I nutrienti sono quell’insieme di molecole, ingerite con il mangiare, necessarie al metabolismo degli organismi e quindi per vivere. Essi sono un insieme complesso di sostanze ben note ai nutrizionisti, che li gestiscono nello stesso modo con cui un direttore d’orchestra coordina i musicisti per produrre una melodia, che nel nostro caso si chiama dieta.

Gli alimenti che l’animale quotidianamente ingerisce sono composti da questi nutrienti, in quantità e proporzioni variabili, che devono essere assorbiti nei vari distretti dell’apparato gastro-intestinale, per entrare nell’organismo.

Nei monogastrici il calcolo di una dieta è complesso, ma più semplice rispetto ai ruminanti. L’azione degli enzimi gastro-intestinali libera i nutrienti dagli alimenti per renderli disponibili all’assorbimento intestinale per cui, nei monogastrici, fare i dovuti calcoli del rapporto fabbisogno/apporto è relativamente facile. Nei ruminanti la situazione è invece molto più complessa perché una parte preponderante della dieta giornaliera viene fermentata dal rumine e quello che arriva all’intestino per l’assorbimento ha una composizione molto diversa rispetto agli alimenti di partenza. Quello che avviene infatti è che il ruminante nutre il rumine e il rumine nutre il ruminante in rapporto simbiotico.

Un aspetto fondamentale nella nutrizione di questi animali è pertanto la conoscenza delle dinamiche delle fermentazioni ruminali, di come vengono modificati i nutrienti apportati con la dieta e di come, dove e in che quantità vengono assorbiti. Questi ultimi aspetti sono molto importanti e ricadono sotto la disciplina della biodisponibilità che, nella lingua utilizzata dalla scienza, è chiamata “bioavailability”. Questo importante aspetto della nutrizione è definito come “il livello di assorbimento di un nutriente ingerito e presente in una determinata fonte che può pertanto essere utilizzato nel metabolismo dell’animale”. La conoscenza esatta della biodisponibilità di un nutriente è importante sia per quelli naturalmente presenti negli alimenti che per quelli aggiunti alla dieta come additivi.

Nei ruminanti è fondamentale conoscere non solo la biodisponibilità dei nutrienti ma anche il loro tasso di rumino-degradabilità ossia la quantità che viene distrutta dalle fermentazioni ruminali.

Quando si studia una dieta per ruminanti utilizzando il modello “Cornell Net Carbohydrate and Protein System (CNCPS)” al sistema viene descritto minuziosamente ogni singolo ingrediente e la quantità che si intende utilizzarne nella dieta di un determinato gruppo di animali per i quali è stato fatto un accurato studio dei fabbisogni nutritivi. Il CNCPS calcola quanta proteina metabolizzabile verrà prodotta dalle fermentazioni ruminali e quanta proteina “vegetale” (in Europa quella di origine animale è vietata) potrà arrivare all’intestino tenue e quindi costituire il pool della proteina metabolizzabile non microbica. Per proteina metabolizzabile s’intende pertanto la somma di quella presente nel microbioma ruminale e di quella alimentare che sfugge alle fermentazioni ruminali, al netto della digeribilità intestinale. Pertanto, il CNCPS stimerà quanti amminoacidi, sia essenziali che non essenziali, sono potenzialmente assorbibili dall’intestino tenue e quindi disponibili per il metabolismo. Calcolerà la quantità dei singoli acidi grassi volatili prodotti nel rumine e i lipidi e i carboidrati non strutturali che “by-passeranno” il rumine e saranno quindi disponibili per l’assorbimento o l’ulteriore processo fermentativo che avviene nel grosso intestino. Lo stesso dicasi per i minerali.

Quando s’intende utilizzare additivi come amminoacidi, macro e micro minerali e vitamine nei monogastrici è indispensabile conoscere la loro biodisponibilità. Nei ruminanti bisogna anche conoscere la loro rumino-degradabilità che in genere per nutrienti come gli amminoacidi e le vitamine è molto elevata. È questo il motivo per cui molti di questi nutrienti vengono utilizzati in forma rumino-protetta, perché altrimenti risulterebbero quasi completamente inefficaci, a meno che ci si aspettino degli effetti sulle fermentazioni ruminali. I fattori che condizionano la rumino-degradabilità e la biodisponibilità nei ruminanti sono molti e molto complessi. Sono fattori fisico-chimici nel nutriente naturale o di sintesi, dipendenti dal tipo di dieta che si sta utilizzando, dalle caratteristiche degli animali e dal loro stato produttivo o di salute. È molto complesso anche verificare quanto il presupposto teorico della biodisponibilità e rumino-degradabilità di un nutriente si discosta dalla realtà. La misurazione delle variazioni ematiche di un determinato principio attivo può essere fuorviante in quanto alcuni, anzi molti di essi, come le vitamine, gli amminoacidi e quant’altro, possono essere immediatamente dirottati verso le funzioni metaboliche a cui sono destinati o trasformati in altri principi attivi. Consideriamo ad esempio il caso della colina e della metionina che, in caso di carenze secondarie, vengono utilizzate per una sintesi reciproca.

