Presenza del bufalo in Italia

Nel nostro Paese sono presenti, da tempi immemori, razze bovine e suine che negli anni si sono ridotte numericamente e che in molti casi sono in via di estinzione. Reggono numericamente alcune razze ovicaprine, anche se negli ultimi anni sta acquisendo spazio una razza francese nel settore ovino (Lacaune) ed una razza spagnola in quello caprino (Murciana). Nonostante questa realtà, i prodotti cui quel patrimonio zootecnico diede vita sono ancora parte integrante delle DOP più prestigiose. Va ricordato che solo per la DOP della Fontina valdostana è necessario il rispetto non solo del territorio e ma anche della razza. C’è da chiedersi se il gusto delle attuali DOP sia lo stesso di quello delle razze del passato, certamente meno produttive e i cui fabbisogni possono essere soddisfatti con diete caratterizzate da una maggiore o totale presenza di foraggi e, quindi, in grado di fornire un latte più nutraceutico. Ormai possiamo constatare che la genetica dei bovini da latte è americana e quella dei suini è anglo-belga-danese, inadatte nel primo caso a fornire latte “da formaggi” e nel secondo carne da “salumi” pregiati ottenibili con lavorazioni artigianali. Le tecniche di allevamento ovviamente ricalcano quelle dei rispettivi Paesi da cui origina la genetica.

Nello scenario zootecnico italiano esiste, tuttavia, la “Bufala Mediterranea Italiana“, l’ultimo animale ad essere stato introdotto nella nostra penisola, che dal dopoguerra ad oggi ha fatto registrare un continuo costante incremento: da 12.000 capi censiti nel 1947 attualmente ne conta 412.835, ad eccezione nel periodo 2014-2016, intervallo durante il quale il patrimonio diminuì dello 0,97% (377.040/380.755 %). La tecnologia dell’allevamento e, soprattutto, della trasformazione, è frutto della ricerca e di innovazioni evolutesi tutte nell’area della mozzarella di bufala campana DOP.

L’Italia deteneva nel 1960 il 5% del patrimonio bufalino europeo. Oggi, la razza di bufala “Mediterranea Italiana” rappresenta il 95% dei bufali presenti in Europa. In Italia, il rapporto latte di bufala/(latte di bufala+latte di vacca) è in continuo aumento a differenza di quanto si verifica in Asia e in Egitto, aree in cui il bufalo è maggiormente presente, dove tale rapporto, a partire dagli anni ’90, è in continua diminuzione. Eppure il prezzo del latte di bufala in Italia viene quotato da 3,5 a quattro volte in più mentre nelle altre aree poco più di due volte. Ciò dimostra che il prezzo di vendita non è il solo fattore che condiziona l’aumento della richiesta di latte quando questo è profondamente legato ad un prodotto apprezzato dal consumatore.

Non è da escludere che il successo del bufalo sia da attribuire anche al fatto che non sono state copiate tecnologie anglosassoni finalizzate al contenimento del prezzo che è ritenuta l’unica strategia valida ad incentivare i consumi.

Sulla sua comparsa sul nostro territorio non esiste una documentazione attendibile.

Dalla storia, di certo sappiamo che il bufalo europeo (Bubalus murrensis) visse nel Pleistocene superiore (circa 125.000 – 10.000 anni fa) perchè i suoi resti fossili sono stati ritrovati in Europa e che il Bubalus antiquus del Duvernoy presente nel Pleistocene in Nord Africa 2,5 milioni-12.000 anni addietro si è estinto 4.000 anni fa. A partire da 10.000 anni fa i bufali non esistevano più in Europa. Le immagini dipinte dai nostri antenati nella grotta di Lascaux (la cappella Sistina della preistoria), così come in altri siti (grotta del romito, grotta di Altamira ecc.), raffigurano la fauna che oltre 17.000 anni addietro popolava il Sud della Francia, dell’Italia meridionale e del nord della Spagna. In quei meravigliosi dipinti compaiono l’Uro, il bisonte, il cervo, il cavallo, alcuni felini, un uccello, un orso, un rinoceronte ma non il bufalo.

In generale, il bufalo è stata la specie meno raffigurata nel passato e ciò ha reso ancora più difficile ricostruire il suo percorso. In Italia le prime bufale vengono dipinte, per esempio, dal Piranesi nel 1777 (tempio di Cerere, Paestum) e bisogna attendere il XIX secolo per osservarle in quadri di artisti inglesi (Coleman) e francesi (Hebert). Raffigurazioni del bufalo sono assenti anche nei graffiti di Bhimbetka (Madhya Pradesh) che risalgono a circa 5.000 anni addietro in India, una delle prime aree, insieme alla Cina, di addomesticamento della specie. Ciò è giustificabile perché nella cultura induista Yama, Dio della morte, cavalca il bufalo mentre Shiva, signore supremo che crea, mantiene e distrugge l’universo, cavalca il toro bovino Nandi (gioioso). Chi affrescherebbe le pareti di un qualsiasi ambiente con la cavalcatura del dio della morte?

Il termine bubalus si riscontra per la prima volta nell’Historia Animalium (in greco: Τῶν περὶ τὰ ζῷα ἱστοριῶν) di Aristotele, dove indicava un bovide abitatore dell’Aracosia (regione orientale dell’Impero achemenide, corrispondente all’Afghanistan sudorientale e a parti del Pakistan e dell’India) differente dai bovini conosciuti all’epoca ma simile all’antilope africana che somiglia molto all’Anoa, un sottogenere di bufalo. Nel latino classico il termine fu utilizzato per definire altri ruminanti selvatici e solo nel XIII secolo divenne sinonimo di bufalo. Cesare Augusto, per esempio, nacque nel quartiere del Palatino nella strada chiamata “Capita Bubula”, che significava, però, “testa di bue”; in quel quartiere dopo la sua morte venne costruito un santuario a lui dedicato. Plinio il Vecchio riferisce che la Scizia e la Germania, povere di animali, erano, tuttavia, insigni per generi di Buoi selvaggi, cioè Jubati, bisonti ed Uri, specie dotate di grande forza e velocità che, a quei tempi, il volgo ignorante chiamava Bufali (excellentique et vi et velocitate uros, quibus imperitum volgus bubalorum nomen imponit). E’ chiaro, pertanto, che con il termine “bubula” o “bubalus” si indicava il bovino.

