La produzione di alimenti di origine animale (AOA) ha impatti rilevanti sull’ambiente e sull’uso delle risorse naturali. D’altro canto, l’attività degli allevatori è cruciale per la società e per il benessere dell’uomo e dell’ambiente.
La crescita demografica e le mutate condizioni economiche di alcuni paesi stanno determinando un forte aumento dei consumi di prodotti di carne e di latte, ponendo il problema di comprendere in che misura e in che modo questa attività può essere svolta senza mettere in crisi il funzionamento del nostro pianeta.
In questo articolo sintetizzo le centinaia di articoli che negli ultimi anni sono stati pubblicati sull’argomento, soffermandomi in particolare sul riscaldamento globale e sull’uso del suolo a livello globale. Nella lettura si incontreranno alcune incongruenze nelle stime. Ciò è dovuto al fatto che sono state prese in considerazione varie fonti. Ciò nonostante le conclusioni tra i vari lavori sembrano andare verso un’unica direzione.
L’importanza degli alimenti di origine animale per l’alimentazione e per la società
Gli AOA, inseriti in una dieta equilibrata, possono dare un contributo fondamentale per conseguire i risultati fissati dalla Organizzazione Mondiale della Sanità e dagli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile della FAO: sconfiggere l’arresto di crescita dei bambini, il basso peso alla nascita, l’anemia delle donne in età fertile, il sovrappeso dei bambini sotto i cinque anni, l’obesità e le malattie legate all’alimentazione e le malattie non trasmissibili (FAO, 2023).
Le proteine degli AOA hanno una elevata qualità nutrizionale. L’indice più aggiornato di valutazione della qualità delle proteine è il Digestible Indispensable Amino Acid Score (DIAAS), che è determinato dalla presenza di amminoacidi indispensabili digeribili in un alimento rispetto ad un alimento di riferimento. Le proteine animali hanno mediamente un DIAAS assai maggiore di quelle vegetali. Una dieta priva di AOA, quale una dieta vegana, non ha un sufficiente apporto di amminoacidi essenziali digeribili per soddisfare i fabbisogni dell’uomo, specie nelle prime fasi di crescita, ed è necessario integrarla.
Oltre a questo, le diete prive di AOA sono carenti di vitamine, microelementi e sostanze bioattive. Al contrario, latte e carne forniscono elementi nutritivi unici e molto importanti, specie nelle prime e nelle ultime fasi della vita. Le carni apportano ferro organico più assimilabile di quello contenuto nei vegetali, e vitamina B12 e Zn facilmente disponibili e sufficienti per soddisfare i fabbisogni dell’uomo. Altrettanto importanti sono il latte e prodotti derivati, per il loro contenuto di Ca e di micronutrienti.
Una caratteristica di alcuni animali d’allevamento, che li rende indispensabili, è la loro capacità di trasformare biomasse non assimilabili direttamente dall’uomo in alimenti di alto valore proteico ed energetico. Il pascolamento o l’allevamento brado permettono di utilizzare ampie superfici di terre da cui non sarebbe possibile ottenere alimenti con altri sistemi. Gli animali d’allevamento inoltre utilizzano residui colturali, sottoprodotti o residui di lavorazione dell’agroindustria, secondo una logica di economia circolare e restituiscono sostanza organica al suolo, mantenendone la fertilità chimica e fisica.
Non va dimenticato infine il ruolo sociale dell’allevamento, che contribuisce al 40% della produzione agricola a livello globale, rappresenta il reddito per 1,3 miliardi di persone e nutre 800 milioni di individui che sono a rischio alimentare.
Produzione alimentare
Dal 1961 ai tempi odierni la produzione di mais è aumentata del 100%, quella del riso e della soia del 150% e quella del frumento del 220%. Ciò è avvenuto grazie ad un aumento della superficie coltivata e delle rese, ottenute grazie alla “Rivoluzione verde” che ha riguardato il miglioramento genetico delle colture, la fertilizzazione azotata e la disponibilità di energia. Analogamente è aumentata la produzione di AOA, che ha interessato soprattutto la carne avicola e i paesi in via di sviluppo.
Secondo le previsioni a medio termine dell’OECD/FAO (2023) la produzione nei prossimi 10 anni dei tre principali cereali dovrebbe aumentare del 10% circa per il frumento e il riso e di circa il 14% per il mais; con un aumento delle rese dell’8-9%. Per lo stesso periodo è previsto un aumento del 14% per la soia e di circa il 10% per le altre oleaginose e le farine proteiche; con un aumento delle rese stimato in 8-9% in 10 anni.
