La prima certificazione di carne bovina “carbon – negative” è stata ottenuta da due allevatori italiani che hanno le aziende in terra Argentina. Si tratta di un protocollo realizzato dagli enti locali INTA e INTI, che ha permesso di ottenere una Dichiarazione Ambientale di Prodotto (EPD) per chilo di peso vivo bovino. Trattandosi di un tema di grande interesse per la collettività, e considerando il carattere altamente innovativo per la sua unicità, abbiamo voluto approfondire l’argomento da più punti di vista, facendoci illustrare i dettagli dal ricercatore e coordinatore del progetto “Progettazione e sviluppo di sistemi di produzione sostenibili” presso l’INTA, dr. Rodolfo Bongiovanni, e dai due imprenditori, dr. Enrico Dubini e dr. Paolo Fontana, rispettivamente delle aziende Ralicó a Villa Huidobro (Córdoba) e San Esteban a Federal (Entre Ríos).
Come prima cosa ci piacerebbe capire meglio, con l’aiuto del dr. Bongiovanni, cosa è il protocollo di certificazione EPD e su quali requisiti si basa.
«L’EPD è un tipo di certificazione che ha l’obiettivo di comunicare al mercato gli impatti ambientali di un prodotto o di un servizio fornito da un’azienda. In Argentina l’INTI, Istituto Nazionale di Tecnologia Industriale, si avvale del sistema EPD internazionale. Al fine di valutare, però, gli impatti ambientali di prodotti agroalimentari, è stata stretta una collaborazione tra INTI e INTA, ovvero l’Istituto Nazionale di Tecnologia Agraria. Nel progetto di certificazione di cui vi vogliamo parlare, durato circa tre anni, è stata coinvolta anche l’Universidad Nacional de Río Cuarto, una realtà con grande esperienza nell’ambito della chimica del suolo. In generale, per accedere a questa certificazione, è necessario intraprendere un percorso che prevede 5 step da superare, che sono:
- presentazione della richiesta all’ente preposto;
- realizzazione dello studio del ciclo di vita (LCA);
- redazione di un report LCA e EPD da parte di tecnici specializzati;
- verifica e convalida;
- registrazione e pubblicazione.
Tutto il processo si basa su un software, riconosciuto a livello internazionale, con il quale, inserendo gli input in ingresso, è possibile calcolare l’impatto del prodotto. La cosa che rende molto interessante l’intero sistema è che è stato messo a punto un algoritmo che consente di utilizzare lo stesso modello di calcolo per determinare gli impatti di diversi prodotti, e anche che questa metodologia è una di quelle accettate, in Italia, dal Decreto dei Criteri Ambientali Minimi (clicca QUI). Tanti marchi e catene della grande distribuzione in Italia già utilizzano la metodologia EPD, ma c’è una sostanziale differenza che la certificazione di cui vogliamo parlarvi introduce, e cioè che questa prende in considerazione l’impatto del prodotto al “cancello” dell’azienda, senza considerare i passaggi successivi. Si esprime l’EPD di un chilo di peso vivo al cancello, applicando poi un moltiplicatore fisso (2, 701) che trasforma questo valore, riferito appunto all’animale vivo, in impatto attribuibile alla carne pronta al consumo, tenendo in considerazione la resa, il calo peso e tutte le altre variabili collegate. Il metodo permette di calcolare sia i Kg di CO2 equivalente prodotti per kg di peso vivo che quelli sequestrati, sempre per Kg di peso vivo. Sottraendo i secondi ai primi, nei due allevamenti che hanno intrapreso il processo di certificazione, è emerso un bilancio di carbonio negativo. Analizzando questa esperienza, il messaggio finale che vorrei dare – conclude il dr. Bongiovanni – è che la tracciabilità e le certificazioni, che qualcuno potrebbe interpretare come azioni protezionistiche, possono, invece, rappresentare degli importanti sbocchi di differenziazione sui mercati internazionali, non tanto per il prezzo, quanto per gli standard sociali ed economici per cui si contraddistinguono.»
Ritornando un attimo indietro sugli aspetti prettamente tecnici del calcolo, possiamo provare a schematizzare i dati in ingresso utilizzati per la valutazione?
«Tutto si basa sul processo conosciuto con il nome di Life Cycle Assestement (LCA). I calcoli vengono effettuati tramite un software molto ricco e completo, dotato di un database che dispone di un’ampia gamma di prodotti classificati per tipologia (sementi, agrochimici, alimenti). Attraverso questo vengono effettuate delle rilevazioni, basate anche sulle informazioni fornite dall’azienda, relativamente al processo produttivo, includendo: numero di animali presenti, indirizzo produttivo, coltivazioni effettuate, gasolio consumato e personale presente. Il calcolo non è effettuato nell’arco dell’anno solare, ma in base alla durata media dei riproduttori in azienda (tori e fattrici); infatti, per tutti i progenitori viene calcolata un’emissione di carbonio che viene normalizzata, nel corso della loro carriera, secondo l’equazione dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), basata sulla digeribilità dei vari foraggi. Nell’ambito delle emissioni animali, la quota dei progenitori rappresenta circa il 50% delle emissioni totali, a volte anche di più. Un aspetto molto interessante della certificazione EPD è che utilizza un coefficiente per rendere paragonabili tutti coloro che vi aderiscono, permettendo così di confrontare i produttori di diverse parti del mondo.»
