Quindicimila litri d’acqua per un chilogrammo di carne di manzo?
Quando si dice che per produrre un chilo di manzo ci vogliono quindicimila litri di acqua cosa significa? Come è stata calcolata questa quantità di acqua? Di quale tipo di acqua si parla? Che cosa è il Water footprint o Impronta Idrica della produzione della carne e di ogni altro alimento, un metodo di calcolo dello studioso olandese Arjen Hoekstra nel quale molti aspetti sono inutilmente considerati e altri invece ignorati? Per avvicinarsi alla verità, e senza avere la pretesa di risolvere un problema molto complesso, sono necessarie alcune precisazioni.
L’acqua circola e non si consuma
Ieri, l’altro ieri o qualche giorno prima, tanti italiani hanno bevuto l’urina di Giulio Cesare. Questo condottiero, nei suoi 63 anni di vita, ha eliminato oltre trenta tonnellate di urina che, escluse quelle della sua breve permanenza nella Gallia settentrionale, sono ricadute nel bacino del Mediterraneo dove il ciclo con rimescolamento delle molecole dell’acqua, secondo alcuni calcoli, si completa ogni duemila anni. Secondo lo stesso tipo di calcolo, oggi in ogni litro d’acqua del mediterraneo, quindi anche in quella che beviamo, vi è qualche molecola dell’acqua contenuta nell’urina di Giulio Cesare, perché l’acqua non si consuma, ma si ricicla e si riutilizza.
Considerando il ciclo dell’acqua in un ambiente più ristretto, come può essere un’intera vallata, è in sostanza ininfluente che vi siano o non vi siano coltivazioni o allevamenti, e che l’acqua transiti o non transiti attraverso le piante, gli animali e che questi siano usati nell’alimentazione umana. Assolutamente minima è l’acqua portata fuori dal ciclo dell’acqua della valle con l’esportazione di vegetali coltivati o di carni di animali allevati, che riguarda soltanto quella presente nelle stesse e non quella che è stata usata (non consumata) nella loro produzione. Relativamente più importante è la quantità d’acqua eventualmente imbottigliata da una fonte d’acqua minerale e portata fuori dal territorio. Diversa deve essere l’attenzione per le acque di falda o fossili, per le quali entra in gioco il tempo di ripristino e che può essere di medio e anche di lungo periodo.
Acqua nelle produzioni alimentari: Water footprint o Impronta Idrica
Considerando gli alimenti, non bisogna confondere tra utilizzazione e consumo di acqua, partendo dal concetto che l’acqua non si consuma ma si può soltanto usare, e che una stessa acqua passa in continuazione da un vivente all’altro. L’acqua che cade su un pascolo è usata prima dalle erbe, poi attraverso queste e la bevanda passa agli animali che pascolano, che a loro volta la restituiscono con le feci e le urine che concimano il terreno, in un rinnovato ciclo della stessa acqua. Pur considerando che parte dell’acqua esce dal ciclo e nuova ne rientra, non è assolutamente corretto considerare i diversi passaggi di quest’acqua come se fossero un consumo, sommando tra loro le diverse fasi del ciclo dell’acqua in uno stesso ecosistema. Soprattutto, bisogna considerare che nella produzione alimentare esistono diversi tipi di acqua, rispettivamente denominati acqua blu, acqua verde e acqua grigia, e l’Impronta Idrica (Water footprint).
L’Impronta Idrica è un indicatore del consumo di acqua dolce che include sia l’uso diretto che indiretto di acqua da parte di un consumatore o di un produttore. L’Impronta Idrica di un singolo, di una comunità o di un’azienda è definita come il volume totale di acqua dolce utilizzata per produrre beni e servizi, misurata in termini di volumi usati (evaporati o incorporati in un prodotto) e inquinati per unità di tempo. L’Impronta Idrica calcola anche l’acqua utilizzata nei processi produttivi, e per il bestiame la quantità usata per produrre l’alimento (carne, latte o uova), condurre l’allevamento degli animali e compiere le operazioni di macellazione o lavorazione delle carni, latte e uova.
Nella definizione dell’Impronta Idrica è data rilevanza alla localizzazione geografica dei punti di captazione della risorsa. Infatti il water footprint assessment si sviluppa in tre fasi: a) quantificazione e localizzazione dell’impronta idrica di un prodotto o di un processo nel periodo di riferimento; b) valutazione della sostenibilità ambientale, sociale ed economica dell’impronta idrica; c) individuazione delle strategie di riduzione della stessa. L’Impronta Idrica sottovaluta la situazione specifica in cui avvengono la produzione e l’allevamento degli animali, che da tempo si sono maggiormente sviluppati dove vi è una maggiore disponibilità di acqua. Infatti, nelle aree a maggior densità zootecnica, secondo i dati raccolti a livello globale attraverso il Water Stress Index (rapporto tra acqua utilizzata e acqua disponibile tenendo conto della variabilità mensile e annuale delle precipitazioni), la presenza del bestiame non ha mai portato ad un impoverimento delle riserve idriche anche sotterranee e, dopo secoli di allevamento, quei luoghi non si sono trasformati in aree desertiche.
