Di seguito pubblichiamo la lettera inviataci da Luca Buttazzoni, ex Direttore Centro di ricerca Zootecnia e Acquacoltura del CREA, in risposta a quella di Damiano Di Simine “E se la filiera zootecnica italiana ambisse a diventare protagonista della transizione ecologica?“.
Questo contributo si inserisce nel dibattito sul ruolo della zootecnia nel cambiamento climatico iniziato dall’articolo a firma di Alessia Tondo, “Allevamenti e inquinamento: e se iniziassimo a guardare veramente ai dati? L’appello di Alessia Tondo ai giornalisti“, e dal suo invito a guardare veramente ai dati dell’impronta climatica dell’agricoltura italiana.
Con le sue osservazioni il Dott. Buttazzoni aggiunge nuovi argomenti e prospettive diverse riguardo all’impatto della zootecnia sulle emissioni e sul riscaldamento globale.
La lettera
Ho personalmente apprezzato il contributo del dott. Damiano di Simine per le sue pacate argomentazioni e la documentata conoscenza dei fenomeni. Condivido la sua analisi dei dati, ma penso che, se opportunamente integrata, quell’analisi possa condurre a considerazioni affatto diverse.
Prima di tutto condivido l’osservazione che il brusco calo delle emissioni agricole verificatosi nel 2022 sia un fatto episodico dipeso quasi interamente dalla minore liberazione di CO2 dall’urea distribuita nei campi. Nel 2022 il fertilizzante è stato molto meno utilizzato a causa dell’impennata del suo prezzo causata dalla guerra in Ucraina.
Ma, tenendo conto degli interessi della testata che mi ospita, vorrei concentrarmi sulle emissioni di origine zootecnica: enteriche e da reflui, da metano e da protossido d’azoto.
È vero che dal 2010 al 2022 le emissioni zootecniche totali sono diminuite solo marginalmente, ma in quella dozzina d’anni molte cose sono cambiate, e il settore del bovino da latte è un buon esempio di tale cambiamento.
In effetti, le emissioni di quel settore sono aumentate dal 2010 al 2022 del 2,05 % (1), ma bisogna tenere conto che nello stesso periodo la produzione di latte è aumentata (+15,8 %), tanto che il Paese ha oggi quasi raggiunto l’autosufficienza, aiutato in questo anche dalla contemporanea riduzione dei consumi di latte alimentare.
Nello stesso periodo, il numero di vacche è diminuito (-6,5 %), le loro produzioni individuali sono nettamente aumentate (+ 24 %) e, più importante ai nostri fini, l’intensità delle loro emissioni, cioè la quantità di emissioni per litro di latte, è molto diminuita (-12 %).
Nella tabella si riportano i principali dati citati: l’intensità di emissione è risultata un pò più bassa di quelle calcolate con approcci analitici (2), tuttavia, ai fini della trattazione, rileva soprattutto il trend decrescente nel tempo.
In questi anni i nostri allevamenti, cosiddetti intensivi, ci hanno permesso di ridurre la dipendenza dall’estero per il latte, con grande beneficio per i conti del Paese, producendo in modo sempre più efficiente e con minori intensità di emissione.
L’alternativa, come riconosce il dott. Di Simine a proposito della riduzione della superficie agricola, sarebbe stato l’acquisto di latte da Paesi con regole ambientali meno rigide, con conseguente delocalizzazione delle emissioni. A parte qualunque considerazione morale sulla conseguente, inedita forma di “colonizzazione ambientale”, si tratterebbe di un’alternativa assai poco utile a mitigare il riscaldamento globale, visto che le emissioni non rispettano i confini nazionali.
Tra l’altro, non potremmo nemmeno continuare le nostre produzioni di qualità, visto che i prodotti DOP prevedono che la materia prima venga dalla zona d’origine. Per l’agricoltura italiana, prima in Europa per produzione di valore aggiunto, sarebbe un bel problema: ma soprattutto sarebbe un problema per la zootecnia, che nel 2022 ha generato l’83,5 % (3) del valore al consumo di tutti i prodotti DOP, IGP ed STG italiani (vino escluso).
Rimane il fatto che tutti i settori sono tenuti ad affrontare il riscaldamento globale. Non tutte le emissioni producono il medesimo effetto “riscaldante”, e per tenere conto di ciò abbiamo bisogno di formule, più tecnicamente chiamate “metriche”.
La metrica universalmente accettata è il GWP (Global Warming Potential) che assume come unità di misura il riscaldamento indotto da una tonnellata di anidride carbonica (CO2) su un orizzonte di 100 anni (GWP=1). Gli altri due gas prodotti dalla zootecnia, metano biogeno (CH4) e protossido d’azoto (N2O) hanno rispettivamente GWP di 28 e di 265. Questi sono i valori usati dall’ISPRA nel suo National Inventory Report 2024 (1) e sono desunti dall’Intergovernmental Panel on Climate Change IPCC (5).
