Per completare il titolo di questo articolo si dovrebbe aggiungere “e neanche gli ultimi quattro mesi del 2020 saranno belli”.

Italatte, del gruppo Lactalis, ha inviato il 1° Ottobre 2020 ai suoi tanti conferenti un aggiornamento sul “contratto di somministrazione del latte” dove comunica i nuovi prezzi base, ossia al netto dei premi e dell’IVA, di ritiro del latte bovino, e che saranno:

  • Settembre 2020: 365 euro/1000 lt
  • Ottobre 2020: 365 euro/1000 lt
  • Novembre 2020: 355 euro/1000 lt
  • Dicembre 2020: 350 euro/1000 lt

Lactalis informa inoltre che per il 2021 il prezzo base sarà di 355 euro/1000 lt, o meglio “sarebbe” visto che i “contratti di somministrazione del latte” sono un semplice e temporaneo atto burocratico che si può disdire quando si vuole con un preavviso di 90 giorni.

Accanto a tutto ciò due fatti nuovi.

Benessere animale: Lactalis impone ai suoi conferenti l’obbligatorietà di avere un minimo del 60% alla valutazione del benessere animale effettuata con il metodo CReNBA. Il non raggiungimento di questo requisito minimo comporterà una riduzione del prezzo alla stalla di 5 euro/1000 lt.

Quote latte mensili: Il conferente, ossia l’allevatore, per potere avere nel 2021 un prezzo del latte base di euro 355/1000 lt, deve conferire mensilmente a Lactalis lo stesso quantitativo di latte conferito nei mesi analoghi del 2020. Nel caso di eccedenze per i mesi Gennaio, Febbraio, Marzo, Aprile, Novembre e Dicembre 2021, il prezzo del latte verrà decurtato di 60 euro/1000 lt.

Commenti

Il comportamento di Lactalis non deve sorprendere dal momento che si tratta della più grande industria lattiero-casearia del mondo, d’Europa e d’Italia, di proprietà della famiglia Besnier. Emanuel Besnier, che è classificato tra gli uomini più ricchi del mondo, sta solo facendo il suo dovere d’imprenditore e nel pieno rispetto della legge, almeno così ci dicono.

Quello che questo fatto evidenzia è la debolezza di un “sistema latte” italiano assoggettato alle regole delle commodity, anche quando si parla di prodotti a Denominazione d’origine, e all’assoluta mancanza di potere contrattuale degli allevatori e di rappresentanza politica e sindacale. Chi dovrebbe tutelare gli allevatori, dovrebbe sapere bene che, per infiniti motivi, molti allevamenti italiani hanno un punto di pareggio del latte inferiore al prezzo d’acquisto “imposto” da Lactalis. Prezzo al quale si accoderanno molto in fretta, a meno di un miracolo etico e culturale, le altre industrie lattiero-casearie italiane. Per una stalla di 100 bovine in lattazione, che produce 1.204.500 litri di latte all’anno, un calo di 1 centesimo al litro comporta un mancato ricavo di circa 1000 euro al mese. Questa vicenda stimola delle domande e riflessioni alle quali spero qualcuno risponda e rapidamente:

  • Non sarà il caso che chi propaganda il verbo delle economie di scala rifletta su quanto sia debole economicamente una zootecnia che produce latte e carne commodity e che è quindi soggetta ai capricci di mercato e all’atteggiamento predatorio di buona parte dell’industria lattiero casearia; che, ripeto, fa solo coerentemente il suo lavoro anche se lo fa senza una visione di medio-lungo periodo.
  • Non sarebbe meglio smettere di valutare positivamente chi ha una media procapite più alta invece di chi ha un punto di pareggio più basso? In questo modo forse si terrebbe sotto controllo il nostro conferito nazionale che nel periodo Gennaio – Luglio 2020 è cresciuto del 4.1% mentre in Europa la produzione è salita del 2%. La rincorsa a produrre sempre di più per contrastare i continui cali del prezzo del latte alla stalla si sta dimostrando un boomerang per l’allevamento italiano.
  • Personalmente, mi piacerebbe capire una volta per tutte dalle molte autorità competenti come AGCM, ICQRF, Guardia di Finanza, etc. dove finisce il latte che importiamo (22% nel 2018), visto che circa il 50% del latte che produciamo viene utilizzato per fare prodotti DOP, IGP e STG e che sembrerebbe che il claim “latte italiano” in etichetta condizioni molto la propensione d’acquisto dei consumatori.
  • Mi piacerebbe anche sapere, con dati alla mano, dove finisce il latte straniero o dove finirà quello eccedentario rispetto al contratto presentato da Lactalis e al quale presto si accoderanno gli altri. Utilizzare latte straniero in prodotti che riportano in etichetta la dicitura “latte italiano” attiva una serie di reati penali.
  • La produzione primaria di latte e di carne, ossia la zootecnia sia delle pianure irrigue che della aree interne, è un asset economico e sociale strategico per il nostro paese. Come intendono la politica e i sindacati proteggerlo dalla regola che il prezzo del latte lo fa il rapporto tra la domanda e l’offerta? Non ricordo, e non sono più tanto giovane, un Governo del nostro paese che abbia pensato a misure strutturali di tutela della zootecnia dal disinvolto comportamento dell’industria-lattiero casearia che opera nel nostro paese.
  • Non sarebbe il caso di definire a livello merceologico la categoria “latte italiano”, utilizzabile per fare prodotti che contengono in etichetta questo claim e che agevolerebbero le autorità competenti a fare i controlli?
  • Ci sentiremmo tutti meno offesi se il calo del latte alla stalla corrispondesse ad un calo del prezzo di vendita dei prodotti del latte finalizzato a recuperare la presunta contrazione degli acquisti. Mi sembra invece che neppure durante il look down sia stato ridotto il prezzo dei prodotti del latte sugli scaffali della GDO.
  • La volatilità e l’imprevedibilità del prezzo del latte alla stalla, oltre a mettere in difficoltà gli allevatori, ne riduce la propensione agli investimenti e agli acquisti, con un danno enorme per tutto l’indotto.
  • Nel Recovery Fund, e quindi nel Recovery Plan, quali misure intende prendere il governo a favore della zootecnia italiana e qual è la proposta delle opposizioni in tutto questo? Ad oggi francamente non ho sentito nulla di concreto in merito.