L’aumento delle rese produttive riguarderà in particolare il Nord Africa, l’Africa Subsahariana e il Medio Oriente. È atteso anche un aumento a medio termine della produzione di carne: 9% per quella bovine, 11% per quella suina, 16% per quella avicola e 15% per quella ovina. L’aumento riguarderà in larga parte la produzione avicola dei paesi del Sudest Asiatico e la Cina, per effetto sia di un aumento del numero dei capi allevati sia di un miglioramento delle tecniche produttive. Per il latte è previsto un aumento del 17%, basato in gran parte sull’aumento del numero di capi allevati, e soltanto nei paesi sviluppati sull’aumento della produttività.
Ruolo dell’agricoltura e dell’allevamento nel riscaldamento globale
I dati più recenti forniti dall’IPCC attribuiscono all’agricoltura, foreste e altri usi del suolo un contributo del 22% rispetto alle quasi 59 Gt (milioni di tonnellate) di CO2eq complessive del 2019.
A livello globale, la sola agricoltura (coltivazione e allevamento) contribuisce per il 12,7 e il 14,8% alle emissioni di GHG. Per soddisfare i fabbisogni alimentari di poco meno di 10 miliardi di esseri umani nel 2050, l’aumento di produzione e consumo alimentare, in assenza di innovazioni tecnologiche in grado di migliorare le rese, porteranno ad un peggioramento della pressione ambientale: rispetto al 2010 più 80% circa per le emissioni di GHG e più 70% circa di occupazione del suolo agricolo (Springmann et al., 2018).
Nell’ambito del settore agricolo, l’allevamento animale ha un ruolo fondamentale rispetto agli effetti sull’ambiente. Partecipa al riscaldamento globale a causa della emissione diretta in atmosfera di gas ad effetto serra (GHG) quali il metano (CH4), il protossido d’azoto (N2O) e l’anidride carbonica (CO2).
L’allevamento causa anche emissioni indirette, determinate dal consumo e dalla preparazione dei fattori di produzione, che comportano l’uso di combustili fossili.
Nel complesso, l’allevamento animale è responsabile di un terzo delle emissioni antropiche di azoto, del 15% di quelle di GHG, e dell’occupazione di due terzi delle terre coltivate. I bovini contribuiscono per il 62% alle emissioni di GHG degli animali d’allevamento, mentre ai suini, avicoli, bufali e piccoli ruminanti viene attribuito il 14, il 9, l’8 e il 7% rispettivamente. A seconda dell’epoca in cui è stata effettuata la stima, dei dati utilizzati e del metodo di calcolo, all’allevamento è stata attribuita un’emissione che va da 7,1 a 14,7 Gt di CO2eq e un contributo al riscaldamento variabile da 14,5% a 28,1%. Il gas ad effetto serra principale del settore zootecnico è il CH4, che contribuisce per l’80% alle emissioni di CH4 da agricoltura. Il 90% del CH4 da allevamento è enterico mentre il rimanente è da deiezioni.
La temperatura terrestre è aumentata di circa 10 °C dal 1850-1990 e il 2017 (+1,18o °C secondo il NOAA nel 2023). Negli ultimi decenni il processo ha avuto una forte accelerazione; infatti, dal 2006 al 2015 l’aumento è stato di 0,87 °C, e i suoi effetti sono già percepibili in ogni area del pianeta.
Secondo una prima stima del contributo diretto del settore zootecnico al riscaldamento globale effettuata da Reisinger e Clark (2017), dal 1850 al 2010 la temperatura della superficie terrestre è aumentata di 0,81 °C; di cui 0,11 °C (14%) sono dovuti al CH4 prodotto dagli animali allevati, 0,04 °C (5%) all’N2O delle deiezioni e 0,03 °C (4%) alla CO2 dovuta all’espansione dei pascoli. Espresso in forza radiante, ossia l’incremento della capacità di trattenere la frazione infrarossa riflessa dalla terra in funzione della concentrazione di GHG nell’atmosfera, l’emissione di tutti i GHG ha determinato 2,9 W/m2 nel 2011 in riferimento al 1750; la quota riferibile al CH4 è stata di 0,97 W/m2 di cui 30% da allevamento. In altri termini, il 10-9% dell’aumento della forza radiante è stato causato dall’aumento di concentrazione in atmosfera del CH4 emesso dagli allevamenti.
