prodotto. L’unità funzionale è l’output di interesse, che fornisce un punto di riferimento per esprimere l’impatto ambientale. Per quanto riguarda gli allevamenti da latte, la produzione lattea viene solitamente normalizzata per il contenuto energetico o per il contenuto di grassi e proteine (IDF, 2010). I confini del sistema definiscono i componenti e i processi da includere nel LCA. Questi confini non sono fissi, ma dipendono piuttosto dall’obiettivo del LCA e, quindi, dall’interesse dei ricercatori. Il metodo di allocazione del coprodotto si riferisce al processo di assegnazione dell’impatto ambientale ad altri prodotti correlati alla produzione di un prodotto considerato principale. Un tipico co-prodotto della produzione lattea è la carne (vendita di giovani animali o di capi adulti che vengono abbattuti e che entrano nell’industria della carne), ma anche i cereali potrebbero essere considerati come dei co-prodotti (vendite di colture provenienti da allevamenti costituiti da grandi appezzamenti di terreno). L’allocazione dell’onere ambientale può essere fatta in diversi modi, infatti il metodo ideale è ancora molto dibattuto tra gli esperti di LCA. L’IDF (2010) raccomanda un’allocazione in base alla massa, basata sul rapporto standard o misurato carne-latte proveniente dagli allevamenti da latte. In alternativa, l’allocazione potrebbe essere effettuata su base economica. Durante l’espansione del sistema, l’onere viene assegnato al coprodotto basandosi su un sistema di produzione coesistente in parallelo (ad esempio, l’emissione attribuibile alla carne prodotta nell’allevamento da latte viene stimata come l’emissione generata dalla stessa quantità di carne ma prodotta in un’azienda specializzata nella produzione di carne). Lo strumento è flessibile poiché i ricercatori hanno utilizzato la metodologia LCA con una varietà di obiettivi. Ad esempio, i LCA sono stati utilizzati per valutare le emissioni di GHG dal settore lattiero-caseario a livello nazionale (Vergé et al., 2007; Thoma et al., 2013), per confrontare gli allevamenti da latte all’interno di un paese (Cederberg e Mattsson, 2000; Thomassen et al., 2008) o in tutti i paesi (Flysjö et al., 2011; O’Brien et al., 2014), per valutare l’effetto dell’intensificazione in allevamenti già esistenti (Haas et al., 2001; Salou et al., 2017), o per esplorare l’effetto di pratiche gestionali alternative rispetto a quelle presenti in uno scenario di base (Bell et al., 2011; Aguirre-Villegas et al., 2014). In questi studi le emissioni di GHG sono risultate essere, a volte, l’unico impatto ambientale di interesse, mentre in altri sono stati inclusi anche altri indicatori come l’impiego delle risorse (ad es. terreno, energia), l’acidificazione (SO4-equivalenti), l’eutrofizzazione (PO4-equivalenti), l’eco-tossicità per l’uomo (ad es. l’emissione di ammoniaca, l’uso di erbicidi e di antibiotici), la biodiversità (ad es., il numero di specie), l’immagine del paesaggio (estetica) e il benessere degli animali. La Figura 9 mostra un’analisi comparativa di 10 LCA dalla culla all’uscita dell’allevamento. L’emissione media di gas serra era di 1.1 ma poteva variare da 0.84 a 1.50 kg di CO2-eq/kg di latte. Dovremmo essere cauti nel confrontare i risultati tra gli studi, viste le scelte fatte dagli autori in merito all’unità funzionale, ai confini del sistema (processi spiegati), ai metodi di valutazione (calcolo) e al metodo di allocazione dei coprodotti. È interessante notare come molti autori abbiano rilevato differenze molto maggiori tra gli allevamenti all’interno di un sistema (ad esempio, convenzionale, biologico, al pascolo) piuttosto che tra i diversi sistemi (Haas et al., 2001; Flysjö et al., 2011). Questo ci porta ad ipotizzare come l’insieme delle pratiche gestionali impiegate all’interno dell’allevamento sia più importanti della sua posizione geografica o di qualsiasi altra più ampia categorizzazione. Come strumento, il LCA consente la configurazione delle procedure ed ha permesso agli scienziati di aggregare dati ed informazioni (ottenuti da differenti discipline) in una valutazione coerente e complessiva dell’impatto ambientale dei prodotti agricoli (alimenti). Tuttavia, lo strumento presenta alcune limitazioni evidenti. Ad esempio, gli attuali metodi di LCA possiedono una capacità limitata nel cogliere le interazioni tra le componenti del modello (ad esempio, i compromessi tra le emissioni di N2O e di CH4 discussi in precedenza) e i risultati potrebbero variare a seconda dei metodi di allocazione del coprodotto utilizzati (Flysjö et al., 2012; O’Brien et al., 2014). Durante questa review è stata evidenziata limportanza di mettere in discussione i  LCA come strumento di ricerca grazie al lavoro di Flysjö et al. (2012). In questo lavoro l’autore indicava come i risultati del LCA (ottenuti utilizzando un metodo di allocazione basato sulla massa o di tipo economico) spesso suggerissero che l’incremento della produzione di latte per vacca fosse una delle soluzioni utili a ridurre l’effetto della produzione di latte sui cambiamenti climatici. Tuttavia, se tenessimo in considerazione altri sistemi influenzati dal metodo di allocazione (vedi la carne proveniente da allevamenti da latte), non apparirebbe più così certo che un aumento della produzione lattea per vacca porti ad una riduzione delle emissioni di GHG per chilogrammo di latte (Zehetmeier et al., 2012). Analogamente, lo studio di Vellinga e de Vries (2018) concludeva che strategie di attenuazione, come l’aumento della produzione di latte per vacca o l’allungamento della vita produttiva delle bovine, risultavano essere meno efficaci quando nello studio veniva tenuta in considerazione anche la quantità di carne prodotta. Sebbene la maggior parte dei LCA per il settore del latte pubblicati fino ad oggi siano di tipo attributivo (Beauchemin e McGeough, 2013), l’impiego futuro di LCA consequenziali (Ekvall e Weidema, 2004) ci aiuterà a fronteggiare alcune delle lacune evidenziate in questo studio. I LCA consequenziali sono data-intensive, e rappresentano un metodo alternativo più incentrato sulle correlazioni causali e sulle conseguenze del processo decisionale rispetto ai LCA attributivi. 

