Le produzioni di origine zootecnica sono sempre più oggetto di “scandalo”. Un tempo immagine bucolica, le vacche da latte sono diventate oggi un simbolo di inquinamento. Poche persone, infatti, oltre agli “addetti ai lavori”, sanno che la vacca per produrre latte deve prima partorire, ma apparentemente tutti sanno, sicuramente aiutati dall’aspetto goliardico, che la vacca con le sue “flatulenze” rilascia metano contribuendo al riscaldamento del pianeta.

Abbiamo quindi colto l’occasione della Giornata Mondiale del Latte, tenutasi il 1° giugno di quest’anno, per fare il punto della situazione intervistando alcuni esperti del settore. In particolare, volevamo capire quale futuro potesse avere l’allevamento della vacca da latte da qui al 2050. Le sfide sono molte: dal produrre in modo efficiente ma sostenibile al far fronte a mercati in continua evoluzione dove prodotti come il “falso latte” di origine vegetale o addirittura il “latte senza vacche” guadagnano sempre più spazio sugli scaffali.

Con Lance Baumgard, professore alla Iowa State University ed esperto dell’impatto dello stress da caldo sulla fisiologia animale, abbiamo discusso dei rischi e delle sfide che dovrà affrontare l’allevamento della vacca da latte di fronte al riscaldamento globale negli anni a venire.

V: Nei prossimi anni il consumo mondiale di latte sarà in continuo aumento. Secondo stime FAO, nel 2050 la richiesta sarà superiore del 58% rispetto a quella attuale. Ciò sarà legato in particolare al maggior consumo nei Paesi in via di sviluppo, grazie all’aumentare del reddito pro capite. Che impatto potrà quindi avere il riscaldamento globale sulla produzione mondiale di latte?

LB: Lo stress da caldo ha sicuramente un impatto molto importante sulla produttività della vacca da latte. In Europa e negli Stati Uniti la minor produzione nel periodo caldo ha una conseguenza prettamente economica, ma nei Paesi in via di sviluppo, andando a ridurre la disponibilità di un alimento basilare, questo è un problema di sicurezza alimentare.

Grazie alla selezione genetica le vacche di oggi, sono più produttive che in passato ma, generando più calore metabolico, sono ovviamente anche più sensibili allo stress da caldo di quanto non lo fossero le loro “nonne”. Se la selezione genetica continua a spingere per una maggior produzione sicuramente, da qui a trent’anni, avremo animali ancora più sensibili di quanto non lo siano oggi. L’incrocio delle razze ad alta produzione con razze più resistenti, come quelle derivanti dal Bos Indicus, non è una soluzione, in quanto quest’ultime sono meno produttive. Magari in futuro si riuscirà ad isolare i geni responsabili per la resistenza al calore da questi animali e ad “usarli” in animali altamente produttivi; sicuramente, però, progettare una nuova vacca da latte non è compito facile. Allo stato attuale, la miglior soluzione per mitigare il problema è quella di intervenire sull’ambiente con l’uso di sistemi di raffrescamento. Nei Paesi in via di sviluppo, tuttavia, spesso mancano i capitali iniziali per questo tipo di intervento: la via alimentare e l’utilizzo di additivi dedicati pare quindi essere un buon compromesso. Altro fattore limitante è la disponibilità di acqua, da cui sempre più dipenderà lo sviluppo del settore.

V: Il riscaldamento globale porterà anche all’aumento o alla comparsa di nuovi patogeni?

LB: Lo stress da caldo ha sicuramente un impatto negativo sul sistema immunitario degli animali rendendoli più sensibili. Oltre a questo, ci sarà un maggior carico di patogeni legato all’aumento delle temperature e al propagarsi di potenziali vettori come gli insetti. La morbilità e la mortalità cambieranno e non saranno legate solo alla maggior sensibilità degli animali. Bisogna pensare in modo olistico, lo sviluppo di insetti vettori in Paesi in via di sviluppo lontani dai nostri allevamenti presto o tardi avrà un impatto anche da noi (la zanzara tigre ne è un esempio tangibile, ndr). Ma anche la qualità dei foraggi avrà un impatto globale. Dall’Arizona, ad esempio, si esporta molto fieno di erba medica in Giappone. Se la qualità della medica si riduce in Arizona, anche l’efficienza delle vacche giapponesi ne può venir influenzata. È altamente probabile che il riscaldamento climatico porterà ad una sempre maggiore regionalizzazione delle produzioni zootecniche, in parte ciò sarà legato alla disponibilità di acqua ed in parte alla vicinanza con le regioni più popolate.

V: Siamo abituati a considerare l’impatto che lo stress da caldo ha sugli animali, ma spesso ci dimentichiamo dell’impatto che il riscaldamento globale può avere sulla produzione di foraggi e delle materie prime che alimentano gli animali stessi. 

LB: Uno dei modi che le piante hanno di far fronte allo stress da caldo è l’aumento del contenuto in lignina, in modo da ridurre la perdita di acqua per evaporazione; questo va però a ridurre la digeribilità dei foraggi, diminuendone l’efficienza alimentare. Dobbiamo quindi pensare al problema del riscaldamento climatico ancora una volta in modo olistico, cercando di affrontarlo da più fronti.