Nel latino della decadenza, dopo la caduta dell’impero romano, con le invasioni barbariche iniziarono ad essere introdotte nella nostra penisola delle popolazioni bovine, al seguito degli eserciti invasori, da cui derivarono quelle che oggi definiamo impropriamente “razze autoctone”; in primis ricordiamo i bovini di ceppo Podolico, la Maremmana, la Reggiana e tante altre. Paolo Diacono (VIII secolo), monaco benedettino trasferitosi a Montecassino, riferì nella sua Historia Langobardorum, fra mito e storia, la discesa dei Longobardi sotto la guida di Alboino che passarono per Cividale del Friuli, sua città natale. L’autore descrive lo sgomento, appreso da notizie acquisite oralmente, che cavalli selvatici e “bubali” al seguito dei Longobardi destarono nelle popolazioni italiche: “Tunc primum Caballi selvatici et Bubali in Italiam delati, Italiae populis miracula fuerunt” (Libro IV, 10). E’ da questa frase che è stato dedotto che l’introduzione dei bufali sia avvenuta con i Longobardi. L’autore, tuttavia, accenna fugacemente ai “bubali” senza soffermarsi sulla loro presenza nella Penisola nonostante il fatto che, durante la stesura della sua opera, il bufalo era una specie assente o poco diffusa. E’, invece, più plausibile che la suddetta meraviglia possa essere scaturita dal primo contatto con bovini di ceppo podolico notevolmente diversi per mole, struttura, portamento e dimensioni delle corna dalle vacche di piccola taglia, ad eccezione di quelli presenti in Umbria (Columella), allora presenti in Italia.

Nella Storia dei Fatti dei Langobardi (1826) tradotta ed illustrata dal Prof. Quirico Viviani, l’autore afferma che il termine bubalus non poteva riferirsi ai bufali che successivamente popolarono la nostra penisola. Della stessa opinione è Cantalupo, secondo il quale i bufali non facevano parte della cultura longobarda. Egli osserva, tra l’altro, che nelle “Leges Longobardorum” (articoli CCCXV e CCCLI dell’editto di Rodari), il legislatore, nel trattare dei danni provocati o ricevuti da una serie di animali non solo domestici ma anche selvatici, a testimonianza dell’accuratezza e della meticolosità del legislatore, non fa alcuna menzione del bufalo; vengono citati, infatti, oltre ai comuni animali domestici, il cervo domato, lo sparviero e il falcone ma non il bufalo, che, in caso di sconfinamenti, notoriamente, arreca più danni del bovino. Ciò farebbe pensare che la specie fosse sconosciuta ai Longobardi.

Secondo fonti più attendibili (cronologia.leonardo.it/storia/anno568.htm), l’esercito di Alboino era composto da circa 300/400.000 uomini; dietro, seguivano donne, bambini e vecchi, circa 100.000, con i carri e con tutte le masserizie, e una mandria di bestiame con 30.000 bovini, 10.000 maiali e 10.000 fra pecore e capre. I bufali, pertanto, non sono citati. Alboino, desideroso di vendicarsi dei Gepidi, aveva chiesto e ottenuto l’alleanza di Baiano, re degli Avari. I Longobardi – questi erano i patti – come compenso per l’aiuto degli Avari avrebbero ceduto a questi la decima parte del loro bestiame, metà del bottino e il territorio tolto ai Gepidi. Gli Avari sarebbero, pertanto, rimasi in Pannonia, attuale Ungheria, promettendo ai Longobardi di non intralciare il loro progetto di stabilirsi in Italia. Gli Avari erano un popolo nomade di lingua e cultura turcica (gruppo misto turco/mongolo), strettamente imparentato con gli Unni, che si stabilì, fondando un proprio stato, nell’area del Volga nel VI secolo. In seguito, gli Avari compiono incursioni in Europa migrando verso l’Europa dell’est dove fondano poi il Khanato degli Avari (502 – 530). Essi abitavano in tende simili alle yurte mongole, adornate con nastri multicolori, code di cavallo, teschi umani e corna di bufalo. Provenivano dall’area compresa tra la Mongolia e il nord ovest della Cina, dove esistevano, e tuttora esistono, bufali di tipo Swamp (48 cromosomi) e quindi diversi dai nostri che sono del tipo River (50 cromosomi). Il re degli Avari Baiano, a suggello dell’alleanza, regalò ad Alboino un bufalo (uno solo!). Ciò testimonierebbe che gli Avari, come pure gli Unni, possedevano i bufali, ma non prova che i Longobardi allevassero questi animali.

La storiella dell’introduzione dei bufali da parte dei Longobardi nella nostra penisola ebbe inizio nei primi degli anni ‘50 quando un allevatore casertano, rispolverando la Historia Langobardorum, avanzò la suddetta tesi. Lo stesso autore riferiva, inoltre, che a Roma gli ebrei erano soliti mangiare carne di bufala accompagnata da cavoli: “bubalinas additis caulis magno ligni compendio percoquunt” (Plinio, lib. XXIII cap. VII). Una più professionale traduzione della frase “Bubulas carnes additi caules magno ligni compendio percoquunt” suggerisce un significato più corretto: “Con dei rametti di questo fico la carne bovina cuoce a puntino con grande risparmio di fuoco”. Questa frase, infatti, è inserita nella “Medicina da vite, olio e alberi da frutto” di Plinio in cui vengono illustrati gli effetti benefici del fico su malattie femminili (non ben identificate), unitamente al fieno greco, sotto forma di decotto. I fichi giovani erano ritenuti utili per i pazienti affetti da pleurite e, se cotti con la ruta, erano utili per le coliche; inoltre, la cenere dei rami di fico mischiata con l’olio d’oliva risultava essere un ottimo dentifricio. Il ramoscello del fico selvatico faceva coagulare il latte mentre il suo succo lattiginoso, una volta solidificato, rendeva più gradevole e tenera la carne. In questo contesto Plinio riferisce che i rametti di fico ammorbidiscono la carne, verosimilmente per la presenza di enzimi vegetali (diastasi, amilasi e proteasi simili a quelli pancreatici) nel lattice del rametto di fico (caulis), accorciando il tempo di cottura (e di conseguenza il cavolo non c’entra; è proprio il caso del cosiddetto cavolo a merenda!). In sintesi, spesso la storia si costruisce su fatti non certi.

