Per capire a fondo come cambia il contesto che fa da sfondo a tutte le attività imprenditoriali, agricoltura compresa, basta riflettere sulle regole della Formula 1. Se i criteri non cambiassero mai probabilmente vincerebbe sempre la stessa scuderia, quella che ha la macchina più veloce e affidabile. Quello che invece questa competizione sportiva, diventata ormai sinonimo di tecnologia iper-avanzata, vuole premiare e mettere in evidenza, è la capacità di adattamento delle scuderie a regole del “gioco” che cambiano ogni anno. Anche la natura non premia il più forte, ma chi riesce ad adattarsi con intelligenza e rapidità al cambiamento.

Che il clima stia cambiando è sotto gli occhi di tutti ma sul fatto che la causa di questa situazione sia dovuta alle attività umane ci sono ancora resistenze tra i politici e gli scienziati, a prescindere dalle evidenze scientifiche disponibili. Al negazionismo d’ignoranza o patologico ci stiamo ormai assuefacendo, ma senza mai dimenticare che tra negazionismo a prescindere e libero confronto d’idee e di opinioni c’è un’enorme differenza.

Gli USA, dopo la parentesi dell’amministrazione Trump, sono rientrati rapidamente nell’Accordo di Parigi (COP21) del 2015. La Cina ha formalmente promesso di azzerare le emissioni entro il 2060 mentre l’Europa entro il 2050 sarà un continente climaticamente neutro e già dal 2030 garantisce una riduzione dei GHG del 55%. La Commissione europea ha presentato nella seconda metà del 2019 il Green Deal europeo, un ambizioso piano di riconversione dell’economia e della vita sociale europea che si articola su tre pilastri:

  • che nel 2050 non siano più generate emissioni nette di gas a effetto serra;
  • che la crescita economica sia dissociata dall’uso delle risorse;
  • che nessuna persona e nessun luogo siano trascurati.

Per questa transizione ecologica l’Unione europea ha messo a disposizione degli Stati membri un’ingente dotazione economica, perché ciò porterà grandi cambiamenti per i sistemi economici e sociali e per gli stili di vita.

La nuova governance europea non ha probabilmente voluto stimolare un radicale cambiamento dell’economia e della vita sociale europea, ma ha semplicemente assecondato ciò che negli ultimi anni ha iniziato a sedimentarsi nell’opinione pubblica. Ha voluto, a mio avviso, solo dare una risposta organica alle preoccupazioni della gente.

Nel piano sulla transizione ecologica europea sono contenuti obiettivi specifici per l’agricoltura, come quello di ridurre, entro il 2030, l’uso dei pesticidi del 50%, quello dei concimi chimici del 20% e quello degli degli antibiotici utilizzati negli animali d’allevamento e nell’acquacoltura del 50%. Viene anche auspicata una riconversione al biologico del 25% dei terreni agricoli europei.

Ci sono alcuni punti fermi di natura scientifica che hanno convinto i politici europei a fare un passo così decisivo. Le attività umane contribuiscono per il 60% alle emissioni globali di metano che, nel 2017, sono aumentate del 9% rispetto al 2000-2006.

Nella PAC 2021-2027 viene richiesta all’agricoltura una riduzione delle emissioni di gas serra (GHG) del 13% entro il 2020 e del 33% entro il 2030, rispetto ai livelli del 2005. Relativamente all’ammoniaca, si richiede una riduzione, rispetto al 2005, del 5% nel 2020 e del 16% entro il 2030. Non sono state trascurate neppure le polveri sottili (PM 2.5), per le quali è stato auspicato un calo del 10% entro il 2020 e del 40% entro il 2030.

Per l’Italia agricola si può partire dal dato diffuso da ISPRA nel 2020 che attribuisce all’agricoltura la responsabilità di produrre il 7% dei GHG. Di questi, il 47% deriva dalle emissioni enteriche e il 18.8% dalla gestione delle deiezioni. Il 79% di questi gas climalteranti è emesso per il 36.9% dalle bovine da latte, per il 31.8% dai bovini da carne, per il  4.5% dalle bufale, per l’8.5% dagli ovini e per lo 0.9% dalle capre. Più grave la situazione dell’ammonica, che deriva per il 94% dall’agricoltura e per l’83% dagli allevamenti.

Il Green Deal stimola e incentiva economicamente la transizione ecologica, ma una parte dell’industria agro-alimentare e di quella che produce beni strumentali per l’agricoltura non ha tardato a dare risposte concrete e a prescindere dei contributi pubblici. Questa opportunità di riconversione dell’offerta verso quelli che sono considerati i desiderata dei consumatori è vista da questi due settori industriali come una grande opportunità etica e speculativa.

In questo scenario tre sono i rischi. Il primo è quello esercitato dai negazionisti e il secondo quello rappresentato dal greenwashing, ossia del falso “green” che può alterare gli equilibri in modo sleale tra aziende che competono sul mercato e deludere i consumatori. Il terzo rischio, che corrono tutte le parole di cui si fa largo uso e spesso in modo improprio, è che la parola “ecologica” perda significato, come è avvenuto con il termine “benessere animale”. Oggi, “ecologico” e “benessere” sono parole associate più ad aspetti legislativi che a concetti etici e speculativi.

Pertanto, la transizione ecologica non è “l’ennesima seccatura”, a patto che venga letta come una straordinaria occasione di riqualificazione dell’economia e della qualità della vita delle persone. Abbiamo più volte ricordato che, a differenza del passato, ormai la gente è “dentro gli allevamenti”, condizionando così scelte che prima erano solo ed esclusivamente di tipo tecnico ed economico.

E’ evidente che l’ormai cronica e giusta lamentela degli allevatori sui prezzi del latte e della carne alla stalla debba fare un salto di qualità e in netta discontinuità con il passato. Una profonda riqualificazione della produzione primaria che risponda ai desiderata dei consumatori può anche modificare sostanzialmente i rapporti di forza tra produzione primaria e industria, e comunque garantirne il futuro.