Ne abbiamo sentite di tutti i colori sulla salute della terra e sulla sua possibilità di sfamare una popolazione sempre crescente. Dalla catastrofe imminente al negazionismo di Trump. Ma sta di fatto che il nostro pianeta si sta surriscaldando, stanno aumentando i fenomeni metereologici estremi e non c’è bisogno di essere scienziati per intuire che le risorse della terra non possono essere illimitate. Degna di nota la metanalisi di Joseph Poore, dell’Università di Oxford, e Thomas Nemecek, dell’ente di ricerca pubblico Agroscope di Zurigo, dal titolo originale “Reducing food’s environmental impacts through producers and consumers” pubblicata il 1° Giugno 2018 sul numero 360 di Science.

Gli autori hanno preso in considerazione ben 500 studi relativi a circa 40000 aziende di 119 paesi che producono 40 tipi di prodotti e che coprono il 90% del consumo mondiale di cibo, valutando i cinque maggiori indicatori d’impatto ambientale come il consumo del territorio, l’uso delle risorse idriche, la produzione di sostanze eutrofizzanti e di acidificanti e i gas serra (GHG).

Quello che appare molto evidente da questa metanalisi è l’enorme variabilità della sostenibilità delle produzioni agricole e quindi l’enorme margine di recupero che si può avere sia come produttività che come sostenibilità.

570 milioni di produttori coltivano superfici agricole molto variabili. Si va da una media di 0.5 ettari nel Bangladesh ai 3000 ettari australiani. L’uso medio di concimi azotati per ettaro va da kg 1 in Uganda ai kg 300 cinesi.

La catena di approvvigionamento alimentare crea 13.7 miliardi di tonnellate di CO2 eq che rappresentano il 26% delle emissioni antropogeniche. Altre 2.8 ton. (5% sul totale) sono GHG di derivazione agricola non alimentare, come quelli per la produzione dei bio-combustibili e la deforestazione. L’attuale sistema agricolo copre il 43% della terra mondiale coltivabile e 2/3 dei prelievi di acqua dolce sono destinati all’irrigazione.

La produzione di cibo è responsabile del 32% dell’acidificazione terrestre e del 78% del fenomeno dell’eutrofizzazione.

Oltre a questi numeri, per certi aspetti inquietanti, ce ne sono altri carichi di speranze perché, come vedremo meglio in seguito, dimostrano che ci sono ampi spazi di miglioramento.

I dati che stimolano la fiducia, o meglio la certezza, che è possibile trovare un equilibrio tra sostenibilità e aumento della produzione di cibo sono ben evidenziati dalla ricerca di Poore e Nemecek. Secondo questo lavoro infatti esiste una forte differenza d’impatto ambientale tra produttore e produttore per il medesimo prodotto, e quindi ampi spazi di miglioramento.

Relativamente alle carni bovine, il 25% dei produttori ad alto impatto ambientale è responsabile della produzione del 56% dei GHG e del 61% delle sostanze eutrofizzanti. La pratica del pascolo adottata su molte aree marginali (950 milioni di ettari) se pur gradita ai consumatori è responsabile della maggiore produzione proporzionale, ossia per chilogrammo di latte o di carne, dei gas serra.

Il 25% degli agricoltori è responsabile del 53% dell’impatto ambientale della produzione di cibo.

Analogo discorso può eesere fatto per la catena di lavorazione e distribuzione degli alimenti. Per un medesimo prodotto differiscono da 2 a 140 volte fra gli operatori.

Non riportato dagli autori della metanalisi un dato riguardante gli sprechi alimentari. Oggi un terzo del cibo prodotto si spreca, anche se l’80% potrebbe ancora essere consumato sfamando circa 2 miliardi di persone.

Se nel mondo si attivasse un piano condiviso di razionalizzazione della produzione di cibo, specialmente di quello d’origine animale, se si attivasse praticamente l’economia circolare e se si lottasse contro gli sprechi alimentari, ci sarebbe un deciso e molto evidente cambio di marcia nella sostenibilità delle produzioni.