I cambiamenti in atto nell’allevamento delle bovine da latte ci obbligano ormai ad affrontare problematiche sempre più onerose e complesse nei nostri allevamenti. Il calo della produzione di latte in autunno è una di queste. Questo fenomeno è stato definito su queste pagine come una vera e propria sindrome caratterizzata dall’incapacità delle bovine di esprimere il loro pieno potenziale produttivo nella stagione autunnale.

Sulla base dell’analisi dei dati effettuata da AIA, è stato evidenziato come in autunno, rispetto alla primavera, seppur in condizioni climatiche simili, si riduca in modo evidente la percentuale di bovine pluripare che produce più di 40 kg di latte al picco di lattazione. Dato che il picco produttivo atteso tra settembre e novembre dovrebbe essere in carico agli animali freschi che hanno quindi trascorso il periodo di transizione e l’asciutta in estate, la nostra attenzione si deve focalizzare su questo gruppo di animali, cercando proprio nel periodo estivo i possibili fattori in grado di limitare l’espressione del loro potenziale produttivo.

Innanzitutto non dobbiamo dimenticarci che, al di là dello stress da caldo, le bovine ad alta produzione, tra l’asciutta e l’inizio della lattazione, subiscono comunque grandi cambiamenti nutrizionali, metabolici, ormonali ed immunologici, che hanno un impatto rilevante sull’incidenza delle infezioni e delle patologie metaboliche. Durante la stagione estiva si sommano altri fattori in grado di influenzare questo gruppo di animali, legati al clima caldo ed alla ridotta capacità di termoregolazione. A questi possiamo aggiungere problematiche gestionali conseguenti al sovraffollamento del box delle asciutte in estate dovuto all’anaestro estivo dell’anno precedente. È risaputo, infatti, che la ripresa dei parti avviene, nostro malgrado, principalmente in estate ed in autunno, e questo indica che le bovine da latte ad alta produzione tendono a rimanere più frequentemente gravide a fine autunno ed in inverno (fonte: dati AIA). Tendenzialmente, le bovine che partoriscono in tarda primavera ed in estate, “subiscono” un intervallo parto/concepimento più lungo dato che lo stress termico dei periodi caldi influisce sull’efficienza riproduttiva.

Quale effetto ha lo stress da caldo su questi animali in transizione?

In primo luogo, lo stress termico aumenta lo stato infiammatorio nelle vacche da latte in transizione, e gli effetti negativi possono persistere per lunghi periodi nonostante il ritorno a condizioni climatiche più favorevoli. Possono anche proiettarsi sulla lattazione successiva, così come sulla performance produttiva e sanitaria delle figlie (Dahl et al. 2016).

Inoltre, secondo osservazioni fatte da Lacetera (2016), le ondate di caldo sono responsabili di un profondo cambiamento delle risposte immunitarie a cui consegue una scarsa resistenza alle malattie. Si è dimostrato che vacche in asciutta raffrescate nello stesso periodo mostrano una maggiore immunocompetenza rispetto ai soggetti non raffrescati.

Ci sono inoltre evidenze (Skiebel et al., 2018) che in bovine in transizione ed in asciutta esposte a stress da caldo vi siano profondi cambiamenti nella funzione epatica associabili all’insorgenza di patologie ed alle scarse prestazioni in lattazione.

Come spiegare la persistenza a lungo termine degli effetti negativi del calore estivo sulla produzione autunnale e sulla lattazione successiva?

Le risposte immunitarie sono classicamente divise in risposta immunitaria innata, che reagisce rapidamente e non-specificamente contro i patogeni che incontra, e sistema immunitario specifico, che è più lento a svilupparsi ma è specifico, e costruisce una memoria immunologica. Molti studi hanno dimostrato che le cellule del sistema immunitario innato sono anch’esse in grado di sviluppare una “memoria” e sono capaci di adattarsi e rispondere perciò rapidamente a stressori infettivi e non infettivi simili a quelli che le hanno attivate originariamente. Ciò avverrebbe perché le cellule del sistema immunitario innato, al contatto con uno stressore, possono costruire uno stato noto come “immunità allenata“, intesa come vera e propria “educazione”. Questa consiste in una riprogrammazione funzionale capace di indurre dei cambiamenti che rendono queste cellule più reattive ad una seconda stimolazione (Bordon et al., 2014) e con una risposta che può perdurare nel tempo.