Con il Protocollo di Kyoto è stato definito un sistema di contabilizzazione delle emissioni di GHG di ogni singolo paese aderente. Questo sistema si basa sulla capacità di trattenere l’energia dei raggi solari di ogni singolo gas rispetto all’anidride carbonica, attribuendo ad esso uno specifico valore: il Global Warming Potential (GWP). Questo sistema di monitoraggio è utile per il contabilizzare le emissioni di GHG dei vari paesi aderenti al Protocollo di Kyoto, ma ha mostrato forti limiti per quanto concerne la stima del contributo al riscaldamento globale dei vari settori economici, perché non tiene conto del diverso comportamento temporale dei GHG. La CO2 ha un tempo di permanenza in atmosfera molto lungo, dell’ordine di un migliaio di anni, l’N2O di circa 120 anni e il CH4 biogenico di appena 10 anni. Ciò significa che riducendo le emissioni di CH4 la sua concentrazione in atmosfera si riduce nel giro di qualche anno, mentre la riduzione delle emissioni di CO2eq non si traduce in una riduzione della sua concentrazione se non dopo molti anni.
Per superare tale inconveniente Shine et al. (2005) hanno proposto un sistema, chiamato GWP*, che combina le caratteristiche dei gas che si accumulano in atmosfera con quelle che hanno un tempo di permanenza breve, per stimare l’evoluzione dell’effetto sulla temperatura su un determinato lasso di tempo.
Questa differenza è importante soprattutto per l’allevamento dei ruminanti che rappresentano, assieme al settore energetico, la principale fonte di emissioni di CH4. Tuttavia, bisogna considerare che se le emissioni di CH4 aumentano, invece di diminuire, il suo contributo al riscaldamento globale è esponenziale. Questo è esattamente ciò che sta succedendo: la concentrazione atmosferica di CH4, dopo una pausa tra il 2000 e il 2005, ha ricominciato a salire con un trend in forte ascesa perché il numero globale di bovini è in continua ascesa, aumentano le emissioni del settore energetico o a causa di altri fenomeni innescati dallo stesso cambiamento climatico, come il permafrost carbon feedback, ossia il rilascio di CH4 che si sprigiona a seguito dello scioglimento dei ghiacci.
Le previsioni a medio termine (periodo 2023-2032) dell’OECD/FAO (2023) indicano un aumento delle emissioni di GHG del settore agricolo nel mondo del 7,5% a fronte di un aumento del 13% della produzione agricola. L’incremento medio annuo previsto è inferiore a quello degli anni precedenti, in considerazione del miglioramento dell’intensità di emissione che si attende. L’incremento annuo globale per il decennio 2023- 2032 dovrebbe essere inferiore a quello del decennio precedente. L’aumento delle emissioni sarà dovuto principalmente ai bovini e all’uso dei fertilizzanti di sintesi. Secondo lo stesso report, si assisterà ad andamenti molto diversi nelle varie parti del mondo: in alcune l’aumento delle emissioni di GHG da agricoltura si attenuerà (Europa e Asia Centrale, America Latina e Caraibi), in altre invece l’incremento sarà più forte (Asia Meridionale, Africa Subsahariana, Medio Oriente e Nord Africa, Nord America).
Con l’attuale andamento dei consumi alimentari e con le attuali pratiche agricole, alla fine del secolo, a causa dell’aumento della popolazione, il solo consumo di cibo potrebbe comportare un incremento della temperatura di 0,7-0,9 °C rispetto ai valori odierni, causato per il 60% dal CH4 e per il 20% sia dal N2O sia dalla CO2. Evidentemente, questo aumento è insostenibile e impone per neutralizzarlo l’adozione di varie azioni, non solo sul lato della produzione. L’applicazione delle più aggiornate strategie di mitigazione consentirebbe di ridurre le emissioni di CO2eq (con orizzonte di 100 anni) causate dalla produzione della carne di ruminanti, del latte e della carne dei non ruminanti del 35%, 30% e 10% rispettivamente, permettendo di ridurre di 0,2° C l’aumento di temperatura. Alle azioni riguardanti la fase di produzione si devono aggiungere quelle per la decarbonizzazione dell’agricoltura, il comportamento alimentare, gli sprechi e le perdite di alimenti. La decarbonizzazione del settore alimentare apporterebbe una riduzione di 0,15 °C. Un comportamento alimentare più sostenibile permetterebbe di evitare altri 0,19 °C. Ulteriori 0,04 °C potrebbero essere guadagnati se si riducessero gli sprechi alimentari almeno del 50%. La riduzione delle perdite di alimenti nel corso della produzione, della conservazione e del trasporto permetterebbe il contenimento di altri 0,1 °C.