L’introduzione dei bufali da parte dei Longobardi nella nostra penisola tornò di moda negli anni ’80 quando nell’Italia settentrionale molti allevatori di bovine da latte “rottamarono” i loro capi ricevendo un premio dalla CEE per aver rinunziato alle quote latte; in molti casi, a tale premio si sommò quello del risanamento elargito dal Ministero della Salute. Per la maggior parte si trattava, infatti, di allevamenti infetti da TBC (tubercolosi), brucellosi e leucosi; in pratica, questi presero due piccioni con una fava (premio CEE e premio elargito dal Ministero della Salute). Alcune regioni elargirono un ulteriore premio se tali allevatori avessero ripopolato le loro strutture con ruminanti diversi dal bovino. Tale operazione consentì loro di disporre del capitale necessario per introdurre nei loro allevamenti, quasi a costo zero, i bufali. Fu così che nell’Italia settentrionale ritornarono i bufali presenti in numero limitato (poche decine di capi per regione), in quasi tutte le regioni del Nord-Italia fino al ventennio. Nel 2002 i capi salirono a 7.771 e nel 2008 a 20.310, ma oggi sono scesi a 13.872. Il decremento maggiore si è registrato in Lombardia dove da 3.604 bufali nel 2002 si passò a 12.829 nel 2008 e poi a 6.607 capi nel 2020. Esistono, soprattutto in Piemonte, validi allevatori che sono riusciti a valorizzare non solo il latte, ma ciò che più importa, la carne! Tutto ciò si verificò perché per gli allevatori del Nord era fondamentale rientrare nella DOP. Il latte di bufala, se non è trasformato nella mozzarella DOP, viene remunerato a resa ed in tal caso il suo valore può essere doppio di quello del latte vaccino, retribuzione che rende l’impresa bufalina fallimentare. Per tale motivo rispuntò la storiella dei Longobardi che, vista la colonizzazione del Nord con mandrie di bufali, dava ad essi il diritto di avvalersi della DOP in quanto avvalorava la tesi che la specie sarebbe stata allevata prima al Nord e molto dopo al Sud. Per questo la Camera di commercio di Varese (provincia che per prima ospitò un allevamento di bufali nel 1985) commissionò uno studio (Cantù C.M.; 1989) per indagare su tale tesi. Dall’indagine emerse che non esisteva la certezza sull’introduzione della specie. Ancora una volta si trattò di “Longobardofilia”, non tenendo conto che il trasferimento dal Nord al Sud di un popolo scandinavo avveniva anche perché esso non era stato in grado di dar vita a forme di agricoltura e di allevamento in forma stanziale.

Molto più dignitoso, o meglio indolente, fu l’atteggiamento della Regione Campania che non si è mai opposta alla nascita del Provolone Valpadano DOP, formaggio creato a San Giuseppe Vesuviano da Gennaro Auricchio nel 1877. Povertà ed emigrazione che coinvolsero le popolazioni meridionali dopo l’invasione del Sud (il regno di Sardegna non dichiarò mai guerra a quello delle due Sicilie), favorirono non solo l’emigrazione ma anche la dislocazione di floride attività economiche dalla Campania verso il Nord Italia durante il Fascismo. Così come accadde per il Pecorino, i nostri emigranti di oltreoceano richiesero crescenti quantità di Provolone perché gli ricordava la terra degli Avi. La crisi dell’allevamento della bovina da latte in Campania spinse la famiglia Auricchio a trasferirsi definitivamente a Cremona nel 1976, e così un’altra fetta di ricchezza del Sud si trasferì al Nord. Ovviamente chi ha trattato del Provolone, pur ammettendo che le paste filate furono create al Sud, non ammise che esse furono frutto dell’intelligenza dei casari, sostenendo invece che furono la diretta conseguenza delle scarse condizioni igieniche del latte, il quale giungeva già acido e talvolta già coagulato al caseificio e quindi la filatura era l’unica tecnica di trasformazione possibile (www.provolonevalpadana.it/eu-it/storia-ed-origini-del-provolone-valpadana-dop.aspx, in tale sito i formaggi del Sud vengono considerati utili solo da grattugiare mentre è noto che tale utilizzazione è propria dei formaggi grana). La storia delle origini delle paste filate è, invece, completamente diversa. Abbiamo già riferito che il Caciocavallo è derivato dalla trasformazione del latte nei “vaccarizzi” della Sila fino a qualche decennio fa; anche la mozzarella di bufala si produceva nelle “bufalare”, ambienti a pianta circolare presenti nella piana del Sele, o nei “capponi” presenti nella Piana del Volturno. Dalle bufalare, la mozzarella di bufala ogni due giorni veniva trasferita e commercializzata come prodotto fresco del mattino o del giorno prima, nei principali luoghi di consumo (Aversa, Napoli e Salerno). La mozzarella veniva ottenuta, pertanto, con il latte appena munto e quindi con latte “pulito”. Non è fuori luogo enfatizzare che anche il “fior di latte”, impropriamente definito “mozzarella”, è un altro prodotto del Mezzogiorno come le treccie di Vastogirardi e la Mozzarella Gioia del Colle DOP. Ad eccezione di quest’ultimi due prodotti, gli altri derivano prevalentemente dalla trasformazione del latte del Nord e dell’Europa dell’Est, e sottendono un PIL pari a quello del Parmigiano Reggiano. Sono circa 20.000 gli ulteriori posti di lavoro che hanno trasmigrato dal Sud al Nord. Oggi, le organizzazioni professionali vogliono la tracciabilità perché il latte europeo concorre con il latte lombardo destinato alla mozzarella, a danno degli allevatori padani. Ma queste organizzazioni professionali dove erano quando le cagliate tedesche invadevano il Sud contribuendo alla chiusura dei nostri allevamenti? Evidentemente non siamo tutti italiani.

Bufalara dell’azienda Improsta Ebol (SA).

Cappone, tipica bufalara Carinola (CE).

Le prime notizie certe sulla presenza della specie in Italia iniziano nell’anno mille

Da alcuni testi come “Dalla Constitutio massariorum” e “Statuta massariorum” è possibile apprendere che nel periodo Normanno (1000 – 1194) i bufali erano presenti nell’Italia meridionale. Infatti, i Normanni, e poi gli Svevi, trovarono il bufalo in Sicilia e nell’Italia meridionale dal momento che l’amministrazione riscuoteva in Sicilia dieci grani per capo bovino e bufalino allevato. I Normanni successero nel 1061 agli arabi che si erano insediati in Sicilia nell’anno 827, dopo aver conquistato la Siria e l’Egitto. Gli arabi trasferirono la specie dalla Siria all’Egitto sulle rive del Nilo. È verosimile, pertanto, che furono loro ad introdurre la specie, insieme a numerosi ortaggi ed alberi da frutto, in Sicilia ed in tutto il Mezzogiorno. I saraceni arrivarono infatti fino a Roma, cinsero d’assedio Capua e conquistarono Brindisi, Taranto e Bari. A tal proposito, non è facile spiegare come gli Egiziani, la cui ricchezza dipendeva dal Nilo sulle cui sponde oggi sono allevati circa cinque milioni di bufali, fino all’anno 800 non allevavano la specie pur avendo avuto contatti con la Mesopotamia dove il bufalo era presente dal 3.000 a. C.. Ancora oggi in Iran sono prevalentemente le etnie arabe che allevano il bufalo! Il bufalo che ho avuto modo di vedere in quel Paese è molto simile al nostro. Negli affreschi delle tombe egizie, infatti, non esistono raffigurazioni di bufali, mentre sono numerosi i bovini e varie specie animali e vegetali. Gli arabi ritennero che la Sicilia fosse adatta al bufalo, in quanto l’isola allora era percorsa da numerosi piccoli fiumi. La stessa Villa Romana del Casale a Piazza Armerina è lambita da un corso d’acqua che a valle diventa il fiume Gela.