A causa di quanto detto sopra, l’ipotesi è che il sistema immunitario innato in asciutta e nella transizione sia ripetutamente attivato da stressori infettivi e non infettivi, tra cui lo stesso stress termico. L’”immunità allenata” ha inoltre alcune caratteristiche che potrebbero spiegare la diminuzione della produzione del latte in autunno. Ha innanzitutto un effetto a lungo termine che si protrae anche dopo aver rimosso gli stimoli che l’hanno indotta, mantenendo attivato nel tempo il sistema della risposta infiammatoria. In secondo luogo, proprio perché l’ambiente infiammatorio permane nel tempo, l’organismo subisce effetti dannosi; ma soprattutto, terza caratteristica, tale condizione di sistema allertato richiede un cambiamento del metabolismo delle cellule immunitarie che permetta loro di reagire più rapidamente ad un eventuale secondo stimolo da stress, ma al prezzo di un maggiore consumo di glucosio (Cheng et al., 2014). In questo modo s’instaurerebbe una competizione continua per il glucosio tra il sistema immunitario e la ghiandola mammaria, che ne ha bisogno come precursore del lattosio e regolatore osmotico del volume del latte (Bickerstaffe et al. 1974).

Perché “l’immunità allenata” fornisce la migliore spiegazione della sindrome da bassa produzione di latte in autunno?

Ci si chiede: non sarebbe sufficiente pensare che sia lo stress da caldo ad indurre danni istologici a carico della ghiandola mammaria nel periodo involutivo caratteristico dell’asciutta come rilevato da alcuni studi? (Dado-Sen et al., 2019; Tao et al., 2018).

In primo luogo, prove circostanziali mostrano che la sindrome colpisce l’intera mandria, quindi non solo le vacche in asciutta, ma anche quelle in lattazione in estate; questi animali, dopo il calo fisiologico della produzione di latte nel periodo caldo, non mostrano in seguito la resa attesa osservata in primavera a livelli simili di giorni in lattazione (DIM).

È interessante poi notare che le vacche da latte autoctone (ad es. le razze Reggiana e Rendena), senza anaestro estivo, non mostrano la sindrome autunnale. Ciò implica che una distribuzione più regolare dei parti nel corso dell’anno, un migliore profilo delle risposte immunitarie innate (Curone et al., 2018) e la mancanza di un sostanziale bilancio energetico negativo concorrono ad una soddisfacente produzione di latte delle vacche autoctone in autunno.

La successiva evidenza a conferma dell’ipotesi di un’azione persistente dell’immunità allenata è che, insieme alla bassa produzione di latte in autunno, si registra anche un aumento della prevalenza della mastite clinica. Dopo un picco di casi di mastite clinica in luglio a causa del carico termico accumulato, la prevalenza inizia a salire di nuovo in ottobre e c’è un secondo, distinto picco da novembre a gennaio (Vitali et al., 2020).

Strategie d’intervento

La portata delle azioni di controllo per alleviare la diminuzione della produzione di latte in autunno è potenzialmente ampia. L’obiettivo è ridurre il più possibile l’esposizione delle vacche allo stress da calore estivo, il che implica a sua volta un sostanziale miglioramento delle strutture di allevamento, della gestione, della nutrizione e del benessere degli animali in generale.

In secondo luogo, andrebbe fatta una riflessione riguardo alla possibilità di stagionalizzare i parti a dicembre-gennaio, accorpando le fecondazioni a primavera di modo che il periodo cruciale di transizione della maggior parte delle vacche da latte non avvenga in estate. Possiamo raccogliere un esempio da un lavoro condotto in Nuova Zelanda riguardante il confronto tra sistemi di parto autunnale e primaverile (per l’emisfero australe). Questo studio (Garcia et al., 1999) ha mostrato che le vacche che partoriscono in autunno di solito hanno una produzione giornaliera di latte più bassa al picco della lattazione rispetto alle vacche che hanno partorito in primavera. Tuttavia, possono avere rese annue di latte e derivati più elevate rispetto alle vacche che partoriscono in primavera, principalmente come conseguenza di lattazioni più lunghe e di rese giornaliere di latte più elevate durante la fine della lattazione. Nonostante la produttività sia simile tra i sistemi in cui le vacche partoriscono prima o dopo la stagione primaverile, è stato dimostrato che il parto anticipato in autunno è costantemente associato al raggiungimento di lattazioni più lunghe.

Applicando alla nostra realtà queste evidenze, di fronte alla problematica di un anaestro estivo che inizia a giugno e perdura fino a settembre/inizio ottobre, si potrebbe pensare di estendere volutamente questo periodo di ulteriori tre mesi ed accorpare le fecondazioni tra febbraio e maggio, attuando in concomitanza il modello della lattazione allungata. Si potrebbe in questo modo intervenire sull’efficienza riproduttiva e, soprattutto, sul mancato concepimento, che resta uno dei principali motivi di rimonta precoce. In secondo luogo, a sostegno del modello delle lattazioni prolungate, oltre alle evidenze scientifiche ampiamente riscontrate in letteratura, resta l’evidenza che ad oggi spesso ci si trova a dover asciugare bovine che producono ancora 22-25 litri di latte.

