Oggi il termine “mediocrazia” designa standard professionali, protocolli di ricerca, processi di verifica di verifica attraverso i quali la religione d’impresa organizza il suo culto, quell’ordine generale grazie al quale “i mestieri cedono il posto a una serie di funzioni, le pratiche a precise tecniche, la competenza all’esecuzione pura e semplice”. E’ il risultato di un lungo percorso che è cominciato quando il lavoro è diventato “forza lavoro”, un’esecuzione, appunto, in virtù della quale è divenuto possibile “preparare i pasti in una lavorazione a catena senza essere nemmeno capaci di cucinare in casa propria, esporre al telefono ai clienti alcune direttive aziendali senza sapere di cosa si sta parlando, vendere libri e giornali senza neppure sfogliarli”.

Il risultato è che oggi, nella società delle funzioni “tecniche”, per lavorare bisogna saper far funzionare un determinato software, riempire un modulo senza storcere il naso, fare propria con naturalezza l’espressione “alti standard di qualità nella governance di società rispetto nel rispetto dei valori di eccellenza” e salutare opportunamente le persone giuste. Non serve altro. Non va fatto nient’altro. E per affacciarsi alla vita pubblica in ogni sua forma (diventare un parlamentare oppure un preside di facoltà universitaria) non occorre altro che occupare il “punto di mezzo, il centro, il momento medio elevato a  programma” e abbracciare nozioni feticcio quali “provvedimenti equilibrati”, “giusto centro” o “compromesso”. Insomma, essere perfettamente, impeccabilmente, mediocri.