La richiesta di Slow Food: non penalizziamo gli allevamenti di piccola scala di aree marginali, che fanno alpeggio o allevano in estensivo.

Si è svolta a Fano nei giorni scorsi l’assemblea annuale di Veterinari Senza Frontiere (VSF), l’associazione che si occupa in Italia e nel mondo di supporto agli allevatori di piccola scala.

Alcuni di loro collaborano da anni con Slow Food alla realizzazione dei progetti di salvaguardia della biodiversità, fornendo soluzioni e sostegno tecnico agli allevatori di piccola scala dei Presìdi Slow Food in Italia, Africa, Europa dell’est. Con loro Slow Food partecipa al progetto europeo Ppilow, per diffondere una maggiore consapevolezza sul benessere degli animali. Insieme ad altri veterinari, agronomi, zootecnici europei, i tecnici di VSF hanno collaborato al documento di posizione di Slow Food sull’allevamento.

Anche Barbara Nappini, presidente di Slow Food Italia, ha partecipato alla tavola rotonda che è seguita all’assemblea, incentrata sui sistemi di certificazione del benessere animale che il governo italiano sta approntando per valutare le aziende zootecniche italiane, per riportare la posizione dell’associazione sulle metodologie di valutazione scelte e sugli effetti che questi potrebbero generare su allevamenti di qualità di piccola scala o in estensivo, spesso localizzati in aree di montagna o marginali.

La nuova PAC, che erogherà i contributi europei agli allevatori italiani fino al 2027, vincola l’accesso ai pagamenti anche al rispetto del benessere animale rilevato nelle aziende zootecniche europee in linea con quanto stabilito dalla strategia Farm to Fork. L’Italia ha sviluppato il Classyfarm che prevede check list di valutazione delle aziende.

Le check-list, – dichiara l’associazione – elaborate per le realtà dei sistemi zootecnici intensivi, che rappresentano il 20% delle aziende ma che allevano l’80% dei bovini, suini, avicoli e ovicaprini del nostro Paese, quando sono testate nei sistemi di allevamento estensivi e di piccola scala non danno risultati adeguati. Molte delle domande delle check list si interessano alle caratteristiche strutturali e gestionali dell’azienda, come ad esempio la disponibilità di sistemi di allarme, di impianti di ventilazione, il ricorso a nutrizionisti e a procedure scritte per le routinarie operazioni di gestione degli animali, ecc. Dotazioni spesso assenti e poco utili nelle aziende che praticano estensivo e di piccola scala.”

L’allevamento multispecie (dove animali di specie diverse coesistono) è considerato come un fattore critico, ma nelle aziende di piccola scala e in estensivo i cani da guardianìa sono indispensabili, spesso le mandrie sono miste bovini-ovicaprini, e sugli alpeggi i capi aziendali entrano inevitabilmente in contatto con animali di altri proprietari.

I criteri cosiddetti animal-based (la presenza di zoppìe, la frequenza di mastiti, la mortalità, la longevità, l’eventuale scarsa fertilità e altri) sarebbero quelli più adeguati per comprendere il livello di benessere animale in un’azienda, a prescindere dalle strutture presenti (visto che differiscono molto tra estensivo o intensivo, pianura e montagna). L’esperienza dei rilevatori, riportata nell’incontro a Fano, evidenzia però che nelle check list Classyfarm ai criteri animal-based non è attribuito un peso adeguato nella valutazione finale.

Il risultato è che le aziende estensive e di piccola scala che praticano alpeggio o pascolo, rischiano di non avere accesso alla certificazione di benessere animale e, in prospettiva, potrebbero non godere di contributi europei, che con la nuova strategia Farm to Fork premiano (giustamente) gli allevatori più impegnati a garantire benessere ai propri animali. Ad esempio, dei circa 130.000 allevamenti di bovini del nostro Paese, approssimativamente 100.000 hanno meno di 50 capi, e questo dato dà l’idea dell’impatto sociale e ambientale che potrebbe avere una valutazione che non tenga conto a sufficienza delle peculiarità dei vari sistemi.

Le migliaia di aziende zootecniche che nel nostro Paese presidiano territori marginali – l’Italia è al 70% “terre alte” -, contrastano con il loro lavoro il degrado ambientale, pascolano i propri animali buona parte dell’anno e producono eccellenze alimentari artigianali. Questi allevamenti non possono essere valutati con gli stessi parametri degli allevamenti da centinaia o migliaia di capi della pianura.