La salatura del formaggio è una fase produttiva che ricorre nella quasi totalità dei formaggi, ad eccezione di pochi esempi, come il Pannerone lodigiano. La salatura ha diverse funzioni, ovvero conferire sapidità al formaggio, completare lo spurgo del siero e favorire la formazione di crosta. In generale, quello che possiamo fare con il sale è consentire il prolungamento della conservabilità del prodotto esercitando una pressione ambientale sfavorevole sui microrganismi che potenzialmente contaminano la matrice alimentare, e tale effetto è chiaramente proporzionale alla quantità di sale assorbito.

Nel mondo caseario, due sono le principali modalità di salatura dei formaggi: in salamoia e a secco. In questo articolo, che si inserisce al termine del mese tematico dei formaggi a pasta dura, ci concentreremo sulla tecnica di salatura in salamoia, ed approfondiremo sinteticamente la necessità di rigenerare le salamoie invecchiate. Tra i formaggi a pasta dura con indicazione dell’origine che prevedono, nel disciplinare, l’uso delle salamoie per la salatura delle forme, vale la pena citare i due titani nazionali: Grana Padano DOP e Parmigiano Reggiano DOP, le cui salature in salamoia arrivano fino ad un massimo di 30 giorni.

L’immersione in salamoia è la tecnica maggiormente utilizzata per la salatura dei formaggi italiani. La densità della salamoia è maggiore rispetto a quella del formaggio, che tenderà a galleggiare sulla superficie non completamente immerso nella soluzione: sia che il formaggio venga posizionato di costa o di piatto, sarà necessario intervenire con il ribaltamento delle forme e ciò implica una maggiore manodopera ma anche un tempo di permanenza in salamoia prolungato, con il rischio comunque di salature irregolari nonché di contaminazione per via dell’intervento della manodopera. Per ovviare a questa problematica, vi sono alcune soluzioni: una è quella di porre il formaggio in strutture metalliche (gabbie) che consentono di immobilizzare le forme ed avere pertanto un’immersione profonda, riducendo il tempo di salatura; in alternativa, si può ricorrere alla salatura dinamica in piscina, che può essere eseguita sia per galleggiamento con ribaltamento meccanizzato delle forme che per immersione. La movimentazione in questo caso consente di avere una concentrazione di sale nell’interfaccia formaggio-salamoia sempre costante, cosa che non si può ottenere con la più tradizionale immersione statica.

Lo spurgo del siero è possibile perché tra salamoia e formaggio si instaura uno scambio di materia: ioni cloro e sodio passano dall’una all’altro seguendo il gradiente di pressione osmotica esistente tra le due matrici. Parte della frazione acquosa migra dalla parte superficiale del formaggio alla salamoia per equilibrare tale pressione osmotica: questo processo veicola composti solubili della cagliata (acido lattico, sali di calcio e fosforo, sostanze azotate solubili, etc.), che aumentano progressivamente con l’uso delle salamoie, andando ad incrementare l’acidità titolabile della salamoia, ma va anche a diluire la salamoia.

Per la preparazione della salamoia, due sono gli ingredienti necessari: acqua e sale. Per quanto riguarda l’acqua, come ci prescrive il Reg. (UE) n. 852/2004 sull’igiene dei prodotti alimentari (e come suggerirebbe il buonsenso), deve essere potabile al fine di prevenire contaminazioni degli alimenti in fase di trasformazione. Vale la pena ricordare che l’acqua può veicolare diversi batteri, tra cui Pseudomonas, responsabile di diversi difetti di colorazione dei formaggi: la presenza di questo batterio può verificarsi anche in acque potabili, pertanto i controlli interni al punto di approvvigionamento dell’acqua, nell’ambito di un piano di autocontrollo ben ragionato, sono fondamentali, così come tutte le misure di prevenzione e di pulizia di attrezzature ed ambiente. Per quanto riguarda il sale, che può essere marino (quindi da saline) oppure minerale (salgemma), esso comporta l’apporto di impurità naturali al prodotto, quali calcio, magnesio, solfati, oltre ad eventuali additivi alimentari aggiunti come antiagglomeranti (abbiamo parlato di additivi alimentari e prodotti lattiero-caseari in questo articolo dedicato al mese tematico dei dessert a base di latte). Il sale inoltre avrà una sua qualità microbiologica, che può essere messa in relazione alla sua provenienza. Il sale marino presenta cariche microbiche contaminanti in genere maggiori rispetto a quello di origine minerale, per il quale la contaminazione è caratterizzata da micrococchi, coribatteri, bacilli, flavobatteri e lieviti. Il sale marino può apportare batteri sporigeni anaerobi come i clostridi (con prevalenza di Cl. Sporogenes come specie più diffusa), che, se presenti, possono determinare difetti nel formaggio a pasta dura come il gonfiore tardivo, e sporigeni aerobi come Bacillus spp. Vi sono anche batteri interessanti come quelli che colonizzano le croste dei formaggi a crosta lavata (il Taleggio DOP, ad esempio). In generale, la concentrazione di una salamoia va dal 5% (5 g di sale/100g di acqua) al 35% nel caso di soluzioni a saturazione.