Il bufalo dopo l’anno mille

Sporadiche sono le notizie che possiamo ritrovare in letteratura dopo l’anno mille. Nel XII secolo (1119 -1125), l’Abate Guido III introdusse nell’Abbazia di Farfa (Fara sabina) “bubalus et boves et animalia spanisca atque equos quos invenit”; la specie cominciava quindi a travalicare i confini del Sud tanto che si ha notizia che nel 1153 i Cistercensi trasferirono 10 bufali a Clairvaux, fondata nel 1115 da Bernardo di Chiaravalle. Se i bufali fossero stati presenti nell’Italia del Nord sarebbe stato più agevole trasferirli da queste aree. Nel 1300, nel territorio a destra del Sele, concesso da Filippo II d’Angiò agli abitanti di Eboli, la specie era già allevata. L’introduzione era già iniziata nel XII secolo (impaludamento della costa a causa di un bradisisma che interessò molte aree costiere del Tirreno). Nel XIII secolo, in epoca angioina, Carlo I d’Angiò ordinò con due decreti ai tre fratelli di Trentinara di restituire un bufalo domito, cioè da lavoro, diversi bufali ed altri capi di bestiame, unitamente a sette moggia di frumento che avevano sottratto alla chiesa maggiore di Salerno. Le notizie storiche si intensificano intorno all’anno mille, ma né prima né dopo esistono cenni al binomio bufalo-Longobardi. È del XII secolo la notizia secondo cui i monaci del Monastero di San Lorenzo in Capua offrivano ai componenti del Capitolo, in occasione della celebrazione della festa del Santo patrono, una mozza o provatura unitamente ad un pezzo di pane (Archivio Episcopale di Capua): “una mozza o provatura con un pezzetto di pane era la prestazione che i monaci del monastero di S. Lorenzo in Capua davano in ‘agnitionem dominii’ al Capitolo Metropolitano ed ai pellegrini che ogni anno per antica tradizione recavansi processionalmente in quella Chiesa”. La pasta filata veniva, quindi, mozzata ed offerta con un pezzo di pane ai fedeli. Non è certo, però, che si trattasse di mozzarella di bufala. Una notizia del 1294 riferisce dell’invio settimanale a Napoli di provole dalla tenuta reale di Santa Felicita in Foggia (3 km circa dalla stazione ferroviaria di Orta Nova – Foggia, non lontano dal fiume Carapelle) alla corte angioina, ma anche in questo caso non è sicuro che si trattasse di provole di bufala. La specie era presente nel 1400 nelle paludi dello Stato Pontificio e nel XV secolo i feudatari del regno Pontificio erano obbligati a destinare una parte dei possedimenti al pascolo di questi animali, gli unici in grado di trasportare in territori carenti di viabilità, fangosi e accidentati i mortai ed i pesanti pezzi di artiglieria dell’epoca. Nei tenimenti del casertano di Rinaldo 4, padre di Ettore Fieramosca, esistevano alla fine del 1400 numerose “malarie di bufala” a testimoniare che l’allevamento era già presente nei “mazzoni” di Capua. Bisogna, tuttavia, attendere il 1500 per avere la certezza dell’esistenza della mozzarella. Bartolomeo Scappi, cuoco delle cucine vaticane, la inserisce in un ricettario e ne testimonia l’uso anche a Roma, alla mensa del Papa.

Possiamo ritenere che nel Medioevo le mozzarelle di bufala e di vacca fossero già apprezzate e commercializzate nelle principali città della Campania nelle quali arrivavano “via mare” (Agropoli-Salerno-Napoli) o via terra (territorio casertano Aversa-Napoli). In particolare, ad Aversa, in località Taverna, il prodotto giungeva dai Mazzoni e dall’alto casertano. Tale punto di raccolta e smistamento stabiliva un prezzo differenziato per la mozzarella del giorno precedente e della mattina; la Taverna era una specie di borsino, rimasto attivo fino alla fine degli anni ’70 del secolo scorso. Il prodotto andava consumato fresco e non poteva essere trasportato per grandi distanze. Per ovviare alla sua scarsa durata, spesso il prodotto veniva commercializzato affumicato, ma ciò non bastava per essere diffuso al di fuori dei confini dei luoghi di produzione, come avveniva per quei formaggi a media e lunga stagionatura.

Inizio della valorizzazione della mozzarella

Chi per primo credette nella bontà della mozzarella e ritenne giusto valorizzarla fu Carlo di Borbone (1716-1788). Già Duca di Parma e Piacenza, infante di Spagna, Carlo diventa Re di Napoli (1735-1759) e pone fine a più di due secoli di vicereame. Continuò, tuttavia, a reggere il regno fino alla sua morte perchè suo figlio Ferdinando nel 1759, anno in cui fece ritorno a Madrid, aveva solo 8 anni. L’influenza di Carlo di Borbone continua, come dimostra il cospicuo epistolario con Bernardo Tanucci (Mincuzzi R., 1969), statista toscano di notevole spessore che assunse il ruolo di presidente di un Consiglio di reggenza fino al 1776. Spesso si confonde la sua opera con quella di suo figlio Ferdinando mentre almeno fino al 1776, e anche dopo, tutto ciò che fu intrapreso nel regno di Napoli è frutto delle sue direttive che erano realizzate tramite Bernardo Tanucci.

A differenza dei numerosi viceré che lo avevano preceduto, Carlo era un uomo colto ed appassionato, tra l’altro, di arte e di ceramica (ecco perchè nacque la fabbrica di ceramiche a Capodimonte). Una volta conquistato il regno, dopo le battaglie di Bitonto (1734) e di Velletri (1744), egli sentì il peso della tradizione di un regno che in passato era stato la culla di quella cultura che aveva contagiato Roma e tutta la penisola. Appassionato archeologo avviò sistematici scavi ad Ercolano, Pompei e perfino a Stabiae, perché voleva ridare al suo regno quel ruolo storico e culturale che gli spettava. Egli si preoccupò inoltre di riformare vari settori, non ultimo quello agro-zootecnico: la Campania felix poteva infatti essere un volano per l’economia del regno. Le azioni che intraprese diedero frutti anche successivamente. A mio avviso, egli va considerato come l’ulivo che non dà frutti prima di 4-5 anni dall’impianto, ma che inizia la piena produttività verso i 50 anni e la cui produzione può essere centenaria.