Solitamente nelle diete per ruminanti vengono aggiunti routinariamente i macro-minerali, i micro-minerali e le vitamine. Amminoacidi essenziali come la lisina e la metionina, oppure specifiche molecole che hanno effetto sulla funzionalità e la salute del fegato, come la colina, la carnitina e la betaina, vengono aggiunte se servono, oppure sono di routine in determinate fasi del ciclo produttivo dei ruminanti da latte.

LE VITAMINE

La necessità di aggiungere vitamine alla dieta dei ruminanti è ancora oggetto di controversie sia per quanto riguarda il tipo che per la quantità. Sicuramente esiste uno specifico fabbisogno di vitamina A, D3 ed E, per cui se ne consiglia l’aggiunta anche se sono ancora molto discusse le concentrazioni da utilizzare. Per comprendere questa difficoltà può essere utile utilizzare come esempio la vitamina A. Nella guida “Nutrient Requirements of Dairy Cattle (2001)” dell’NRC viene consigliato per bovine di razza Holstein, di kg 680 di peso, con una produzione di kg 45 di latte a gg 90 di lattazione e con una ingestione di kg 26.9 di sostanza secca, l’inserimento di 75.000 UI al giorno di questa vitamina. Alla maggior parte dei nutrizionisti però questa quantità sembrava insufficiente per cui ne venivano aggiunte concentrazioni considerevoli. Il regolamento CE 724/2015 ha normato il limite massimo d’apporto per gli animali da reddito. Rimanendo nell’esempio della bovina da latte, questo limite è di 9000 UI per Kg di mangime completo o meglio di razione giornaliera (al 12% di umidità), quantità di gran lunga superiore a quanto consigliato dalla NRC 2001.

In tutte le diete per ruminanti vengono aggiunte sia le vitamine liposolubili (A, D3 e E) che quelle idrosolubili, come la vitamina B1, B2, B6, B12, PP, oltre alla biotina della cui importanza discuteremo in un uno dei prossimi articoli. La vitamina A aggiunta alla razione è in realtà un estere (acetato, propionato e palmitato) di retinile, molecola di per sé molto instabile. Le stesse considerazioni possono essere fatte per il tocoferolo (forma attiva della vitamina E) somministrata agli animali sotto forma esterificata come tocoferil-acetato, oppure. al colecalciferolo (vitamina D3). Tutte le vitamine, comprese quelle del gruppo B, sono molto sensibili al pH. Essendo quindi suscettibili alla degradazione da parte di agenti esterni come calore, luce, umidità, pH e interazione con gli altri componenti della dieta, è necessario ricorrere ad una adeguata “protezione”, con emulsioni di amido e gelatina e con la tecnologia dello spray-dried.

Queste tecnologie sono diverse dalla rumino-protezione che, oltre a proteggere i nutrienti dagli agenti esterni, permette  ad un principio attivo di resistere anche alle fermentazioni ruminali e di essere disponibile per l’assorbimento intestinale. Buona parte delle vitamine se non rumino-protette vengono infatti distrutte in questa sede e quindi non saranno disponibili per il ruminante.

MINERALI

Per quanto riguarda la nutrizione minerale nei ruminanti sono disponibili maggiori informazioni sia relativamente ai fabbisogni che alla loro concentrazione negli alimenti e nei tessuti degli animali. I minerali oggetto dell’attenzione dei nutrizionisti sono suddivisi in macrominerali, come calcio, fosforo, sodio, cloro, magnesio e zolfo, così chiamati perché i fabbisogni si calcolano nella scala dei grammi, e in microminerali o oligoelementi, come rame, ferro, manganese, zinco, cobalto, selenio e molibdeno, i cui fabbisogni vengono espressi in milligrammi. Questi ultimi non rappresentano la totalità dei microminerali classificabili come nutrienti, ma solo quelli utilizzabili in Europa in aggiunta alla dieta degli animali da reddito. La procedura più corretta per gestire l’integrazione minerale consiste innanzitutto nello stabilire esattamente il fabbisogno, che è diverso per specie, per razza e per fase del ciclo produttivo. Successivamente, si deve conoscere la concentrazione minerale degli alimenti, utilizzando le opportunità analitiche offerte dai NIRS e dall’XRF oppure con i metodi tradizionali, e successivamente dosare i minerali nei tessuti come il sangue e il latte.

