Tornano, a cicli ricorrenti, discussioni e polemiche sul ruolo della carne e in generale degli alimenti di origine animale nella dieta dei consumatori. È ancora fresca nella memoria la controversia suscitata dalla pubblicazione dell’Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità) sulle carni rosse e sul rischio posto dai nitriti usati come additivi. In quell’occasione, come scienziati e ricercatori, giungemmo alla conclusione del consumo moderato, senza demonizzare i prodotti di salumeria e le carni rosse in particolare. È però evidente che se la comunicazione è lacunosa e se i media rilanciano le notizie senza il corretto approfondimento, la miscela che ne risulta può essere esplosiva e danneggiare sia consumatori che i produttori.

Questa volta l’attenzione dei media si sta concentrando sulla recrudescenza di casi di Covid-19 e su focolai con apparente origine da stabilimenti di macellazione. Le notizie più drammatiche in tal senso giungono dal lontano Brasile, anche se delle avvisaglie si erano avute già un paio di settimane fa dalla Germania e, sebbene in parte edulcorate dalla stampa, anche dagli Stati Uniti. In Brasile, per voce di un procuratore distrettuale, Priscilla Dibi Schvarcz, i macelli sono dei punti di contaminazione per Covid-19 a causa delle condizioni che obbligano gli operai a lavorare a stretto contatto. Per esempio, la maggiore prevalenza di Covid-19 sembra essere localizzata nello stato Rio Grande do Sul dove c’è la maggior concentrazione di macelli industriali. Ancora più recente è la notizia diramata dal «The telegraph» il 19 giugno 2020, su un cluster presso lo stabilimento Kober a Cleckheaton nel West Yorkshire, a sud di Leeds. L’impianto di proprietà Asda, è stato chiuso dopo il riscontro di alcuni casi di Covid-19.

L’industria della carne in Italia sta fronteggiando l’emergenza in maniera egregia, assicurando l’approvvigionamento della popolazione in maniera continua grazie anche al supporto dei sevizi veterinari che durante l’emergenza hanno continuato le attività di controllo, audit, supervisione e vigilanza. Con le repentine disposizioni temporanee per l’esecuzione dei controlli ufficiali nell’emergenza da Covid-19, i servizi veterinari hanno coniugato efficienza e sicurezza al servizio dei produttori e dei cittadini.

Per anni la critica ha puntato il dito contro l’industria della carne anche a causa di pesanti e fuorvianti considerazioni sulla salute dei lavoratori, sul benessere animale e sugli aspetti ambientali. Ora è l’elevata incidenza del Covid-19 tra gli operai dei macelli a mettere di nuovo l’industria della carne sotto riflettori e c’è già chi parla di nuova schiavitù. In effetti il settore fa a volte affidamento su contratti stagionali che in Europa sono soprattutto appannaggio di migranti. Sono operai che lavorano fino a 50 ore alla settimana e che vivono in molti in piccoli appartamenti, forniti dalle agenzie che subappaltano il lavoro, dove il contagio da Covid-19 potrebbe essere più facile. Al netto delle considerazioni epidemiologiche e di trasmissione del virus, è evidente che si tratta di un problema socio-economico.

Chi attribuisce invece l’insorgenza di questi focolai alle condizioni di lavoro e chi descrive i macelli come luoghi malsani, forse ha in mente le condizioni disagiate dei migranti lituani dei primi anni del ‘900 nei macelli di Chicago, raccontante da Upton Sinclair nel romanzo «La giugla» del 1906.

Enrico Somaglia, delegato del segretariato dell’European Federation of Food, Agricolture and Tourism Unions, intervistato da Financial Times, ha ammesso che in certi paesi, anche dell’Unione, alla base delle considerazioni critiche ci siano a volte le condizioni di lavoro disagiate e la logica dei subappalti per la manodopera o i contratti di lavoro temporanei.