Ma i diversi gas hanno una diversa durata in atmosfera: in particolare, mentre la CO2 dura in atmosfera per secoli, il metano si ossida in circa 10 anni, lasciando in pratica solo anidride carbonica di recente origine biogena, quindi neutra da un punto di vista climatico.
Ciò significa che, mentre la CO2 prodotta dalle prime macchine a vapore del XVIII secolo è ancora in atmosfera, il metano prodotto dalle vacche nel 2010 non esiste più.
La conseguenza è che il metano non si accumula in atmosfera, e, mentre emissioni costanti di CO2 si sommano sempre (o perlomeno per molti secoli), le emissioni costanti di CH4 raggiungono un equilibrio nell’arco di una decina d’anni. Ancora più importante è il fatto che, riducendo le emissioni di CO2, la quantità di questo gas in atmosfera cresce più lentamente, ma continua a crescere: se si riducono le emissioni di metano, la sua quantità in atmosfera diminuisce.
La conseguenza sul riscaldamento globale è quindi ovvia: con le emissioni di CO2 il riscaldamento globale cresce sempre, con le emissioni di CH4 il riscaldamento globale aumenta solo se aumentano le emissioni.
Per tenere conto di questo diverso comportamento climalterante dei gas, è stata proposta la nuova metrica GWP* (5,6,7) riconosciuta l’anno scorso anche dalla FAO (8). La differenza sostanziale è che il GWP* tiene conto della diversa lunghezza di vita dei gas in atmosfera.
Calcolate con questa metrica, le emissioni zootecniche italiane degli ultimi dieci anni risultano essere molto più basse e delineano una situazione di stabilità o addirittura un contributo al raffreddamento dell’atmosfera (2, 9).
Non si tratta di un artefatto consolatorio, quanto della presa d’atto che l’impatto ambientale della zootecnia italiana è molto meno pesante di quanto generalmente si ritenga.
Proprio perché il metano non si accumula in atmosfera, e quindi la sua riduzione è uno dei pochi modi per ridurre il riscaldamento globale, il 2 novembre 2021 più di 100 Paesi hanno sottoscritto a Glasgow, nell’ambito di COP 26, il methane pledge, cioè l’impegno a ridurre del 30% le emissioni di metano entro il 2030.
Tutto ciò non esime la zootecnia dal ridurre le proprie emissioni. Tutti i settori devono contribuire allo sforzo, e la zootecnia può farlo essenzialmente in tre modi, molto concreti:
- utilizzando per i ruminanti additivi alimentari che riducano la formazione di metano nel rumine. Ad esempio, il 3-nitroossipropanolo, noto come 3-NOP, riduce le emissioni del 22-40 % (10), è stato autorizzato nella UE per le vacche nel 2022 (11), ed è già in commercio;
- trattando i reflui nei digestori anaerobi, privati o consortili, per la produzione di biogas;
- su un orizzonte temporale più lungo, selezionando i ruminanti per ridurne l’intensità di emissione.
La riduzione delle emissioni di metano ha sul riscaldamento globale il medesimo effetto della rimozione di CO2 dall’atmosfera (mediante la fotosintesi o con processi tecnologici). Essa ha un effetto immediato di riduzione dello stock del metano in atmosfera e quindi di mitigazione del riscaldamento globale.
Da tutto quanto detto si può concludere che la zootecnia sia corresponsabile del riscaldamento globale? Sostanzialmente no, anche perché i ruminanti, e soprattutto i reflui animali, erano già molto abbondanti all’alba della rivoluzione industriale. È difficile calcolare quante fossero le emissioni di fonte zootecnica in Europa nel XVIII Secolo, ma una ricerca pubblicata negli Stati Uniti nel 2012 (12) ha calcolato che bisonti, alci e cervi prima della colonizzazione producevano l’86% del metano prodotto dagli attuali allevamenti.
Contrariamente alla grande pressione mediatica, si può tranquillamente affermare che in Europa, e particolarmente in Italia, la zootecnia ha una responsabilità secondaria sul riscaldamento globale.
Di contro, la zootecnia può dare un grande contributo alla mitigazione climatica. Gli allevatori dovrebbero essere incoraggiati e aiutati a ridurre le emissioni dei propri animali, e ogni loro sforzo dovrebbe essere socialmente apprezzato e riconosciuto.
Luca Buttazzoni, ex Direttore Centro di ricerca Zootecnia e Acquacoltura del CREA
Bibliografia
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