Dall’uro al bove

E’ difficile sapere quale sia stato il primo animale addomesticato dall’uomo ma, certamente, non si è trattato del selvaggio uro (Bos taurus primigenius Bojanus, 1827), grande bovino diffuso originariamente in Europa e in alcune zone dell’Asia, con sottospecie in Nord Africa, Asia e probabilmente in Siberia orientale, Mongolia e Manciuria. Animale grande, impressionante e aggressivo, l’uro è raffigurato in molte pitture rupestri europee del Paleolitico e in antiche statuette, gli è attribuita una forza vitale con qualità magiche e, per la sua potenza, è adorato, dall’Anatolia al Vicino Oriente, come un animale sacro, il toro lunare, associato alla Grande Madre e, in seguito, a Mitra.

Giulio Cesare nel “De Bello Gallico” (6,28) descrive gli uri in dettaglio come animali leggermente più piccoli degli elefanti che assomigliano ai tori per aspetto, colore e forma. Sono animali molto forti ed estremamente veloci, che non risparmiano né gli uomini e né gli animali che abbiano scorto. I Germani si danno molto da fare per catturarli per mezzo di fosse e ucciderli: i giovani si temprano e si esercitano sottoponendosi a queste fatiche e a queste cacce, e chi ha ucciso diversi uri ne espone le corna pubblicamente, a testimonianza della sua impresa, ricevendo grandi elogi.

Non si riesce ad abituare gli uri alla presenza degli uomini, né ad addomesticarli, neppure se catturati da piccoli. Le corna, per ampiezza, forma e aspetto, sono molto diverse da quelle dei buoi. Giulio Cesare termina la sua descrizione ricordando che sono molto ricercate e che e, guarnite d’argento negli orli, sono usate come coppe nei banchetti. Nonostante le sue caratteristiche, l’uro è addomesticato nel Caucaso meridionale e nella Mesopotamia settentrionale a partire dal VI millennio a. C. e, indipendentemente, in Africa settentrionale ed in India, trasformandosi così in un animale profondamente modificato nella dimensione, forma corporea e nel comportamento, tanto da diventare i “docili bei giovenchi dal quadrato petto, erti su il capo le lunate corna, dolci ne gli occhi nivei” che il mite Virgilio amava, o “il pio bove” cantato da Giosuè Carducci. Animali domestici ben diversi dal loro tenebroso e feroce predecessore selvatico.

Alef, prima lettera dell’alfabeto

Anche se arrivati quasi ultimi tra gli animali domestici, i bovini hanno mantenuto il valore simbolico dell’antenato selvatico, così il toro ha conquistato il primo posto nella scrittura umana. Intuitive sono l’etimologia delle parole alfabeto e abbecedario. La parola alfabeto deriva dalle prime due lettere usate nella scrittura, la A e la B (in greco alfa e beta) mentre nella parola abbecedario vi è l’aggiunta della terza lettera C. Molte migliaia d’anni fa i nostri antenati, dopo aver inventato l’allevamento del bestiame, l’agricoltura e aver costruito le prime città, ideano la scrittura usando prima immagini o segni pittografici, in seguito stilizzati nei simboli o nelle lettere ancora in uso. Gli scribi vogliono mettere ordine nelle lettere e iniziano con quelle di maggior valore. Prima immagine e lettera è aleph, poi alfa, rappresentata come la testa di un toro, vale a dire di forma triangolare con due corna. Questa immagine, rovesciata in una posizione nella quale è facile ravvisare il muso triangolare del bovino con le due corna rivolte verso l’alto (le gambe della A), e trasformata in lettera, è la nostra A maiuscola. Testa, capo o capite, di animali anche oggetto di culto, da cui deriva la parola “capitale“, base di ogni ricchezza. Seconda lettera per importanza è la casa, rappresentata inizialmente con una spirale o cerchio di una tenda o capanna. Il segno pittografico di beth, che significa “casa” presenta un rettangolo diviso in due quadrati: secondo alcuni si potrebbe trattare di due stanzette ma, più probabilmente, rappresenta la pianta dell’abitazione con l’annesso recinto per il bestiame. In ogni caso, i due quadratini congiunti sono l’ancora attuale B maiuscola. Terza lettera è la C o gamma, tipico segno femminile: la donna.