In piena crisi da coronavirus, già nel mese di Marzo scorso, le associazioni del mondo zootecnico italiano hanno protestato in maniera decisa con un documento indirizzato alla televisione di Stato e al governo della Repubblica. Gli estensori del documento, i Presidenti delle associazioni del mondo zootecnico italiano, hanno segnalato quello che a loro avviso era un pericoloso atteggiamento di alcuni programmi televisivi, dovuto alla creazione di un ipotetico collegamento tra la zootecnia come causa all’origine dell’epidemia di coronavirus. Nel documento sono state citate alcune trasmissioni televisive in cui il sistema zootecnico è stato indicato come maggiore responsabile dell’inquinamento terrestre e dove l’allevamento del bestiame è stato stigmatizzato al punto che il telespettatore potesse essere indotto a credere che il cattivo allevatore fosse la norma e non l’eccezione. Nel documento delle associazioni del mondo zootecnico italiano si legge anche che, in un famoso e molto seguito programma televisivo, i conduttori e gli ospiti hanno argomentato al punto da “arrivare a suggerire pericolose e insensate associazioni fra coronavirus e produzione e consumo di carne”. Il timore delle associazioni è che i consumatori, di fronte a queste affermazioni, reali o larvate, corroborate da dati o soltanto ipotizzate, siano indotti a trarre conclusioni affrettate con nocumento di tutto il comparto produttivo, al punto che il danno “amplificato dall’attuale situazione emergenziale, potrebbe essere irreparabile per i settori che, in questo momento, tengono in piedi l’economia italiana e consentono agli italiani di continuare ad approvvigionarsi di beni alimentari primari”. Ci stiamo riferendo a un settore con oltre 250.000 lavoratori addetti al mondo delle produzioni zootecniche e che genera un fatturato di oltre 40 miliardi di euro.

Oggi non siamo più nella Cicago dei primi del ‘900 raccontata da Sinclair: “… ora venne a scoprire che ciascuna di queste fabbrichette era un piccolo inferno a sé, a suo modo orribile come i banchi di macellazione… La manodopera che sfacchinava in ciascuna di queste imprese aveva le sue specifiche malattie… e il visitatore non poteva proprio chiudere gli occhi, perché ogni operaio ne recava i segni ben visibili sulla propria persona…”. Upton Sinclair (1878 – 1968) racconta, quasi con il dettaglio di un addetto ai lavori, gli abusi nell’industria della carne nella Chicago dei primi del ‘900. Capolavoro del giornalismo di denuncia, il libro La giungla, alla sua pubblicazione avvenuta nel 1906, ebbe un successo enorme e le rivelazioni contenute suscitarono uno scandalo dalle proporzioni inimmaginabili, tale da indurre il presidente Theodore Roosvelt ad aprire un’indagine a cui seguì una serie di norme specifiche per la tutela dei lavoratori, il benessere degli animali e la produzione igienica delle carni. Ancora oggi, oltre un secolo dopo, il romanzo di Sinclair rimane uno dei più noti e feroci atti d’accusa contro alcuni errori del capitalismo.

Ovviamente l’industria della carne ha rispedito al mittente le critiche stigmatizzando la demonizzazione in atto. Un portavoce del North American Meat institute ha dichiarato che la salute degli operai del settore è la loro priorità e che l’obiettivo primario è la tutela dei lavoratori nel rispetto delle richieste di cibo da parte del mercato.

In Europa si è espresso il Danish Meat Research Institute ricordando che tutte le procedure di automazione vanno di pari passo con l’equa retribuzione dei lavoratori e che laddove sia disponibile manodopera a basso costo, i finanziamenti per la ricerca e gli incentivi a investire per l’automazione si riducono.

Danish Crown, il più grosso produttore di carne in Europa, tramite il suo amministratore delegato Jais Valeur, ha dichiarato al Financial Times che i propri operai sono pagati 30 dollari all’ora quando negli Stati Uniti il salario non supera i 14 dollari. Anche per Danish Crown la risposta sta nel ridurre il lavoro manuale e investire nell’automazione.

Le industrie della carne non hanno nulla da nascondere, ma è evidente che la pandemia ha reso i consumatori ancora più attenti e interessati a come si svolgono i processi produttivi.

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