La pubblicità commerciale, e più in generale la comunicazione, servono sostanzialmente a far vendere di più un prodotto. A volte però hanno l’obiettivo di costruire e alimentare la reputazione di un brand, perché non sempre si compra qualcosa solo per un utilizzo materiale ma spesso la si associa ad uno stile di vita o ad una personalità che gli altri possono più facilmente riconoscere in noi.

Non sempre chi compra fuoristrada estremi li utilizza veramente; il solo possederli aiuta gli altri a riconoscere in chi li ha acquistati una personalità avventuriera e senza paura.

Di esempi ce ne sarebbero moltissimi, ma l’obiettivo di questa riflessione è cercare di capire come comunicare al meglio gli allevamenti e i prodotti di origine animale in un contesto contemporaneo dove l’essere vegani, almeno in pubblico, dà un’immagine di sè superiore e attraente.

Forse in totale buona fede negli anni passati, ma purtroppo anche tuttora, è stata veicolata dalla pubblicità un’immagine dell’agricoltore completamente differente dalla realtà, e soprattutto si è data alla gente la convinzione che gli animali vengono allevati tutti all’aperto dalle amorevoli mani di un allevatore che lavora solo per passione e non per guadagnarsi da vivere.

Quando poi il giornalismo d’inchiesta e le associazioni animaliste e ambientaliste hanno dimostrato che gli animali che producono cibo per l’uomo vengono allevati negli allevamenti “intensivi” il vero messaggio che è arrivato alla gente è quello dell’inganno e del volere nascondere una dura e spietata realtà edulcorandola con la menzogna. Dopo anni di ghetto e derisione l’attivismo vegano si è organizzato e radicalizzato assumendo le modalità comunicative tipiche di ogni estremismo, sia esso politico che religioso.

Fanno molto parlare, e colgono l’obiettivo di aumentare la reputazione della marca e aumentare le vendite fidelizzando il cliente, pubblicità apparentemente banali come l’ultima di Ichnusa che si basa sul controsenso di consigliare a chi beve la loro birra, ma che lascia in giro le bottiglie vuote, di non comprarla più.

Di esempi se potrebbero fare tanti (ma non tantissimi). Quello di Ichnusa però deve far riflettere, perché stiamo parlando semplicemente di una birra: sicuramente buona ma non così tanto diversa dalle altre del segmento industriale. Le ultime loro campagne pubblicitarie hanno coinvolto emotivamente tanta gente che ormai associa il marchio Ichnusa con gli antichissimi valori del fiero popolo sardo e ad un più recente rispetto di valori più moderni come la tutela dell’ambiente.

Probabilmente consapevoli della difficoltà di fare pubblicità ad una birra, uno dei più antichi prodotti dell’uomo, e di difenderla dall’attacco sistematico che viene fatto agli alimenti naturali e quindi non ultraprocessati, Ichnusa, che altro non è che un brand della multinazionale olandese Heineken, ha pensato bene di rivolgersi per la propria campagna pubblicitaria all’agenzia LePub Italia appartenente alla multinazionale Publicis Groupe, colosso francese che si occupa di pubblicità, comunicazione e marketing che vanta un fatturato di 10.7 miliardi di euro con un capitale umano di  75.588 dipendenti.

Non sappiamo quanto sia costata la campagna pubblicitaria “Se deve finire così non beveteci nemmeno”, né quanto ritorno dell’investimento (ROI) abbia generato, ma di fatto tra gli specialisti di comunicazione e i semplici consumatori per mesi non si è parlato d’altro.

Aveva senso investire una cifra probabilmente colossale per un prodotto fermentato inventato dall’uomo circa 7000 anni avanti Cristo?

Anche per un altro antichissimo prodotto fermentato come il vino è stata fatta una campagna di “riscatto” e riqualificazione dopo lo scandalo del metanolo del 1986 che lo ha trasformato da alimento presente su tutte le tavole degli italiani ad esperienza sensoriale, sacrificando i volumi di vendita ma amplificando i profitti.

Sia il vino che la birra sono alimenti alcolici, per cui sono anch’essi sotto attacco da parte di chi ovviamente per interessi economici vorrebbe che si sostituissero con le bevande ultra-processate.

Ma perché le industrie del latte e della carne non iniziano un percorso di riqualificazione come hanno fatto la birra e il vino affidandosi alle migliori agenzie di comunicazione del mondo? Dopo anni nei quali la pubblicità ingannevole ha raccontato alla gente una realtà di allevamento naïf che esiste solo in angoli remoti delle montagne in estate perché continuare ancora in questo modo?

In questo contesto ci ha francamente colpito e sorpreso in negativo la campagna pubblicitaria “Scegli bene, bevi buono”, promossa dalla Regione Lazio e finalizzata a promuovere il consumo di latte fresco nel territorio laziale.

Il Lazio, ed in particolare Roma, è stato per molto tempo il luogo dove è stato maggiormente apprezzato il latte fresco, sia da bere in casa che al bar. Sta succedendo però che da diversi anni, con la sola eccezione del 2020, l’anno del look down, il consumo del latte è in costante e inesorabile calo.

Confrontando il primo semestre 2024 con l’analogo periodo dell’anno precedente, il calo dei volumi di vendita a livello nazionale è stato di ben il 7.5%. Tante, e spesso fantasiose, sono le motivazioni date per questa debacle. Poche volte ho sentito individuare la causa di tutto ciò nella cattiva reputazione che hanno, soprattutto negli ambienti cittadini, i cibi naturali, ed in particolare quelli di origine animale.

Se non si fa una diagnosi corretta la terapia è casuale, e ci aspettiamo che almeno quest’ultima campagna di comunicazione serva da lezione. A rischio c’è la salute dei cittadini, soprattutto di anziani e bambini, che per pregiudizi alimentati dall’attivismo vegano e da medici che conoscono poco la fisiologia umana, si vedono privare di un alimento antichissimo e prezioso come il latte.

Questi pregiudizi stanno anche ipotecando il futuro della zootecnia laziale e dell’industria del latte fresco. Si è tollerato che in Atenei importanti del Lazio come quelli della Tuscia e della Sapienza sia stato proiettato un documentario cruento e pieno di falsità e luoghi comuni come “Food for Profit” senza proteggere adeguatamente i giovani con un civile e argomentato contraddittorio.

Perchè consentire la propaganda vegana e non quella che racconta una verità a prova di verifica in campo negli Atenei dove non si devono insegnare nozioni ma un metodo per essere intellettualmente liberi di guardare e giudicare la verità?

Come non vedere che la martellante propaganda presunta animalista rivolta ai giovani, e il preparare il business dei cibi ultraprocessati, sono l’unica vera causa del calo dei consumi del latte? Una regione dove vivono 5.879.000 abitanti, dotata di una storica e fiorente agricoltura e zootecnia, non vede che i consumi si stanno spostando dai prodotti naturali e quelli artificiali? Non è consapevole il nostro Paese che sul cibo antico si è costruito il successo dell’uomo sulla terra e che i cibi artificiali pieni di grassi, zuccheri, sale e additivi chimici lo stanno trasformando in un consumatore cronico di farmaci?

Forse la politica dovrebbe occuparsi di tutto questo se abbondonasse anche lei la propaganda e si curasse dei veri problemi da risolvere, e urgentemente. La cultura medica insegna che se si vuole far guarire un paziente si deve fare una diagnosi, perché è l’unico modo di fare una terapia efficace.