Re Carlo nel giugno 1745 affitta il feudo di Carditello (2000 Ha) e dà vita ad un allevamento di cavalli trasferendovi soggetti di razza napoletana, siciliana, calabrese e pugliese e stalloni andalusi destinati, poi, alla creazione della razza di Persano. Suo figlio Ferdinando nel 1787 delega Francesco Collecini, romano, affiancato da Jacob Philipp Hackert, a progettarvi una vera e propria piccola reggia, circondata da un’azienda agricola che a quei tempi veniva definita “sperimentale”.

A differenza di altri regnanti, i Borbone coniugarono la caccia con attività produttive nelle seguenti strutture: Carditello, Persano, la Ficuzza, S. Leucio e la Vaccheria. Nel paese di Carditello,  un’area venne riservata alla caccia mentre il resto fu destinato ad una serie di attività volte a far capire ai nobili un nuovo modo di utilizzare le risorse del territorio. La stessa reggia di Caserta (il 20 gennaio 1752 fu posta la prima pietra, ma venne abitata solo dal 1780) fu dislocata fuori Napoli per motivi militari, ma nel contempo era un monito per la nobiltà a risiedere nelle aree produttive. Con gli spagnoli i nobili erano tanto più importanti quanto più la loro residenza a Napoli era vicina al palazzo reale, secondo un’usanza che si è perpetrata negli anni. Fino a poco tempo fa molti proprietari terrieri o baroni calabresi abitavano nei pressi di Piazza dei Martiri o a Roma, disinteressandosi dell’economia del loro luogo d’origine; tale usanza spiega in parte la povertà del Mazzogiorno. A Carditello fu realizzato, pertanto, un allevamento di vacche (circa 200 capi) provenienti dalle Alpi Elvetie, verosimilmente Brune alpine anche se esse furono ufficialmente introdotte in Italia nel 1850. Si può dire che Carditello anticipò la modernizzazione del patrimonio zootecnico di circa 100 anni.

Vacche di razza Bruna alpina e bufali sono presenti nel presepe della Reggia di Caserta mentre sono assenti in quelli di S. Martino e Santa Chiara a riprova che le Brune, pur presenti a Carditello, non si erano ancora diffuse nelle aree limitrofe di Napoli e quindi non ispirarono Cuciniello (il più famoso artista dell’arte presepiale) e lo stesso Sanmartino, autore del Cristo velato. Negli altri presepi sono presenti esemplari di cavalli napoletani, di maiali casertani, di pecore gentili di Puglia, vacche podoliche, ma non esistono statuette di bufale e di bovine di razza Bruna. Questa è un’ulteriore prova dell’interesse di Re Carlo per la zootecnia (fu lui il vero iniziatore dell’arte presepiale nelle dimore reali, secondo una tradizione continuata poi da Francesco II che divenne un collezionista di pastori dell’epoca). Grazie al regno di Re Carlo, furono richiamate maestranze (forse) da Lodi e da Parma e fu impiantato un caseificio per la produzione di burro, di formaggi locali e di parmigiano, un dejavu di cui Carlo, figlio di Elisabetta Farnese e lui stesso duca di Parma e Piacenza, aveva avuto già esperienza. Venne creato un allevamento di bufali e fu realizzata la “Reale industria della pagliata delle bufale” in cui venivano prodotti dei latticini squisiti. Un’assoluta novità per quei tempi: un monarca che dà vita ad una nuova attività zootecnica! Dalla metà del 1700 fino all’Unità d’Italia, la produzione dei prodotti bufalini nel meridione italiano rappresentava uno dei primi esempi di industria casearia d’Europa; inoltre, era un settore in continua crescita, rientrando così nei progetti illuministici d’Industrializzazione dell’epoca.

Questi latticini devono il loro cominciamento a Re Carlo, che introdusse la prima volta il formaggio in Capodimonte (Notizie del bello e dell’antico-Le ville Reali, Celano, 1792). Infatti, anche a Capodimonte si produceva mozzarella, nonostante lo scopo fosse quello di ospitare la collezione Farnese. Non fu solo il bisogno di rifornire il “palazzo” di alimenti, ma era un modo per dimostrare che le attività zootecniche erano possibili anche a Napoli. Nel real sito di Capodimonte si trovava una “vaccheria Reale” in cui venivano prodotti i latticini di bufala e di vacca. Tale esempio produsse in tutte le zone di confine della città di Napoli (antichi casali come Ancarano, Piscinola, i Camaldoli ed altri) la nascita di stalle dove erano allevate oltre alle bufale anche vacche e capre, che offrivano alla popolazione della capitale un servizio per i tempi unico in Europa di distribuzione giornaliera di latte fresco: “Gli animali sono tenuti ed alimentati in stalle, si pascolano ogni giorno nelle circostanze di Napoli, e massime sopra i Camaldoli ed in luoghi ove ci ha selve o luogo incolto. Dopo tramontato il sole si riconducono in Napoli, e quivi si dividono in molte branche, delle quali prendendo ciascuna diverse strade, percorrono i diversi quartieri della capitale, e col suono di campana danno segno a coloro che hanno bisogno di latte. Di grandissimo utile agli abitanti di Napoli, i quali ricevono latte fresco premuto in loro presenza, e non adulterato o guasto. Questa industria è tutta particolare del nostro paese, non essendovi in altra parte d’Europa” (Breve ragguaglio dell’agricoltura e della pastorizia nel Regno di Napoli, 1845). Nella reggia di Capodimonte si produceva già quella pizza alla quale dopo l’Unità d’Italia fu dato il nome di “Margherita” in onore della Regina.

Dal 1861 al 1871, come tutta l’industria meridionale dell’epoca, anche la produzione della mozzarella di bufala si fermò, molte pagliare vennero dismesse, e con l’abbandono di Carditello (damnatio memoriae da parte dei Savoia) la Campania e l’Italia persero uno dei primi esempi in Europa d’industrializzazione casearia. La produzione ebbe un lento declino fino agli anni ’50 e ’60 del novecento, che portò l’industria bufalina quasi a scomparire. E’ opportuno ricordare che nel secolo dei lumi e fino al 1870 non esistevano strutture che sperimentassero nel settore agro-zootecnico. Nel Regno di Napoli esistevano già numerose “cattedre di agricoltura” (Itinerario delle Due Sicilie, G. Quattromani, 1827 Napoli) che nel ventennio divennero cattedre ambulanti di agricoltura.