La sfida che si pone all’umanità di contrastare il riscaldamento globale obbliga a mettere in atto strategie di mitigazione in tutte le attività dell’uomo, comprese quelle riguardanti la produzione e il consumo di AOA. Secondo Clark et al. (2020), per contenere l’aumento di temperatura terrestre entro 1,5 °C rispetto all’era preindustriale occorre un rapido e ambizioso cambio in tutte le attività umane. Per raggiungere l’obiettivo di contenimento di 2 °C potrebbe essere sufficiente una modifica meno ambiziosa del settore alimentare, ma a condizione che le emissioni di GHG da tutti gli altri settori siano azzerate. Gli autori hanno stimato l’effetto sulle possibilità di raggiungimento degli obiettivi climatici mediante cinque strategie di mitigazione sul lato della domanda e della produzione alimentare:
- adozione di una dieta a base di alimenti vegetali, con un moderato ricorso a cibi di origine animale;
- ottimizzazione delle calorie per avere una dieta più sana;
- aumento della produzione attraverso il miglioramento genetico e delle tecnologie agrarie;
- riduzione degli sprechi e delle perdite alimentari;
- riduzione dell’intensità di emissione di GHG attraverso il miglioramento dell’efficienza produttiva.
L’adozione parziale e graduale di queste strategie permetterebbe una riduzione delle emissioni cumulative tra il 14 e il 48%. Se tutte le cinque strategie fossero implementate contemporaneamente nella misura del 50%, le emissioni cumulative si ridurrebbero del 63% nel 2100. Con l’adozione piena e immediata, per il 2100 si avrebbero valori di emissione marginalmente negativi, per effetto di una riduzione delle emissioni ed un aumento del sequestro di carbonio.
È possibile dunque ridurre l’intensità di emissione del CH4 con diverse strategie, che riguardano sia il miglioramento dell’efficienza con cui le biomasse sono trasformate in cibo, sia la riduzione della produzione di questo gas, ma l’intensificazione produttiva non è sufficiente a concorrere a rispettare l’obiettivo ambientale e si rende necessaria una modifica della dieta che deve orientarsi verso alimenti vegetali a più bassa impronta di carbonio. Dal lato della domanda, c’è una ampia e consolidata letteratura che dimostra che gli alimenti vegetali hanno un’impronta di carbonio più bassa di quella degli alimenti animali. Anche tra i prodotti zootecnici esistono larghe differenze: da 206 g di CO2eq per grammo di proteina di carne bovina a 23 g per la carne di anatra.
Esistono ampie differenze tra le impronte di carbonio degli AOA: la carne bovina comporta l’emissione di una quantità di GHG nettamente superiore a quella, ad esempio, della carne di pollo, sia perché il pollo ha un indice di conversione inferiore a quello di un bovino sia perché produce molto meno CH4. Tuttavia, è limitativo considerare soltanto questo aspetto. Se si considera l’occupazione di suolo naturale per fare posto a seminativi, la sostituzione dei ruminanti con i monogastrici determina un aumento delle emissioni, che ammonterebbe a 3 Gt di CO2eq. Circa 270 Mha di foresta dovrebbero, infatti, essere convertiti a seminativo, provocando l’emissione di 5,4 Gt di CO2eq, mentre si eviterebbero 2,5 Gt di CO2eq per la riduzione delle emissioni di CH4.
La riduzione della presenza di prodotti animali nella dieta può portare a un significativo abbassamento delle emissioni di GHG e di occupazione del suolo. L’impronta di carbonio di un vegano è pari al 25,1% di quella di un forte mangiatore di carne (oltre 100 grammi consumati al giorno), al 25,1% del consumo del suolo, al 46,5% dell’uso dell’acqua, al 27% dell’eutrofizzazione e al 34,3% della perdita di biodiversità (Scarborough et al., 2023).