Le caratteristiche microbiologiche della salamoia dipendono da tre diversi apporti: quello dell’acqua, quello del sale e quello dovuto alla microflora delle cagliate immerse per la salatura. Inoltre, la modalità di gestione dell’igiene in caseificio avrà un impatto in termini di contaminazione microbiologica anche per le salamoie. È vero che la presenza di patogeni nella salamoia (ad esempio, L. monocitogenes, S. aureus, E. coli) è particolarmente importante laddove i formaggi siano freschi ed a crosta edibile (ad esempio, la crescenza), considerando anche il vantaggio di stagionatura nel caso di prodotti a pasta dura, ma in ogni caso è inaccettabile avere salamoie contaminate: qualora si evidenzi una contaminazione, è opportuno intervenire procedendo alla sanificazione della salamoia, alla gestione delle forme a rischio in quanto salate con la salamoia contaminata ed alla individuazione della criticità che ha provocato tale contaminazione da patogeni. Infine, un aspetto importante da considerare è che la carica microbica della salamoia aumenta nel tempo ed in funzione del numero di trattamenti in cui viene impiegata la salamoia non rigenerata, sia per il contatto con un numero sempre maggiore di forme sia perché con il tempo la flora contaminante avrà la possibilità di crescere.

La salamoia non è qualcosa di pulito e assolutamente inerte: è dunque errato l’utilizzo di salamoie invecchiate, nella convinzione che queste possano trasmettere una qualche tipicità al formaggio, soprattutto per il rischio igienico-sanitario e di difetti come abbiamo visto sopra, nonché per un approccio tecnologico che non considera che le salamoie possano esaurirsi in sale ed arricchirsi in sostanze provenienti dalle forme. Che fare dunque? La soluzione sta o nell’eliminare la salamoia come refluo sostituendola con una nuova, processo poco sostenibile da più punti di vista, soprattutto gestionale, economico ed ambientale, oppure nella rigenerazione.

La rigenerazione della salamoia corrisponde al ripristino delle sue caratteristiche chimico-fisiche (riduzione dell’acidità titolabile e dei sali minerali diversi dal NaCl, nonché eliminazione delle particelle in sospensione) e microbiologiche (riduzione dei contaminanti ed eliminazione di eventuali patogeni). Qui di seguito, riportiamo gli approcci utilizzati per la rigenerazione: come principio generale, va detto che i singoli trattamenti non sono in grado di soddisfare il ripristino di tutte le caratteristiche delle salamoie, pertanto per avere una rigenerazione completa sarà opportuno intervenire con una combinazione di metodi, tenendo conto delle possibilità dell’impiantistica del caseificio e degli obiettivi che ci si pone.

Addizione di alcali: è il trattamento più diffuso ed ha come obiettivo la neutralizzazione parziale dell’acidità titolabile, che determina una precipitazione di fosfato di calcio con sedimentazione sul fondo della vasca; in alcune occasioni, la bollitura accompagna questo trattamento ed ha un effetto di riduzione della carica microbica. La bollitura ha un limite, ovvero l’incremento dell’azione corrosiva delle salamoie con le alte temperature: è opportuno dunque considerare l’inserimento di materiali resistenti nell’impianto di trasformazione.

Filtrazione con farina di diatomee: la farina di diatomee è composta da alghe marine che vengono macinate, calcinate in forno per eliminare la frazione organica e setacciate così da ottenere particelle silicee di diametro di 1-10 µm. La farina viene utilizzata per creare un letto filtrante attraverso il quale la salamoia viene fatta percolare; questo trattamento consente una riduzione importante della carica microbica ed illimpidisce la salamoia. Le farine esauste vengono smaltite come rifiuti solidi.

Trattamenti di ultra- e microfiltrazione: come è noto, sono trattamenti che consentono un’elevata debatterizzazione della salamoia invecchiata, ma hanno un limite, ovvero quello di scarsa o addirittura nulla ritenzione dei composti a basso peso molecolare responsabili dell’acidità. La combinazione con l’alcalinizzazione consentirebbe però una neutralizzazione dell’acidità. Altre sostanze come grassi e proteine possono essere invece separate dalla salamoia con l’ultrafiltrazione. Inoltre, con un processo a membrane di nanofiltrazione a bassa reiezione di NaCl si possono separare lattati e sostanze azotate non proteiche, mantenendo il sale nella salamoia.

Trattamenti con raggi UV: anche in questo caso, l’efficacia è solo sulla contaminazione microbica della salamoia.

Leggi anche la storia di successo del mese tematico sui formaggi a pasta dura.

Bibliografia

M. Galanakis, 2019. Separation of Functional Molecules in Food by Membrane Technology. Elsevier Inc.

Germano Mucchetti, Erasmo Neviani, 2006. Microbiologia e tecnologia lattiero-casearia. Qualità e sicurezza. Tecniche nuove

FIL-IDF, 2012. How to Reduce the Impact of Salts from the Dairy Industry on the Environment – Factsheet.