Sulla scia della storia di Carditello, nacquero altre iniziative da parte di un monarca che, a differenza dei precedenti vicerè, si sentiva napoletano (Carlo imparò anche la “lingua napoletana”). Carlo e Ferdinando successivamente cercarono di tracciare nuove strade per valorizzare la produzione zootecnica. L’interesse non si limitò all’allevamento, ma essi intuirono che il miglior modo per poter trarre profitto non era solo produrre, bensì trasformare e commercializzare: oggi si parla di filiera corta! Nei pressi di Aldifreda fu realizzato un centro avanzato di produzione casearia a carattere industriale. Passò molto tempo prima che il seme piantato desse i suoi frutti. Solo nel 1973 furono costituite tre cooperative di produttori bufalini (due a Caserta ed una a Salerno), anno del colera a Napoli! Dopo ulteriori dieci anni cominciarono a sorgere i caseifici aziendali.

Di particolare interesse per gli allevatori e casari fu l’intuizione che la bufala, ed in particolare il suo latte, meritassero un’attenzione particolare, perché in effetti la mozzarella era un prodotto unico.

Secondo il Cimmino, ad inizio ‘800 nella sola provincia di Caserta venivano allevati 7.449 capi, cui ne andavano aggiunti altri 300 adibiti al solo lavoro. Tale consistenza diminuì dopo il 1830 allorché le prime opere di bonifiche resero possibile la cerealicoltura in alcuni territori. Secondo stime riportate da vari autori, il patrimonio bufalino si aggirava tra gli 8.100 capi nel 1865, ma crollò a circa 2.000 capi nel 1868 per poi risalire a 11.070 capi nel 1881. Nelle aree della Campania, caratterizzate da clima caldo-umido (tipico delle zone paludose) e dove le essenze pascolative erano grossolane e tipiche dei terreni acquitrinosi, il bufalo era una risorsa a differenza delle altre specie animali che non resistevano a tale ambiente. La specie bufalina svolgeva una funzione socio economica notevole poichè occupava aree marginali che altrimenti sarebbero rimaste vuote. I bufali erano insostituibili nella pulizia dei canali di sgrondo delle zone paludose e dei letti fluviali; erano, inoltre, adibiti nella pianura Pontina per la pesca fluviale e nel Salernitano per quella sottocosta. Dalle riviste dell’epoca si legge: “I bufali incedono nuotando dove l’acqua è alta e camminando dove è bassa di guisa che le erbe fluviali e le alghe vengono completamente estirpate con l’avvilupparsi strettamente ai loro arti. Per tutto ciò non occorre che gli animali vengano domati giacchè un tal genere di lavoro è nella loro natura e lo fanno assai volentieri. Dopo 24-30 ore dal passaggio delle bufale nei canali il livello delle acque abbassa ed i fiumi non straripano”. Ciò rappresentava un’opera di notevole importanza in quanto la pulizia dei canali permetteva il deflusso delle acque e del fango durante le piogge torrenziali ed evitava le tragiche conseguenze degli alluvioni. In un documento del salernitano si legge che “il Comune di Sarno fittava ogni tre anni una mandria di bufale per la cosiddetta mena delle bufale per i regi lagni che erano deputate a facilitare lo sgrondo non solo delle acque ma anche del fango che scendeva dalla montagna” (gli amministratori di una volta erano molto più previdenti!). Ricordiamo che a Sarno l’alluvione del 1998 fece 160 vittime!

Agli inizi del ‘900 il patrimonio bufalino ammontava a circa 20.000 capi, ma si ridusse del 50% in seguito alle bonifiche delle zone paludose effettuate dal regime Fascista durante il quale, a dimostrazione dei lavori svolti, la bufala, sinonimo di zootecnia arretrata e di territori malsani, non veniva più riportata separatamente dal bovino nelle statistiche ufficiali. Simile sorte toccò alla specie nei Paesi comunisti perché sinonimo di latifondo! Passate le quattro giornate di Napoli (27-30 settembre 1943) il patrimonio a Nord della città venne raziato dalle truppe tedesche e, successivamente, ricostituito con i capi provenienti dalle province di Salerno e di Foggia. Al primo censimento del dopoguerra (1947) si contavano circa 12.000 capi ed in molti ne vaticinarono l’estinzione, anche perché associavano la specie ai terreni paludosi che via via andavano scomparendo! Il patrimonio presentò, invece, un costante incremento numerico proprio nelle aree prosciugate!

Nonostante la mozzarella di bufala sia stata osteggiata dalle multinazionali lattiero-casearie, il patrimonio bufalino italiano oggi supera i 400.000 capi ed il suo prodotto, la Mozzarella di Bufala Campana DOP, è il terzo per volume di affari nello scenario delle DOP italiane ed il quarto per quantità. Lo Stato italiano, sotto questo aspetto, non diverso dal regno sabaudo, ha consentito “la storia della terra dei fuochi” che, per quanto vera sotto l’aspetto ambientale, è risultata falsa sotto quella della salubrità delle produzioni (31 ha inquinati su 1 milione e 300.000 ha utilizzati nelle attività agricole della Campania). Tale evidenza non è stata enfatizzata da quei mezzi di comunicazione che si sono guardati bene dal dargli lo stesso risalto che avevano dato alla “terra dei fuochi” non enfatizzando che tutto nasceva dal connubio camorra ed alcune industrie del Nord (ricordate Garibalidi e Don Liborio nel 1860?). Oltre al danno anche la beffa.

Carlo III non esisteva più!

L’esempio dato nel prestare attenzione e nel promuovere un’opera di valorizzazione per un prodotto già nella seconda metà del ‘700 non deve essere considerato fine a se stesso! Un governante che cercò di valorizzare i prodotti della terra che amministrava, almeno nel profondo Sud, almeno il sottoscritto non lo ricorda. A parte il cavallo Persano, ricordo quanto già detto circa il Provolone nato alle falde del Vesuvio che oggi ha assunto la denominazione DOP di “Provolone Padano”, generando occupazione e un incremento dell’allevamento bovino in aree che avrebbero potuto prosperare nella nostra Regione Campania. Per non parlare del “Fior di latte”, prodotto del Mezzogiorno di largo consumo (genera un PIL pari a quello del Parmigiano reggiano) a livello nazionale ed internazionale, che deriva dalla trasformazione del latte di bovine che non sono allevate nei nostri comprensori. Abbiamo già riferito che fino alla seconda Guerra mondiale, il latte di bufala era trasformato in campagna e poi commercializzato nei luoghi di consumo come mozzarella di bufala. Tale usanza era possibile perché gli allevamenti bufalini erano mediamente “grandi” e quindi era possibile dar vita ad attività che negli allevamenti vaccini, quasi sempre di piccole dimensioni, non potevano realizzarsi. La trasformazione del latte di vacca in azienda avveniva, invece, negli allevamenti di podoliche durante la transumanza perché generalmente costituiti da molti capi: era l’unica tecnica per utilizzare il latte il cui uso, previa trasformazione in caciocavallo, sarebbe avvenuto successivamente nei luoghi di consumo dislocati in pianura.

