Nella bovina da latte, ma anche nella bufala e la pecora e la capra, la percentuale di grasso del latte è condizionata da moltissimi fattori. Come del resto accade anche per le proteine.

Ci si sofferma su questo costituente del latte in seguito alle lamentele dell’acquirente o per la frustrazione di fronte alla fattura di pagamento del latte dal momento che la percentuale di grasso in alcune tabelle di pagamento qualità ha un peso considerevole.

Questo dato arriva in azienda tramite l’Associazione degli allevatori, l’autocontrollo, il caseificio o le latterie, e spesso si hanno valori contrastanti dovuti principalmente al fatto che possono essere espressi come percentuale sul peso (peso/peso) o sul volume (peso/volume). Un litro di latte pesa dai 1029 ai 1035 grammi (media 1032) per cui se si ha il dato in peso/peso e si vuole in peso/volume basta moltiplicarlo per 1,032, oppure dividerlo per questo valore se il dato è espresso in peso/volume e si vuole il peso/peso. Questa precisazione è importante perché la differenza è grande. Dai dati ANAFI 2017 si evidenzia che la frisona italiana ha un latte con il 3.73% di grasso e il 3.33% di proteine, mentre il dato espresso in peso volume dà una percentuale di 3.84% e 3.43%, rispettivamente.

Il campionamento del latte di massa per valutarne i “titoli” è molto complesso e può interferire sensibilmente sui risultati delle analisi. Questo avviene in particolar modo per il grasso che in un tank non adeguatamente agitato tende a galleggiare e per il quale di conseguenza potremmo avere un diverso risultato a seconda di dove viene effettuato il prelievo.

La percentuale di grasso del latte di massa è condizionata da innumerevoli fattori:

  • La razza delle bovine.
  • Il loro potenziale genetico.
  • La stagione.
  • L’età.
  • I giorni medi di lattazione.
  • La nutrizione.
  • Le malattie metaboliche.

Da un’attenta e semplice analisi dei dati, provenienti soprattutto delle bovine che partecipano alla selezione genetica e da quelli raccolti nei numerosi software gestionali in commercio, si può dare ad ognuna di queste variabili il giusto peso. Dalla tabella successiva, relativa alla percentuale di grasso nel latte bovino analizzata dall’Istituto zooprofilattico della Lombardia e dell’Emilia, si evidenzia il forte andamento stagionale di questo parametro, aspetto che deve essere assolutamente preso in considerazione quando si fanno le opportune valutazioni.

Fonte Istituto zooprofilattico della Lombardia e dell’Emilia.

 

Nel caso in cui il grasso sia ritenuto basso non si deve prescindere dal periodo dell’anno in cui si sta facendo la valutazione. Purtroppo, nei principali sistemi di pagamento qualità, i premi e le penalità sulla percentuale di grasso e di proteine non tengono conto dell’andamento stagionale di questi parametri per cui ciò che l’allevatore guadagna nei mesi invernali viene puntualmente “restituito “nei mesi estivi, a prescindere dai sistemi di gestione del clima in stalla.

La nutrizione e la gestione hanno un ruolo importante nel condizionare positivamente o negativamente la percentuale di grasso nel latte. Prima di addentrarci nelle “istruzioni per l’uso” è bene ricordare da dove arriva questo prezioso componente del latte.

Gli acidi grassi a corta catena (≤ C16.0) del latte arrivano dal rumine, ed in particolare dalla fermentazione della fibra (acido acetico) e degli zuccheri (acido butirrico). Gli acidi grassi più “lunghi” (≥ C18:0) arrivano alla mammella dalle riserve corporee di grasso e dagli acidi grassi della dieta. Molti di quelli intermedi, ossia nè corti nè lunghi, vengono sintetizzati ex-novo dalla mammella.

Nelle frisone di nuova generazione, ossia di alto potenziale genetico, che poi sono la maggioranza, si può verificare un eccessivo dimagrimento dopo il parto a seguito del quale ci può essere un innalzamento del grasso nel latte di massa, soprattutto se sono presenti molte bovine con questa caratteristica. Questo può succedere anche in quei periodi dell’anno (inverno) favorevoli ad un’alta produzione di grasso nel latte.

Per accertarsi di questo fenomeno basta “contare” quante bovine nelle primissime settimane di lattazione hanno una percentuale di grasso nel latte ≥ 4.80 %. Questo biomarker è molto legato al rischio chetosi. Paradossalmente, e in netta discontinuità con il passato, bovine fresche in acidosi ruminale anche grave possono avere un’elevata percentuale di grasso del latte per l’intenso dimagrimento conseguente alla minore ingestione della bovina o della stalla in acidosi.

Pertanto oggi solo in casi veramente gravi di acidosi clinica si potrebbe avere un calo del grasso del latte o addirittura un’inversione con la percentuale di proteina, ma gli altri sintomi esibiti lascerebbero poco spazio ad ogni dubbio.

I principali fattori nutrizionali che possono interferire negativamente con il grasso del latte sono la bassa fermentazione della fibra della razione, dovuta alla sua scarsa qualità o meglio digeribilità, la carenza di azoto solubile di cui sono “ghiotti” i batteri ruminali che fermentano la fibra o un pH troppo basso dovuto ad un’elevata quantità di concentrati o ad una carenza di sodio. I foraggi insilati e i fieni ad elevata digeribilità della fibra (NDFD) sono favorevoli al grasso del latte e alimenti come le polpe di barbabietola, la buccetta di soia, la crusca e il cotone integrale, possono aiutare in tal senso anche se vengono classificati tra i concentrati.

L’aggiunta di grassi saturi e rumino-protetti, come quelli saponificati e idrogenati, offre la possibilità che siano incorporati direttamente nel latte una volta assorbiti dall’intestino. Effetto opposto è invece esercitato dagli oli liberi (olio di soia, mais, colza e girasole) oppure facilmente liberabili, da alimenti come la soia e il girasole integrale, dai panelli di queste oleaginose, i distillers di mais, i cruscami, il lino integrale e la pula di riso. Questi alimenti apportano quantità elevate di grassi che possono avere effetti collaterali spiacevoli sul grasso del latte per due ragioni. La prima è che gli oli liberi, ossia che si liberano nel rumine per la ruminazione e le fermentazioni ruminali, sono tossici per i microrganismi presenti e ne riducono quindi l’attività. La seconda è che la frazione di oli insaturi presenti in questi alimenti man mano che viene saturata nel rumine può produrre acidi grassi dai nomi complessi, ma che possono più semplicemente essere raggruppati nel termine “coniugati dell’acido linolenico (CLA)” e similari, che esercitano un’azione inibente diretta nella sintesi di acidi grassi a livello mammario. Basti pensare che sono sufficienti 2.5 g di trans 10, cis 12 C18: 2  per ridurre del 25% la percentuale di grasso nel latte! Quando la sintesi del grasso del latte è inibita a livello mammario da un intermedio degli acidi grassi insaturi ci troviamo di fronte ad una patologia che si chiama “Sindrome da basso grasso del latte”.

Le possibilità oggi offerte da un’analisi approfondita dei dati di verifica oggettiva del livello genetico, e dall’analisi degli alimenti, del latte e della dieta permettono un approccio razionale a problemi legati ad una bassa percentuale di grasso del latte per trovare rapidamente una soluzione o rassegnarsi al fatto che una soluzione non c’è.