V: Oggigiorno non possiamo parlare di vacche da latte senza affrontare la questione “metano”. Possiamo fare un po’ di chiarezza? Perché queste vacche “cattive” producono metano?

LB: La produzione di metano è un processo assolutamente naturale che fa parte di quelle fermentazioni ruminali che permettono alla vacca di digerire alimenti come la paglia e il fieno, non digeribili dagli animali monogastrici o dall’uomo, e trasformarli in un ottimo prodotto come il latte o la carne.

Sostanzialmente i carboidrati che costituiscono la fibra dei foraggi vengono fermentati dai batteri ruminali a piruvato, che a sua volta può essere convertito in acidi grassi volatili come propionato, acetato o butirrato. Se vengono convertiti a propionato si “conservano” tre atomi di carbonio, mentre la conversione ad acetato (o butirrato, ndr) comporta la “perdita” di un terzo del carbonio sotto forma di CO2. Questo, insieme all’idrogeno e grazie all’azione di batteri metanogeni, viene poi convertito a metano. Per una mole di glucosio fermentato, la conversione ad acetato comporterà il rilascio di 1 mole di CO2 e la formazione di 1 mole di CH4, mentre la conversione a butirrato comporterà il rilascio di 1,5 moli di CO2 e la formazione di 0,5 moli di CH4. La conversione a propionato, invece, non comporta alcuna produzione netta di CO2 o H, e quindi nessuna formazione di CH4.

V: Cosa possiamo fare per ridurre questa produzione di metano?

LB: Considerando che un animale meno produttivo per unità di latte prodotto produce più metano di un animale ad alta produzione, sicuramente massimizzare l’efficienza produttiva è un punto chiave. Pensando globalmente, se potessimo aumentare l’efficienza di tutte le vacche del mondo, avremmo bisogno di meno animali per produrre la stessa quantità di latte. Meno vacche significherebbe produrre meno foraggi e meno foraggi richiederebbero meno terra. A sua volta, meno terra da coltivare significherebbe utilizzare meno trattori e meno carburanti fossili (collegabili alla produzione di latte ndr). È tutto un sistema unico e collegato.

Un’altra differenza è data dal tipo di dieta. Una dieta basata su foraggi produce più metano di una basata su concentrati. Ad esempio, negli Stati Uniti, i bovini da carne nei feed lot, alimentati con una dieta basata su concentrati, producono meno metano per capo di quanto potrebbero produrre se fossero alimentati con una quota foraggera maggiore (in questo caso non si considera la produzione di metano per unità di superficie, ndr).

Molto importante è anche la digeribilità della fibra. Abbiamo visto come le alte temperature causino una riduzione della digeribilità. Lavorare sulla qualità dei foraggi e la loro digeribilità contribuisce anch’esso alla riduzione di metano, in quanto foraggi meno degradabili producono più metano di foraggi altamente degradabili.

In sostanza, una vacca efficiente ad alta produzione è una vacca “eco-friendly”. L’idea diffusa che gli animali negli allevamenti moderni e intensivi siano sotto stress e soffrano è totalmente sbagliata ed antiquata. Va ricordato che solamente un animale sano e non stressato può garantire in modo efficiente una produzione di latte ottimale. Sono solo gli animali che stanno meglio che producono più latte. Questi sono concetti che noi accademici e scienziati dobbiamo imparare a comunicare meglio. I prodotti zootecnici hanno un valore nutrizionale enorme e sono prodotti in modo eco-sostenibile, questo è un concetto che tutti devono conoscere.

V: Cosa possiamo fare quindi in modo pratico per ridurre l’impatto delle nostre vacche sull’ambiente?

LB: Sicuramente possiamo migliorare l’efficienza delle nostre vacche. Sappiamo che ci sono bovine che possono raggiungere una produzione annua di 35.000 kg di latte laddove la media è di 15.000 kg (negli USA, ndr). Abbiamo quindi ancora una lunga strada da percorrere per far esprimere il massimo potenziale genetico alle nostre vacche. Un altro aspetto che può essere migliorato è la riduzione di morbilità e mortalità. Come detto, un animale malato non è efficiente: migliorare le condizioni di allevamento contribuisce a migliorare anche l’efficienza produttiva. La perdita di una vacca in allevamento non è solo una perdita economica ma anche uno spreco di una risorsa alimentare, in quanto questa non potrà essere destinata al consumo.

Combattere lo stress da caldo è un altro aspetto che permette di aumentare l’efficienza della vacca da latte. Una vacca in stress da caldo non solo produce meno latte ma, essendo meno efficiente, avrà un impatto maggiore sull’ambiente. Sicuramente mantenere alta la produttività degli animali zootecnici, che siano vacche, suini o polli, contribuisce a ridurre l’impatto ambientale.

Migliorare tutti gli aspetti dell’allevamento della vacca da latte contribuisce a ridurre la nostra impronta di carbonio, e questo riguarda tutti i tipi di allevamento, da quelli più piccoli a quelli più grandi.

Intervista completa al link: https://youtu.be/SAF3sSpRmMM

 

Rubrica a cura di Vetagro


 

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