Nel dopo Guerra (soprattutto dopo gli anni ’60), con l’aumento del numero dei capi per azienda e con l’emigrazione della manodopera, gli allevatori cominciarono a vendere il latte ai caseifici e via via si diffuse la storiella che il latte di bufala doveva necessariamente essere mescolato al latte di vacca altrimenti non coagulava! In molte salumerie napoletane la storiella è ancora attuale.

Problematiche inerenti la commercializzazione della mozzarella

La bufala è una specie a fotoperiodo negativo che fisiologicamente addensa i parti tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno; di conseguenza, la quantità di latte che esita un’azienda cresce a partire da agosto e diminuisce tra febbraio e giugno.

Quando non esistevano le regole della DOP (mozzarella di bufala campana DOP, 1996), che ora prevedono la trasformazione del latte entro 60 ore dalla mungitura, nei periodi in cui era disponibile (settembre-gennaio) si utilizzava prevalentemente latte di bufala mentre negli altri mesi (febbraio-agosto) si utilizzavano quantità variabili di latte di vacca. Nei mesi in cui si addensavano i parti (luglio-settembre) il latte di vacca era utile per correggere il latte di bufala che, essendo “figliatiello”, era troppo acido e poco adatto alla filatura. Con la nascita del Consorzio della Mozzarella di Bufala Campana, che ha sostituito il C.O.V.A.L.C. creato dal compianto Prof. de Franciscis, è nata la regola di utilizzare esclusivamente il latte di bufala. Il Consorzio fu costituito all’inizio solo da 6 allevatori trasformatori lungimiranti e da un solo industriale, un particolare importante perché una compagine così costituita ha dato vita ad uno statuto che difendeva soprattutto gli interessi degli allevatori. Oggi, i soci conferitori del consorzio sono 80; di questi, circa il 33% sono allevatori trasformatori che costituiscono, tuttavia, solo una parte degli allevatori che caseificano, in quanto non necessitano del marchio DOP per commercializzare il prodotto.

Tale regola non era accettata di buon grado. Passò qualche anno prima che altri caseifici entrassero a far parte della compagine perché chi era abituato a miscelare (eufemismo) mal si adattava alle rigide regole; molti di quelli che entrarono speravano di sfuggire a tali regole con diversi sotterfugi. Inizialmente, congelavano la cagliata nei mesi autunnali ed invernali mentre in seguito si sono dotati di tecnologie atte a congelare direttamente il latte. Entrambe le tecniche erano una frode perché il consumatore ha sempre prediletto la mozzarella “fresca” e quindi derivante dalla trasformazione di latte che poche ore prima era ancora nella mammella e non un secreto munto mesi prima. Esistevano, tuttavia, caseifici che utilizzavano latte di aziende che destagionalizzavano la mandria e che, allo scopo, interrompevano la promiscuità sessuale ad ottobre e la ripristinavano a febbraio. Con tale tecnica i parti si interrompevano nella prima settimana di agosto e riprendevano a dicembre. Il latte prodotto era così sufficientemente in sintonia con la richiesta di mercato.

Perché è stato necessario aspettare molto tempo prima che ciò si realizzasse? Il latte “destagionalizzato” ha un costo di produzione più elevato perché l’utilizzo della tecnica penalizza la fertilità della mandria e quindi la quantità del latte prodotto in un anno (20-30% in meno). Per venire incontro a tale problematica, il latte prodotto tra marzo ed agosto veniva retribuito mediamente il 12% in più rispetto a quello del semestre invernale. Ciò attribuiva, però, un premio (fidatevi perché è complicato spiegarlo) mediamente del 5% su base annua a fronte di una perdita del 20%; tale divario è facilmente comprensibile se si tiene conto che l’attività riproduttiva è limitata a 7 mesi su 12. Il prezzo differenziato nasce dalla logica che il latte prodotto in surplus nei mesi autunnali ed invernali presenta dei costi per lo stoccaggio e l’anticipo di capitale (interessi bancari). Secondo tale logic,a l’allevatore che produce il latte in sincronia con la richiesta di mercato dovrebbe ricevere il prezzo pieno anche durante il periodo di minore richiesta, in tal caso il divario verrebbe compensato. Invece non accade così! E’ semplice comprendere che tale politica favorisce le aziende che non destagionalizzano, che ricevono mediamente una penalzzazione del 5% su base annua ma producono il 20% di latte in più perché la mandria si riproduce 12 mesi su 12 e, ciò che conta, nei mesi favorevoli (ottobre-gennaio) all’attività riproduttiva. Cosa spinge a questo comportamento? Nei mesi di maggior richiesta del prodotto (giugno-agosto) anche operando la destagionalizzazione attualmente il latte è insufficiente al fabbisogno e quindi bisogna avere delle scorte di latte congelato. In altri termini, i caseifici vogliono il latte estivo ma non disdegnano quello congelato! (Ricordate il detto napoletano? “Mamma Ciccio mi tocca! Toccami Ciccio che mamma non vede!). Tale problematica tentai di illustrarla ad un funzionario del Mipaaf palesandogli la mia convizione che alla base del fenomeno c’erano le promozioni della GDO. Mi accompagnò gentilmente alla porta con la faccia di chi aveva ricevuto in regalo tanta mozzarella! Chi ragiona non può non riconoscere che è assurdo che le promozioni si facciano nel periodo di maggiore richiesta da parte del mercato, mentre secondo logica dovrebbero essere effettuate nel periodo di minore richiesta.