Tuttavia, secondo Ritchie et al. (2018), gran parte delle linee guida dei vari paesi, redatte con criteri prettamente nutrizionali, sono inadeguate rispetto al conseguimento degli obiettivi climatici. Secondo questi autori, infatti, per mantenersi al di sotto dell’aumento di 2 °C le emissioni di GHG nel 2100 dovrebbero ridursi a 23 Gt di CO2eq, e per avere almeno il 66% di possibilità di arrivare a 1,5 °C le emissioni dovrebbero ridursi a 13 Gt di CO2eq. Nel primo caso le emissioni annue pro capite dovrebbero essere di 2365 kg di CO2eq, nel secondo caso di 1337 kg di CO2eq. Tutte le diete suggerite nelle varie linee guida nutrizionali esaminate stanno al di sotto del primo limite e quasi tutte al di sotto del secondo limite. Tuttavia, bisogna tener conto anche degli altri settori economici non alimentari. Per quanto riguarda il limite di 1,5 °C solo le line guida indiane, assimilabili a una dieta vegana, sono compatibili. Mentre, per il limite di 2 °C le linee guida sono compatibili solo a patto che si adottino programmi molto ambiziosi di riduzione delle emissioni nei settori non-alimentari.
Superfici destinate all’agricoltura e all’allevamento
In varie aree geografiche la popolazione non coincide con la disponibilità di terra. Questo disequilibrio viene superato dal commercio, la cui importanza è aumentata enormemente negli ultimi decenni. Dal 1995 ad oggi le esportazioni globali di prodotti agricoli e alimenti sono praticamente raddoppiate, con benefici per la sicurezza alimentare, ma anche con effetti negativi per l’ambiente. Per alcuni paesi l’approvvigionamento sui mercati internazionali è indispensabile per garantire alla popolazione il minimo indispensabile; in alcuni paesi sviluppati o emergenti il commercio, invece, serve a mantenere consumi alimentari elevati, anche in mancanza di basi produttive sufficienti. Secondo alcuni autori, con gli attuali livelli di produzione agricola e di consumo alimentare si superano i limiti entro i quali il sistema terra è in grado di tollerare gli effetti negativi dell’attività umana e di evitare l’esaurimento delle risorse rinnovabili, che se fossero rispettati potrebbero assicurare una dieta bilanciata ad appena 3,4 miliardi di esseri umani. Per assicurare l’alimentazione di oltre 10 miliardi di esseri umani si rende necessaria la trasformazione verso modelli di produzione e di consumo più sostenibili.
Le terre emerse, escludendo l’Antartico, ammontano a circa 13 Gha. I dati riferiti al 2019 indicano che l’area destinata all’agricoltura ammonta a circa 4,8 Gha; le foreste occupano 4,1 Gha; mentre le altre superfici sterili, desertiche, urbane o occupate da infrastrutture ammontano a 4,1 Gha. Di quelle destinate all’agricoltura, le aree coltivate interessano 1,6 Gha e quelle coperte da praterie e pascoli permanenti 3,2 Gha. La superficie agricola è diminuita dell’3% rispetto al 2000. La superficie dedicata all’alimentazione del bestiame è pari a 2,5 Gha, cioè oltre il 50% circa della superficie agricola e il 20% delle terre emerse.
I consumi pro capite di proteine sono aumentati in tutti i continenti negli ultimi decenni, con significative differenze tra le varie regioni. In particolare, gli abitanti della Cina hanno aumentato il loro consumo di proteine del 24%, rispetto al 4,7% di quelli del Nord America e dell’Europa.
Il peso nella dieta delle proteine animali è aumentato mediamente a livello globale ma in alcune regioni il contributo delle proteine animali è rimasto stabile, come in Europa e Nord America, mentre in altre, come in Asia, in particolare la Cina, l’incremento è stato assai significativo.
Dagli anni ’50 ad oggi la popolazione mondiale è cresciuta da 2,5 a 7,9 miliardi di abitanti, e questo è sicuramente un motore potente che sostiene il consumo di prodotti di origine animale. Un altro motore di crescita dei consumi è il cambiamento delle abitudini alimentari. Il consumo pro capite di carne bovina è diminuito in generale, ma in molti paesi asiatici è aumentato considerevolmente. La diminuzione del consumo di carne suina ha riguardato soprattutto i paesi dell’Estremo Oriente. Per tutti gli altri alimenti di origine animale c’è stato invece un forte e generalizzato aumento dei consumi per individuo.