A rafforzare la necessità di una riflessione in merito, vi sono evidenze scientifiche che riportano che da bovine in asciutta nel periodo estivo nasce una progenie più debole e che produrrà meno latte durante la sua vita. Il monitoraggio della produzione di latte nelle vitelle sottoposte a stress termico in utero rispetto a quelle raffreddate in tarda gestazione ha rivelato una significativa riduzione della produzione nella prima lattazione, circa 5 kg/d fino a 35 settimane di lattazione, nonostante un peso corporeo ed un punteggio di condizione simili al parto. Queste osservazioni indicano che un periodo relativamente breve di stress termico alla fine della gestazione altera drasticamente la salute, la crescita e le prestazioni finali dei vitelli da latte.

Sono state confrontate anche le prestazioni riproduttive nelle manze sottoposte a stress termico rispetto a quelle raffrescate durante la loro vita in utero, ed è stato osservato che quelle raffrescate richiedono meno interventi fecondativi per raggiungere la gravidanza e diventano gravide in età più precoce. (Dahl et al. 2016)

Le basi pratiche per una messa in asciutta più sostenibile per la bovina

Ci sono poi altri due problemi che richiedono una risposta pratica. Il primo riguarda la correlazione evidente tra il livello di produzione residua di latte alla messa in asciutta (spesso >15 kg-d-1) e la frequenza di casi di mastite clinica nel primo mese di lattazione. Il secondo è che vi sono prove sostanziali dell’impatto negativo dell’arresto improvviso della mungitura alla messa asciutta (Mezzetti et al.2020). Entrambe le condizioni (livello elevato residuo di secrezione e arresto brusco della lattazione) rappresentano stressori gravi che per effetto della “memoria” possono poi ripercuotersi sulla lattazione successiva.

In risposta a queste due problematiche si potrebbe pensare ad una messa in asciutta graduale. Si potrebbe cioè puntare ad una riduzione graduale della produzione di latte attraverso un apporto ridotto del 10-15% del contenuto energetico della razione a partire da 7-10 giorni prima della messa in asciutta per scendere al di sotto del valore soglia di 15 kg di latte/die (tab.2). Con queste argomentazioni gli autori hanno voluto stimolare una riflessione in un ambito zootecnico che per sopravvivere avrà necessariamente bisogno di cambiare e guardare oltre a ciò che “si è sempre fatto”, a favore di un approccio più sostenibile ed etico all’allevamento delle bovine da latte a gestione intensiva, che potrebbe oltretutto migliorare i dati attuali di vita e di fertilità delle nostre mandrie.

Tabella. 1

RIFLESSIONI POSSIBILI a favore dell’ACCORPAMENTO temporale delle F.A. tra FEBBRAIO E MAGGIO e delle LATTAZIONI LUNGHE.
Quello dell’anestro estivo e della concentrazione dei parti in estate è un problema evidente.
Interventi fecondativi tra febbraio e maggio evitano una stagione estiva caratterizzata da anaestro. Si potrebbe così ridurre uno dei principali motivi di rimonta precoce delle bovine.
Da bovine non esposte a stress estivo durante l’asciutta, e quindi con parti invernali, si ottiene una progenie con maggiori aspettative di produzione, di fertilità e di vita.
Interviene sulla perdita di latte delle bovine che alla messa in asciutta producono ancora 20-25 litri di latte.

Tabella. 2

Le basi pratiche di una possibile messa in asciutta armonizzata
Esempio. Bovina con 25 kg/giorno di produzione residua (assunzione di circa 16 UFL e 18 kg s.s.).
1) A circa 7-10 giorni prima dalla messa in asciutta, abbassare del 10-15% il contenuto energetico della razione (ad es. aggiungere fieno all’unifeed per diminuire il contenuto di energia da 0,9 a 0,8 UFL/kg s.s.).
2) All’inizio del periodo di razionamento si può procedere con il prelievo di latte dei singoli quarti per verificare il contenuto di cellule somatiche ed eseguire l’ESAME BATTERIOLOGICO.
3) Il giorno successivo (SE POSSIBILE) passare a 1 sola mungitura al giorno.

Ringraziamenti

Grazie alla Dott.ssa Alessia Tondo ed al Dott. Alessandro Fantini. A loro il merito di aver analizzato un problema noto e di averlo inquadrato in una valida cornice concettuale.

Autori

Chiara Spelta, Medico Veterinario, Pavia, Italy; e-mail. chspelta@icloud.com

Massimo Amadori, Rete Nazionale di Immunologia Veterinaria, Brescia, Italy

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Per la versione completa dell’articolo:

Amadori, M.; Spelta, C. The Autumn Low Milk Yield Syndrome in High Genetic Merit Dairy Cattle: The Possible Role of a Dysregulated Innate Immune Response. Animals 2021, 11, 388. doi.org/10.3390/ani11020388