La GDO, pur avendo il merito di aver fatto conoscere il prodotto dapertutto, ha la grossa colpa di aver contribuito a rovinare le caratteristiche organolettiche della mozzarella. In generale, la mozzarella rientra nella classe dei formaggi e la GDO non differenzia i formaggi freschi da quelli stagionati: sono tutti cheese e pertanto devono restare nel punto vendita per un tempo idoneo che ottimizzi i costi. La diretta conseguenza è stata la richiesta dell’allungamento della vita media, ovvero della shelf life, del prodotto. Un prodotto fresco, secondo la logica della GDO, è tanto più buono quanto più la sua “vita di scaffale” è lunga. Il consumatore vuole un prodotto fresco ma è costretto a scegliere un prodotto vecchio. La GDO non si è sforzata di creare una logistica di distribuzione più celere perché il suo unico obiettivo non era quello di valorizzare il prodotto ma di creare valore aggiunto, non importa se tale valore glielo procaccia il prodotto bufalino o quello vaccino. Tratta quindi una mozzarella con la stessa logica di un provolone. Grazie a tale tendenza, una mozzarella “fresca” della GDO è vecchia almeno di 6-7 giorni e le sue qualità organolettiche sono ben lontane dalla mozzarella che conosciamo. Del resto la testardaggine degli anglosassoni sfiora l’idiozia! E’ impensabile che un’ostrica dal luogo di produzione a quello di consumo viaggi più celermente (meno di 2 gorni) di una mozzarella (6-7 giorni). Se la mozzarella avesse la stessa velocità dell’ostrica i consumi quanto meno raddoppierebbero. Ciò non rientra però negli obiettivi della GDO ma dei produttori. Questi ultimi sono diventati succubi della GDO e neanche tramite il consorzio sono stati in grado di migliorare la logistica di distribuzione. Del resto il loro obiettivo non è quello di valorizzare il prodotto ma è quello di fregare il caseificio concorrente, ed entrambi hanno come obiettivo finale quello di penalizzare l’allevatore (ricordate i polli di Renzo o la storia della destinazione finale del cetriolo?).

Finalmente è nata la tracciabilità: oggi tutti ne parlano e sembra uno dei principali obiettivi del Mipaaf. L’idea della tracciabilità è nata nella Presidenza della facoltà di Medicina Veterinaria dell’Ateneo di Napoli. Nel luglio 2012 al foro boario di Eboli fu lanciata l’idea della tracciabilità del latte bufalino e bovino da parte del sottoscritto, del Dott. Cerino e dell’IZS del Mezzogiorno. L’iniziativa portò al decreto attuativo congiunto Mipaaf – MinSal del 9 settembre 2014 in applicazione dell’articolo 4 del decreto legge 91 “Campo libero” (24 giugno 2014), che prevede misure per “la sicurezza alimentare e la produzione di Mozzarella di Bufala Campana DOP”. Le organizzazioni professionali non furono presenti e, se lo furono, non proferirono parola. Dell’iniziativa voleva avere la paternità l’AIA (Associazione Italiana Allevatori) che avrebbe governato la tracciabilità. L’AIA sosteneva di essere già in possesso dei dati poichè controllava quasi tutti gli allevamenti. È noto, invece, che sui 1.697 allevamenti dell’epoca, quelli controllati dal sistema allevatoriale nel 2012 erano 318 e quindi meno del 20%. Di questi l’83% circa rientravano nell’area DOP. In sintesi, le aziende AIA utili al controllo erano 265 e quindi soltanto il 15,62%. Il 4 agosto 2013 la giunta regionale approvò il nuovo sistema della tracciabilità bufalina: le regole semplici sono sempre quelle che funzionano. La semplicità scaturiva dal controllo incrociato tra i dati della BDN (banca dati nazionale, IZS di Teramo), il latte conferito al caseificio dichiarato dall’allevatore via mail e la mozzarella prodotta dichiarata dal caseificio.

Con tale sistema attualmente in voga, anche se non funzionante al 100% perché il Mipaaf non vigila a sufficienza, è possibile verificare se la mozzarella è prodotta con latte fresco o congelato nel caso in cui la quantità di mozzarella prodotta non sia giustificata dal latte ricevuto giornalmente. Come conseguenza di tale decreto, negli ultimi quattro anni sono aumentate le vendite (è il formaggio italiano che è cresciuto di più) ed è aumentato anche il prezzo del latte di bufala. Oggi, il latte di bufala manca anche d’inverno. Evidentemente, il minor impiego di latte congelato ha migliorato la qualità del prodotto e ciò ha incrementato i consumi e, di conseguenza, la vendita nonostante il rapporto tra mozzarella DOP e quella non DOP si sia spostato a favore di quest’ultima. Ovviamente ciò è falso perché la mozzarella non DOP è cresciuta perché i produttori sono stati costretti a dichiarare non DOP quella che prima spacciavano per DOP. Ciò ha generato maggior fiducia nel consumatore finale, non per la tracciabilità ma per la tangibile superiore qualità del prodotto, e ciò ha incrementato il consumo. Se manca il prodotto e cresce la richiesta è un fatto positivo, perché tale scenario dovrebbe incrementare il prezzo, ed è quello che sta accadendo, ed incentivare l’allevamento bufalino con risvolti positivi sull’economia della Regione Campania in cui rappresenta già il 18% del PIL. Perché il consumatore doveva pagare per DOP ciò che DOP non era in quanto derivante dalla trasformazione di latte munto non 60 ore prima ma mesi prima?

Il successo del prodotto dipende dalle sue peculiari caratteristiche che se vengono meno ne danneggiano l’immagine e, di conseguenza, i consumi. E’ più logico che la non DOP sia commercializzata nei discount ed utilizzata per la parmigiana, per la pasta imbottita o per la pizza. A differenza degli altri formaggi, con la mozzarella non si condisce ma si pranza! (i prodotti da grattuggia usati come condimento subiranno una flessione quando non ci saranno più le nonne che confezioneranno i tortellini e le tagliatelle). Purtroppo, ciò che ci è stato tramandato non viene custodito gelosamente e spesso anche qualche socio del Consorzio continua ad effettuare frodi esponendo il fianco alle critiche, facilitando l’azione di chi vuole appropriarsi di tale ricchezza per traslocarla altrove (vedi provolone, fior di latte, luganega ecc…). Questi tentativi sono continui. 

La storia non si fa con i “se” e con i “ma”. E’ logico chiedersi, tuttavia, come mai una specie che non è la più produttiva stia crescendo mentre altre che hanno beneficiato della tecnica e della genetica anglosassone segnano il passo!

A mio avviso, cresce chi ha ascoltato il “gusto” e non ha inseguito la logica dei costi a discapito di quella della qualità non cartacea ma vera, che è certificata dal parere del consumatore.

Grave errore sarebbe quello di incrementare la quantità di latte senza tener conto che l’aumento della quantità coincide, sia in campo animale sia vegetale, con la diluizione dei sapori! Anche perché i formaggi non si insaporiscono con il ketchup!