Tre tipi di acqua: blu, verde e grigia
Il computo globale dell’Impronta Idrica è dato dalla somma di tre componenti da tenere ben distinti. Acqua blu si riferisce al prelievo di acque dolci superficiali e sotterranee destinate ad un utilizzo per scopi agricoli, domestici e industriali che a valle del processo produttivo non tornano nel medesimo punto in cui sono state prelevate o vi tornano in tempi diversi. Acqua verde è l’acqua piovana che non contribuisce al ruscellamento superficiale e si riferisce principalmente all’acqua evaporata o traspirata per un utilizzo agricolo. Acqua grigia è il volume di acqua inquinata e necessaria per diluire gli inquinanti. I tre tipi d’acqua incidono in modo diverso sul ciclo idrogeologico: per esempio, l’utilizzo di acqua verde esercita un impatto meno invasivo sugli equilibri ambientali rispetto all’acqua blu. L’Impronta Idrica è utile per una migliore conoscenza dei fenomeni e su come il consumatore o produttore influisce sull’utilizzo di acqua dolce (non misura però la gravità dell’impatto a livello locale), e fornisce un’indicazione sulla sostenibilità spazio-temporale dalla risorsa acqua utilizzata dall’uomo. Anche per questo bisogna distinguere la disponibilità idrica globale, considerando che vi sono aree dove l’acqua nel suo complesso è scarsa e aree nelle quali questa risorsa è invece abbondate se non eccessiva.
Per gli allevamenti si sommano l’acqua blu (prelevata dalla falda o dai corpi idrici superficiali), l’acqua verde (piovana e o traspirata dal terreno durante la crescita delle colture), e l’acqua grigia (necessaria per diluire e depurare gli scarichi idrici di produzione), senza distinzione in rapporto alla loro disponibilità idrica, il che non è corretto. Se l’acqua blu non fosse utilizzata, sarebbe disponibile per altri scopi, ma non per l’acqua verde, come avviene anche nei pascoli, ed è proprio quest’acqua ad essere preponderante nella produzione della carne, latte e uova, assommando a più dell’80% dell’impronta idrica totale in funzione della specie considerata. Pertanto l’acqua verde contribuisce in misura minima al fenomeno di una paventata carenza idrica.
Quindicimila litri di acqua per un chilogrammo di carne di manzo
I quindicimila litri di acqua per ottenere un chilo di carne di manzo deriverebbero da alcuni studi dell’università olandese di Wageningen e si basano sul fatto che la quasi totalità dell’acqua usata è quella che fa crescere le erbe e le foraggere di cui si nutrono gli animali. Nel caso di bovini allevati sui pascoli o nelle pampas e pradere argentine e uruguaiane, è l’acqua delle piogge che attraverso le erbe arriva agli animali e poi da questi è restituita attraverso le deiezioni, non si tratta quindi di consumo da parte degli animali come a volte è fatto credere. Tutta l’acqua è riciclata sul posto, meno quella parte contenuta nelle carni degli animali macellati. Ha infatti poco senso comparare i consumi idrici nella produzione degli alimenti se non si contestualizza l’uso dell’acqua che dipende dall’area geografica in cui si opera. Se nel Sud America si tratta di acqua della pioggia, in altre condizioni come nel Nord Europa si tratta di allevamenti che usano acqua in parte irrigua proveniente da canali e fiumi che ne sono ricchi. Diverse sono le situazioni delle aree siccitose, come molte di quelle presenti dell’Africa e dell’Italia, senza dimenticare alcune prospettive riguardanti il cambiamento climatico in atto, dove è ovvio che ogni litro della poca o scarsa acqua usata per produrre un chilogrammo di carne sarebbe meglio usarlo invece per produrre decine di chilogrammi di cereali, come d’altra parte già storicamente avveniva fin dal tempo degli antichi Romani quando le regioni cerealicole non erano produttrici di carni bovine. In territori scarsi d’acqua e dove si muore di fame questa risorsa va usata in modo diverso rispetto a quanto si fa nei territori dove è abbondante e incolpare l’allevatore argentino od olandese di sprecare l’acqua è solo strumentale, perché l’acqua che a lui serve per produrre carne non è sottratta ad altri. Lo stesso ragionamento vale anche per le produzioni vegetali che hanno bisogno di differenti quantità di acqua.
Da quanto esposto si evidenzia la necessità di utilizzare cautela nell’interpretazione dei metodi di calcolo usati per stimare il ruolo dell’uso (e non il consumo) di acqua nelle produzioni agricole e zootecniche e che l’affermazione che per produrre un chilogrammo di carne sono necessari quindicimila litri di acqua ha lo stesso valore dell’asserzione che nei paesi mediterranei stiamo bevendo l’urina di Giulio Cesare.
Giovanni Ballarini, dal 1953 al 2003 è stato professore dell’Università degli Studi di Parma, nella quale è Professore Emerito. Dottor Honoris Causa dell’Università d’Atene (1996), Medaglia d’oro ai Benemeriti della Scuola, della Cultura e dell’Arte del Ministero della Pubblica Istruzione della Repubblica Italiana, è stato insignito dell’Orde du Mérite Agricole della Repubblica Francese. Premio Scanno – Università di Teramo per l’Alimentazione nel 2005, Premio Giovanni Rebora 2014, Premio Baldassarre Molossi Bancarella della Cucina 2014, Grand Prix de la Culture Gastronomique 2016 dell’Académie Internationale de la Gastronomie.
Da solo e in collaborazione con numerosi allievi, diversi dei quali ricoprono cattedre universitarie, ha svolto un’intensa ricerca scientifica in numerosi campi, raggiungendo importanti e originali risultati, documentati da oltre novecento pubblicazioni e diversi libri.
Da trenta anni la sua ricerca è indirizzata alla storia, antropologia e in particolare all’antropologia alimentare e anche con lo pseudonimo di John B. Dancer, ha pubblicato oltre quattrocento articoli e cinquanta libri, svolgendo un’intensa attività di divulgazione, collaborando con riviste italiane, quotidiani nazionali e partecipando a trasmissioni televisive. Socio di numerose Accademie Scientifiche è Presidente Onorario dell’Accademia Italiana della Cucina e già Vicepresidente della Académie Internationale de la Gastronomie.