Lo scorso primo settembre un noto periodico italiano, da sempre impegnato sul fronte della tutela dei consumatori anche in ambito alimentare, ha pubblicato un articolo ispirato ad un’inchiesta pubblicata su una rivista tedesca, della stessa tipologia, che ha preso in esame la “qualità totale” di 20 marche di yogurt naturali biologici, di cui solo due sono stati “promossi” a “pieni voti”.

Confermata la migliore qualità “alimentare” dei prodotti biologici rispetto agli analoghi convenzionali, quando si è trattato di esaminare i parametri relativi al metodo effettivo di allevamento la classifica si è molto articolata, con soli due “vincitori”. Così non dovrebbe essere, visto che vige ormai da decenni un solo riferimento normativo a livello UE e tutti questi prodotti riportano quindi in etichetta lo stesso logo europeo. Tuttavia, come sappiamo, le differenze esistono eccome. Alcune giustificate dalla diversità di territori, clima, sistemi agricolo-zootecnici più o meno tradizionali e dimensioni aziendali anche all’interno di uno stesso Paese (in questo caso la Germania), altre che ritengo possano determinare concorrenza sleale se non opportunamente comunicate in etichetta.

L’elemento principale sotto accusa anche in questo caso è il permanere di sistemi di allevamento bovino che sono tipici di determinati ambienti e tipologie di aziende, ovvero il genere di allevamento bovino da latte che siamo abituati a vedere ad esempio in Appennino o in Alto Adige, e certamente in territori simili in Germania e Austria, dove la stabulazione fissa di fatto sopravvive nelle piccole aziende, seppur mitigata sempre più. Una situazione che da sempre ha determinato molto dibattito anche all’interno del settore, dato che un’applicazione immediata e rigida della normativa avrebbe escluso dalla certificazione allevamenti che per dimensione, gestione familiare, ricorso anche a lunghi periodi di pascolo, qualità del latte e tipicità dei prodotti derivati e ruolo nel sostegno all’economia di territori a volte fragili appaiono invece “ideali”. E del resto è meglio un periodo di pascolo permanente lungo, anche se concentrato in alcuni mesi dell’anno, o di fatto l’assenza di un pascolo vero e proprio sempre, come può accadere in stalle di pianura a stabulazione libera?

Certamente, e a maggior ragione nel 2024, le soluzioni edilizie, tecniche e di gestione degli animali anche in questi contesti peculiari e senza necessità di investimenti ingenti sono tali da non poter più considerare ammissibili allevamenti “a posta fissa” anche nei periodi di impossibilità di accesso all’esterno anche solo per il movimento e la vita sociale degli animali; dunque, è giusto che vi sia una verifica rigorosa di queste condizioni anzitutto da parte degli organismi di certificazione autorizzati. Anche in questo caso una comunicazione trasparente verso i consumatori riguardo alle particolari condizioni di gestione del benessere animale nel contesto territoriale e socio-economico in cui operano questi allevamenti credo potrebbe essere molto utile, se non doverosa.

Ben altra questione è quella che riguarda le altre deroghe che la rivista tedesca ha evidenziato nella gran parte degli allevamenti da latte verificati nella loro inchiesta. Si tratta dell’effettiva pratica del pascolo, delle modalità di svezzamento dei vitelli e della durata della vita degli animali da latte. Purtroppo, nel quasi quarto di secolo di applicazione della normativa europea sull’allevamento biologico il combinato disposto dell’ambiguità della norma e della diffusa tendenza degli organismi di certificazione ad assecondare la conversione degli allevamenti da latte, soprattutto in alcune fasi di mercato, ha favorito l’elusione dell’obbligo di pascolo effettivo. In alcuni casi il problema è tutt’altro che semplice da risolvere anche quando l’allevatore prende finalmente consapevolezza piena di questo requisito, non solo perché obbligatorio ma anche per gli effetti benefici che può avere su molti aspetti del benessere degli animali e relative implicazioni sulla salute e sulla qualità del prodotto. Modificare una stalla per consentire un accesso agevole al pascolo piuttosto che formare gli addetti e rivedere l’organizzazione della gestione dell’allevamento può essere molto impegnativo, almeno nelle fasi iniziali. Ma non ci può essere alternativa a un piano di adeguamento, a parere mio, se non l’uscita dal sistema di certificazione.

Svezzamento dei vitelli e durata della vita degli animali sono infine aspetti su cui è necessario cessare deroghe e ambiguità, ovvero comunicare correttamente, come nel caso della durata della vita degli animali da latte, comunque certamente e sempre maggiore di quella degli animali allevati in maniera convenzionale intensiva.

Insomma, come anche evidenziato dalla rivista italiana nella sua inchiesta, la questione vera è che fra le aspettative dei consumatori verso il metodo biologico di allevamento e la realtà, a volte diversa anche per motivi ottimi oltre che leciti, c’è uno spazio ampio che nessuno degli operatori del settore (ma nemmeno le Istituzioni) si sono mai preoccupati di colmare con un’informazione chiara, trasparente ed efficace. Questo nonostante il fatto che il consumo anche di latte e derivati biologici sia stato reso obbligatorio ad esempio nella ristorazione collettiva, che la conversione degli allevamenti al biologico sia supportata da risorse pubbliche, per quanto decisamente insufficienti, e che gli operatori del comparto latte e derivati convenzionali spendano invece ingenti risorse in comunicazione e pubblicità per accreditare il loro sistema di allevamento come campione del benessere animale e della sostenibilità.

In un contesto nel quale la sfida epocale che riguarda anche l’allevamento bovino da latte è già fra l’insostenibilità del modello zootecnico “industriale” e l’inaccettabile scomparsa dell’allevamento, qualunque esso sia, a favore della produzione di cibo in laboratorio, mi pare perfino scontato che il metodo biologico può e deve essere la “terza via”. Sempre che nel mentre non si “suicidi”, complici l’ignavia e la miopia degli attori istituzionali e economici del sistema.

Tra fare male e uscire dalla certificazione esiste l’affidarsi a consulenti che possono dare il loro contributo riguardo alla conduzione dell’allevamento secondo quanto prevede il regolamento e le aspettative dei consumatori che lo scelgono. Lo scopo di questa rubrica è proprio fornire, in tal senso, spunti teorici e pratici di riflessione, rispetto ai quali i consulenti di Federbio Servizi sono a disposizione per ogni approfondimento in merito.