Il forte aumento del consumo di proteine animali, anche bovine, nelle tre regioni più abitate dell’Asia, è probabilmente avvenuto sulla spinta dell’urbanizzazione e delle migliorate condizioni economiche della popolazione che, grazie al maggior reddito a disposizione, si orienta verso alimenti di maggior valore economico e nutrizionale. Un altro fenomeno significativo è la riduzione del consumo di proteine di carne bovina registrato nelle Americhe, in Europa e in Oceania, dove i consumi sono attualmente comunque elevati, a favore delle altre fonti proteiche animali. In questi paesi la motivazione alla base di questo fenomeno è probabilmente l’attenzione della popolazione agli aspetti salutistici e ambientali.
Con l’aumento del consumo di AOA è aumentato il numero degli animali allevati, con gli avicoli che stanno avendo un incremento esponenziale. A tale aumento si accompagna inevitabilmente un aumento dei prodotti vegetali che sono destinati all’alimentazione del bestiame (OECD/FAO, 2023) e un’espansione dei pascoli e delle terre messe a coltura.
Per cercare di prevedere quali saranno i consumi futuri, bisogna considerare che nel 2050 la popolazione mondiale si aggirerà attorno ai 9,7 miliardi di persone, di cui un terzo vivrà in città e 3 miliardi raggiungeranno la classe media nel 2030. Il ritmo di crescita sembra diminuire, visto che secondo OECD/FAO (2023) dal 2023 al 2032 la popolazione mondiale crescerà da 7,9 a 8,6 miliardi, con un tasso dello 0,8% rispetto all’1,1% dell’ultimo decennio. Già oggi però c’è un gap alimentare, dovuto soprattutto a una iniqua distribuzione del cibo, che interessa 750 milioni di esseri umani che soffrano la fame e 2,4 miliardi che sono esposti a modesta o severa insicurezza alimentare (FAO, IFAD, UNICEF, WFP, WHO, 2023).
Una domanda cruciale da porsi è: quale sarà il fabbisogno di proteine animali nei prossimi anni?
Ederer et al. (2023) hanno parzialmente risposto a questa domanda. Nel loro lavoro tengono conto dell’apporto medio di proteine giornaliero (75 o 100 g pro-capite), del livello di spreco e del livello di sovraproduzione. Nel caso in cui sono adottati i valori maggiori, il fabbisogno di proteine nel 2050 dovrebbe essere 2,36 volte quello attuale; con i valori minori, il fabbisogno dovrebbe crescere solo 1,18 volte. Ipotizzare quale sarà l’occupazione del suolo da qui al 2050 è difficile perché dipenderà molto dalle politiche ambientali concordate e fatte rispettare dai paesi della Terra. Si possono però riportare i paletti fissati in vari studi per non superare alcuni limiti che potrebbero mettere a repentaglio la vita di molte persone.
Le previsioni per il periodo 2023-2032 dell’OECD/FAO (2023) indicano un aumento delle terre coltivate del 15% a spese delle praterie e dei pascoli, senza variazioni significative della superficie agricola, con qualche importante eccezione. Nel caso dell’America Latina è atteso un allargamento della superficie messa a coltura a scapito delle foreste.
Secondo Bajzel et al. (2014), con la crescita di popolazione prevista e con l’adozione delle tecnologie disponibili all’epoca della stesura dell’articolo, nel 2050 le aree coltivate dovrebbero espandersi del 5% e quelle al pascolo del 15%, a scapito delle foreste, portando ad un aumento del 42% delle emissioni di GHG a causa della deforestazione.
Il World Resources Institute ha calcolato che la differenza tra la superficie agricola utilizzata nel 2010 e quella che sarà necessaria nel 2050 ammonterà a 593 Mha, considerando un tasso di crescita pari a quello dei decenni precedenti. Secondo lo stesso studio, per colmare il gap tra i fabbisogni di energia alimentare tra il 2010 e il 2050, pari a 15000 trilioni di calorie l’anno, è necessario aumentare la produzione senza aumentare la superficie agricola e ridurre la domanda. Entrambe le strategie implicano, secondo gli autori, una riduzione dei consumi degli AOA.