Il toro nel mito e nelle religioni

Interessante è il posto assegnato alle lettere iniziali dell’alfabeto: prima il bovino e immediatamente dopo la casa con il recinto per il bestiame e in terza posizione la donna. Il bovino, con la sua testa, è la ricchezza. Non si tratta di una pecora o di una capra, ma di un animale di ben maggiori dimensioni e importanza, che subito fa pensare al toro Api della cultura egizia, ai grandi sacrifici, ai culti misterici di Mitra. La testa è anche la parte più importante: la ricchezza è quantificata dal numero di teste, o capita, del gregge, concetto che ritroviamo nel termine di capitale ancora in uso. La casa quadrata, con due locali o con il recinto del bestiame, non è più la già citata tenda, o la capanna circolare dei popoli nomadi, ma diviene il simbolo dell’insediamento stabile, quindi della città, e la donna diviene una presenza fissa. Mentre il nomade, il pastore di pecore e capre che vive in capanne circolari, si affida alla memoria, il cittadino con molti capi di bestiame da contare ha bisogno di affidarsi alla scrittura. Per questo, all’inizio dell’alfabeto troviamo il capitale (bovino) e la casa (città) con la sua donna (famiglia).

Il bovino viene prima di tutto. Una semplice coincidenza o una posizione di valore? La domanda ammette risposte diverse ma sempre a favore dell’importanza del bovino nelle culture nelle quali si è sviluppata la scrittura alfabetica che poi, con varianti grafiche, si è diffusa in tutto il mondo.

Tra gli animali più importanti di grande taglia, i bovini sono addomesticati prima del cavallo divenendo importanti in molti culti: dal Toro Rosso dell’Anatolia al nero Toro Api dell’Egitto e molte sono le mitologie che lo riguardano. Nella Bibbia del popolo d’Israele, il bue è uno dei quattro esseri viventi della Sacra Quadriga, il misterioso cocchio di Dio, secondo una visione del profeta Ezechiele e ripresa poi dall’Apocalisse. Sempre nella Bibbia si ricorda il nuovo tempio di Gerusalemme consacrato con l’olocausto di una giovenca dal mantello rosso. Le vacche sacre al dio Sole uccise dai compagni di Ulisse sono causa di tanti guai. E ancora, il toro è al centro del culto di Mitra e i bovini, resi sacri nel sacrificio (da sacrum facere) sono destinati ai banchetti, ai quali gli dei partecipano simbolicamente attraverso il fumo di alcuni organi bruciati dell’animale. La sacralità delle carni bovine sancisce anche la loro importanza nell’alimentazione umana. Solo gli animali giovani, immaturi e imperfetti sono usati come cibo non religioso o profano.

Italia terra dei vitelli e Roma città dei ruminanti

L’importanza dei bovini per gli italiani è avvalorata dall’ipotesi, non da tutti accettata, che da questi animali giovani possa derivare il nome Italia: Italia da (v)italia. La denominazione sarebbe stata data dai Greci che, quando arrivano dal mare, vedono sagome taurine nelle penisole Brezia e Japigia. Altri credono che la parola Viteliù, di origine osca, significhi terra di bovini giovani, essendo il toro un simbolo molto diffuso presso le antiche genti della penisola.

L’Italia ha per capitale Roma, città con un nome avvolto nel mistero e soggetto a molte interpretazioni diverse, ognuna con qualcosa di affascinante, nonostante vi sia la leggenda secondo cui questa città abbia un nome segreto che è vietato rivelare pena la morte. Opinione abbastanza diffusa è che la città romana abbia preso il suo nome derivandolo da quello etrusco di ruma, con le varianti rumis e rumen, perché fondata sul colle Palatino dalla forma di una mammella. Non bisogna dimenticare che l’antico termine ruma, derivante da reo (scorrere), è attribuito agli animali nei quali il cibo scorre più volte dalla bocca al viscere interiore, ora denominato rumine, e viceversa, ma anche alla mammella nella quale scorre il latte (rumis o ruma è parola arcaica per indicare la mammella d’un animale – Gaio Plinio Secondo o Plinio il Vecchio Naturalis Historia 15,77). Nel luogo dove la città è fondata vi anche è il ficus ruminalis, albero fin dall’antichità considerato fausto, venerato soprattutto dai pastori che vi si recano con offerte di latte e che più tardi porta alla creazione delle due nuove divinità, Jupiter Ruminalis e Dea Rumina. La Dea Rumina è tipica della mitologia romana. A lei si offre principalmente latte, protegge le donne allattanti ed ha il suo tempio ai piedi del Colle Palatino, adiacente al fico ruminale, albero di fico in cui si credeva che la fatidica lupa (animale o donna non sposata?) avesse allattato i fondatori di Roma, Romolo e Remo.

Se questa è l’origine del nome, potremmo interpretare ruma non solo come mammella che offre il nutrimento e la vita ma anche, in senso traslato, come sede delle forze vitali racchiuse nel petto e dunque forte, analogo al latino valentia ed al greco romé: un’ipotesi che spiegherebbe anche perché, come simbolo della città, viene scelta una lupa di fattura etrusca dalle mammelle gonfie di latte. Roma, città dei ruminanti dei quali il toro è il simbolo primo.