È comunque noto quali siano le molecole che apportano i minerali e che garantiscono una maggiore biodisponibilità. Vediamo alcuni esempi. Il calcio è importante perché svolge nell’organismo molteplici funzioni metaboliche e, unitamente al fosforo e al magnesio, è indispensabile per la coagulazione del latte in formaggio. Solitamente si apporta nella dieta dei ruminanti come calcio carbonato (sale di calcio dell’acido carbonico) per la semplice reperibilità e per il basso costo, pur sapendo che la biodisponibilità del calcio in questa molecola è classificata come media rispetto ai ben più costosi cloruro di calcio e fosfato mono e bicalcico. Nel caso del calcio, ma vale per tutti i macrominerali, se ne può dosare la concentrazione nel sangue e stabilire se l’apporto con la razione e la sua biodisponibilità sono adeguati. Più complessa e “delicata” è la situazione degli oligoelementi, perché molti sono i fattori che ne condizionano la biodisponibilità. Aumentare quest’ultima (ad esempio apportandoli come solfati, rispetto agli ossidi e ai carbonati)è diventato di primaria importanza anche per poter ridurre la quantità di minerali nella dieta. Lo scopo è quello di ridurre il carico inquinante legato ai microminerali, evitando dannose e costose dispersioni nell’ambiente attraverso le feci. Le informazioni di base che accompagnano qualsiasi additivo non biologico da utilizzare nei ruminanti devono essere la concentrazione di principio attivo, la rumino-degradabilità e la biodisponibilità intestinale. Per ottimizzare il consumo degli oligoelementi si utilizzano nei ruminanti le forme chelate. I chelati altro non sono che lo ione metallico “legato” ad un amminoacido, a complessi peptidici, ad uno zucchero, oppure a polisaccaridi. La chelazione solitamente consente un incremento della biodisponibilità in quanto il micro-elemento viene assorbito in quantità maggiore rispetto alla forma inorganica perché utilizza la via d’assorbimento dell’agente chelante. Per alcuni elementi, come per il selenio, esistono anche forme microincapsulate che permettono di evitare la riduzione da parte della flora microbica ruminale a forme non disponibili per l’assorbimento intestinale. È noto da tempo che possano sussistere interazioni di sinergia o antagonismo nella biodisponibilità dei minerali. Utile come esempio è l’antagonismo rame-molibdeno-zolfo. Lo zolfo nel rumine si trasforma in solfuro che interagisce con il molibdeno trasformandolo in thiomolibdato che ha a sua volta un effetto negativo sul metabolismo del rame.

AMMINOACIDI E NON SOLO

Tra le molecole suscettibili di degradazione ruminale e, quindi, di bassa biodisponibilità, ci sono sicuramente gli amminoacidi, la colina, la betaina e la carnitina.  Soprattutto nelle ultime settimane di gravidanza e nelle prime settimane di lattazione quando il metabolismo è particolarmente sollecitato, queste molecole diventano fondamentali per una buona funzionalità epatica, fertilità e qualità del latte. Anche per questi nutrienti la rumino-protezione risulta di fondamentale importanza per assicurarne una buona biodisponibilità.. Una generica carenza di amminoacidi essenziali e, alla luce dell’evoluzione delle conoscenze, anche di quelli non essenziali, si può oggettivamente diagnosticare a partire dalla ridotta produzione di proteina del latte rispetto alla razza, al potenziale genetico, ai giorni di lattazione e alla stagione. Il biomarker “proteina del latte individuale < 2.90% nelle prime settimane di lattazione” della frisona è un ottimo indicatore di un bilancio amminoacidico negativo. Dai dati elaborati dall’Ufficio Studi di AIA si nota come nella frisona italiana, negli ultimi 7 anni, il picco di prevalenza (> 30%) di questo biomarker si sia verificato tra i 30 e i 60 giorni di lattazione e quindi in un periodo molto delicato per funzioni importanti come la fertilità. Gli amminoacidi potenzialmente carenti sono 20, ma quelli su cui disponiamo oggi di maggiori informazioni sono la lisina e la metionina.

Nei ruminanti da latte come le bovine, e anche in alcune fasi di quelli da carne di razze molto selezionate, l’aggiunta di vitamine, amminoacidi e altri additivi sta diventando sempre più inevitabile. Dovendo proteggere i nutrienti dalla degradazione da parte dell’ambiente esterno e del rumine, aumentandone la biodisponibilità per il ruminante, diventa indispensabile ricorrere alla loro rumino-protezione, che permette di valutarne più precisamente la concentrazione di principio attivo e la disponibilità intestinale.

Rubrica a cura di Vetagro


 

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