Secondo Conijn et al. (2018) il rapporto tra terra disponibile e fabbisogno di terra da destinare alla produzione di alimenti passerà da 0,97 del 2010 a 1,7 nel 2050. Cosa che è ovviamente insostenibile. L’attuale andamento dei consumi alimentari richiede l’aumento della produzione di alcuni alimenti, che porterebbe a un aggravamento degli effetti negativi del sistema produttivo alimentare sull’ambiente. Secondo Campbell et al. (2017) per l’allevamento entro il 2050 sarà necessario liberare 1,0 Gha, accentuando ulteriormente la pressione sull’ambiente. La FAO (2011) ha calcolato che, se le rese dovessero rimanere quelle attuali, l’agricoltura dovrebbe estendersi di ulteriori 3,2 Gha oltre i 5 Gh attuali, determinando la distruzione delle foreste e delle savane attualmente esistenti. Al contrario la terra necessaria potrebbe essere la stessa se le rese aumentassero allo stesso ritmo mantenuto sino adesso. Secondo questo calcolo le rese, base 2010, dovrebbero crescere del 48% sino al 2050.
L’attuale andamento dei consumi alimentari porterà all’ampliamento della superficie destinata alla produzione agricola e alla diminuzione di suoli naturali. Le aree più ricche di biodiversità sono quelle tropicali del Centro e Sud America, del Centro Africa, l’Asia Meridionale e il Sudest Asiatico. Queste aree sono quelle più esposte alla pressione esercitata dalla produzione di alimenti zootecnici, sia per la produzione di mangimi sia per l’espansione dei pascoli.
La perdita di biodiversità corre ad un ritmo del 4-6% anno, interessando aree ricche di specie vegetali e animali in Brasile, Indonesia, Africa e persino USA e Canada. Con un modello di consumi come quello attuale (BAU) l’espansione della produzione agricola porterebbe entro il 2100 a una ulteriore perdita del 9% (quasi 1 Gha) dei suoli naturali, localizzati principalmente nei tropici. Con una significativa riduzione dei consumi di prodotti animali si otterrebbe invece un recupero del 7% delle aree naturali. Lo studio di Henry et al. (2019) mette però in evidenza che il recupero di aree naturali non riguarderebbe solo i tropici ma anche altre regioni del globo, quali ad esempio il Nord America e l’Europa. Le aree coltivate, con lo scenario BAU, aumenterebbero del 28% nei tropici per produrre alimenti per l’uomo e gli animali. Con uno scenario che prevede una riduzione del 95% dei prodotti forniti dai ruminanti l’espansione è del 38%, perché sarebbe necessario produrre alimenti per i monogastrici e si potrebbero usare solo marginalmente i pascoli. Con una dieta con ridotto ricorso ad AOA sarebbe comunque necessario un allargamento delle coltivazioni del 27% a scapito sia delle foreste sia dei pascoli.
Non è possibile aumentare la produzione allargando la superficie coltivata a scapito delle foreste, senza tener conto delle ripercussioni sul clima; questa azione porterebbe ad un’accelerazione delle emissioni di gas ad effetto serra, ad un aumento della temperatura e ad effetti negativi sulla produzione agricola generale.
Quali soluzioni?
Da quanto visto sinora, la soluzione per assicurare proteine a quasi 10 miliardi di esseri umani sembrerebbe essere quella di ridurre ai minimi termini il consumo di AOA in tutte le regioni del mondo. Ma, a parte gli ostacoli economici e sociali di una soluzione di questo genere, quale sarebbe la sorte dei circa 3 Gha di praterie e pascoli che per la maggior parte non possono essere utilizzati se non con l’allevamento? E perché privarsi di una risorsa che fornisce alimenti di alto valore nutrizionale? Quali possono essere delle soluzioni plausibili?
Intensificazione sostenibile
Considerato che la superficie coltivabile continuerà a diminuire, a causa dell’urbanizzazione, salinizzazione e desertificazione, e che, secondo le stime della FAO, il fabbisogno alimentare della popolazione mondiale dovrebbe aumentare del 70% nel 2050 rispetto al 2015, è necessario un significativo miglioramento della produttività, facendo attenzione a non danneggiare la biodiversità e gli ecosistemi. Con la diminuzione della superficie annua necessaria per alimentare una persona, è possibile alimentare più persone con la stessa superficie. Secondo la FAO il miglioramento della produttività dei sistemi zootecnici è tra le principali strategie per raggiungere gli obiettivi dei Sustainable Development Goals, specie nelle aree geografiche dove la produttività è bassa e ci sono più ampi margini di miglioramento.