Figura 9. Analisi del ciclo di vita (dalla culla all’uscita dell’allevamento) della produzione di latte proveniente da 10 studi: 1 = Thoma et al. (2013); 2 = Aguirre-Villegas et al. (2015); 3 = Bell et al. (2011); 4 = Vergé et al. (2007); 5 = Cederberg e Mattsson (2000); 6 = Haas et al. (2001); 7 = Flysjö et al. (2012); 8 = O’Brien et al. (2014); 9 = Salou et al. (2017); 10 = Thomassen et al. (2008). Sistemi di allevamento da latte: C = convenzionale; O = biologico; I = intensivo; G = al pascolo; E = estensivo; M = mais (insilato di mais); VI = molto intensivo. Paese/regione: US = Stati Uniti; WI = Wisconsin; UK = Regno Unito; CA = Canada; SW = Svezia; GE = Germania; NZ = Nuova Zelanda; IR = Irlanda; FR = Francia; NE = Paesi Bassi. GHG = gas effetto serra; eq = equivalenti. Versione a colori disponibile online. 

Applicazioni

Le emissioni di gas serra in allevamento sono inevitabili, a causa delle attività microbiche che si verificano naturalmente nel tratto digerente degli animali, nel letame e nel terreno. Sebbene esistano alcune soluzioni utili ad attenuare le emissioni provenienti da ciascuna di queste fonti (ad esempio, evitando l’eccesso di CP nella dieta, lavorando il letame ed effettuando la movimentazione del terreno), ad oggi sarebbe necessario descrivere ancora meglio gli effetti combinati dell’alimentazione, del letame e della lavorazione del terreno piuttosto che considerarli come 3 ambiti separati di un processo decisionale. Nutrizionisti, ingegneri ed agronomi (studiosi del suolo) tendono ad utilizzare, rispettivamente, il latte (kg), il letame (tonnellate) e il terreno (ettari) come unità di riferimento preferita. Tuttavia, in base al grado di specializzazione (diversificazione), gli allevamenti da latte non solo producono latte e carne, ma possono anche esportare cereali (tutti fattori che contribuiscono all’approvvigionamento di sostanze nutritive commestibili per l’uomo) ed eventualmente di letame o di elettricità, che potrebbero portare ad una dislocazione delle emissioni fuori dall’allevamento. Pertanto la ricerca deve diventare transdisciplinare per poter cogliere gli effetti delle scelte gestionali sulla produzione dei GHG, sull’attenuazione di GHG e sui processi che ci permettono di risparmiare GHG, sia dentro che fuori dall’allevamento. 

Letteratura citata

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Applied Animal Science 35:238–254

doi.org/10.15232/aas.2018-01803

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Gli autori dichiarano l’assenza di un conflitto di interessi. * Questa review è basata su una presentazione per l’ ARPAS Symposium: Sustainable Dairy Production at the 2018 ADSA Annual Meeting in Knoxville, Tennessee. Gli autori ed il giornale vorrebbero ringraziare gli sponsor Platino del 2018 ARPAS Symposium, Qualitech e l’ARPASFoundation, e gli sponsor Bronzo, One Trak by Cargill, per aver fornito i fondi utili alla pubblicazione di questo manoscritto.
†Autore corrispondente: wattiaux@ wisc .edu