Il miglioramento dell’efficienza produttiva consentirà di produrre la stessa quantità di cibo riducendo il numero degli animali. Il processo dovrebbe riguardare tutte le produzioni e tutte le aree geografiche (OECD/FAO, 2023).
Il miglioramento della produttività per ettaro permette di aumentare la capacità del suolo di sequestrare il carbonio dell’atmosfera e produrre la stessa quantità di alimenti. Produrre più vegetali, carne e latte per ettaro aumenta la capacità di sequestro perché viene risparmiato suolo da destinare ai boschi o altri habitat naturali.
La principale obiezione nei riguardi dell’intensificazione sostenibile è che all’aumento dell’efficienza nella realtà non corrisponde un risparmio di terra, perché gli agricoltori sono spinti ad all’allargare la coltivazione alle aree che potenzialmente si renderebbero libere. Pratzer et al. (2023) hanno infatti osservato che l’intensificazione non ha indotto una riduzione della deforestazione nelle aree tropicali interessate dalla produzione di commodities.
Le perdite e gli sprechi alimentari
Sul lato della domanda, oltre alla necessità di riequilibrare la dieta, specie nei paesi più ricchi, esiste il problema di ridurre le perdite di alimenti che si verificano dalla pre-raccolta al confezionamento, e gli sprechi che si verificano nella fase di vendita e di consumo. Queste perdite ammontano a circa un terzo degli alimenti prodotto secondo la OECD/FAO (2023) e la loro riduzione di almeno la metà permetterebbe di ridurre la pressione del sistema alimentare sull’ambiente.
L’economia circolare
Una dieta priva di AOA, in particolare di ruminanti, non garantisce la sicurezza alimentare, perché impedisce l’utilizzazione dei pascoli, delle praterie e di sottoprodotti o scarti del sistema agro-industriale. Sarebbe più efficace la strategia “Ecological leftovers” basata sull’economia circolare che prevede, da una parte un limite alla produzione animale e, dall’altra, l’utilizzo quasi esclusivo dei prati e delle praterie e dei sottoprodotti e degli scarti. Il sistema consentirebbe di apportare da 9 a 23 g/d di proteina animale su un fabbisogno giornaliero fissato 50-60 g. Il recupero stesso dei residui colturali e l’utilizzo completo dei sottoprodotti della lavorazione degli alimenti zootecnici potrebbero liberare sino a 100 Mha (Sandström et al., 2022).
Proteine alternative
Per assicurare un’alimentazione adeguata ad un numero crescente di abitanti della terra, con risorse limitate, è immaginabile introdurre una quota di sostituti vegetali della carne o del latte o di novel food ottenuti da alghe, batteri, funghi e insetti oppure attraverso la coltura cellulare.
I prodotti a base vegetale che imitano il latte e la carne hanno ormai una certa diffusione, benché presentino ancora alcuni limiti, come un basso valore nutrizionale e una preparazione ancora troppo elaborata nel caso della carne. Si stanno anche affacciando sul mercato proteine a base di insetti, che presentano una buona digeribilità e una biodisponibilità di microelementi, come Fe, Zn e Ca, simile a quella della carne (Parodi et al., 2018).
Sono numerosi gli studi che hanno preso in esame gli effetti sull’ambiente delle proteine alternative a quelle dei prodotti animali. Tutti sono concordi che si può ottenere una riduzione molto significativa sia delle emissioni di GHG sia di uso del suolo arabile introducendo nella dieta novel food, come latte e carne ottenuti attraverso la coltura cellulare, alghe, batteri e funghi, insetti e sostituti vegetali della carne o del latte. Solo la carne di pollo può teoricamente competere per emissioni di GHG e occupazione di suolo rispetto ai prodotti vegetali o ai novel food, ma soprattutto gli studi riguardanti gli alimenti ottenuti dalla coltivazione delle cellule o dalle fermentazioni batteriche sono per lo di stime ottenute da dati di laboratorio, che per tale motivo non possono tener conto della realtà industriale, sia in termini di volume produttivo né, a maggior ragione, delle fonti energetiche che saranno utilizzate per la digestione delle materie prime e per alimentare i reattori ove le proteine sono formate.