Passando all’applicazione in campo di questa metodica, quali risultati sono emersi nei tre anni di studio svolti?
«Come già evidenziato – spiega il dr. Fontana, titolare dell’allevamento San Esteban – lo studio è stato condotto sul chilo carne di peso vivo al cancello e, oltre a calcolare tutta la parte emissiva, ha preso in considerazione tutte le attività che comportano il sequestro di carbonio. Il rapporto tra questi due aspetti ha portato a poter affermare che San Esteban e Realicò producono una carne con un impatto “carbon-negative”. La grande novità sta nel fatto che le nostre due realtà sono le prime a ciclo completo che possono esprimere un bilancio di carbonio negativo, dandone tracciabilità».
«C’è anche da aggiungere – interviente il dr. Dubini, dell’azienda Realicò – che, mentre per la parte delle emissioni le tabelle dell’IPCC, a cui ci si riferisce, sono ormai utilizzate e collaudate da anni, per i calcoli inerenti al sequestro è tutto molto nuovo e fino a qualche anno fa neanche esistevano. In questi tre anni di studio, si è considerato come punto di partenza la quantità di carbonio presente nel terreno aziendale, che è stata poi moltiplicata per dei coefficienti caratteristici di ogni singolo ambiente naturale presente nella realtà analizzata (bosco, pascolo, erbai autunno-vernini). In queste valutazioni il supporto dell’Università di Rio Cuarto è stato determinante».
Secondo lei, dr. Dubini, l’esperienza da voi condotta potrebbe essere trasferita in qualche modo alla realtà italiana?
«Quello che abbiamo fatto noi in Argentina per certificare la carne al cancello, secondo me si può fare benissimo anche in Italia. Sicuramente le realtà sono molto diverse, con delle estensioni di terreno e dei rapporti superfici/animali neanche lontanamente paragonabili, però perché non provare a fare seriamente dei calcoli, ad esempio, nelle aziende che hanno impianti di biogas con cui si produce digestato? Il digestato prodotto ha un suo contenuto di carbonio, e può essere interrato nei terreni. Considerando che il carbonio interrato non è labile, sarebbe interessante fare un bilancio del sequestro effettuato attraverso questa attività. Mi permetto di aggiungere che, nel nostro Paese, una spinta in questa direzione dovrebbe arrivare maggiormente perché, in realtà, molti marchi della GDO hanno già delle referenze certificate EPD, ma non ci sono, invece, certificazioni di prodotti primari al cancello! Si potrebbe pensare, dunque, anche ad un percorso per le aziende agricole italiane, soprattutto da latte, dove il sequestro potrebbe essere valutato utilizzando il tema del digestato».
Dal punto di vista commerciale, ritenete che la certificazione ottenuta possa creare maggiori sbocchi di mercato per la vostra carne?
«Diciamo che la nostra riflessione, rispetto al mercato – dice ora il dr. Fontana – è partita dalla considerazione che, soprattutto per l’export, si richiedono standard qualitativi sempre più elevati. Tagli di alta qualità, provenienti da animali di un certo peso, una certa genetica, un certo grasso, alimentati in un determinato modo. Per rispondere a questi requisiti, ovviamente nell’ottica di ottenere un ritorno economico sul prodotto, abbiamo inizialmente pensato a produrre un prodotto a nostro marchio, sviluppando un protocollo alimentare che ci consentisse di produrre un vitello pesante di 460 kg in circa 15 mesi con una certa conformazione e resa alla macellazione, e abbiamo iniziato ad informarci su come poter certificare un nostro disciplinare volontario. Così abbiamo contattato l’ente di certificazione e abbiamo conosciuto il dr. Bongiovanni, il quale ci ha illustrato il protocollo EPD. Questo ci ha colpito molto, in quanto ci trovavamo in un momento storico in cui stava crescendo a ritmi esponenziali l’attenzione verso la problematica del cambiamento climatico e ci siamo resi conto che l’aspetto del carbonio, ma più che altro della sostenibilità in generale, poteva essere di grande interesse per soddisfare le richieste dei consumatori. Insomma, l’incontro con Rodolfo Bongiovanni è stato illuminante, poi chiaramente c’è voluto tempo, costanza e dedizione. Indubbiamente le caratteristiche geologiche dell’Argentina e la disponibilità di superficie hanno agevolato tutto il processo».
Dunque, dr. Fontana, dall’idea iniziale di certificare esclusivamente la qualità organolettica del vostro prodotto, siete passati a quella di voler dimostrare e dichiarare in etichetta la virtuosità del vostro processo produttivo?
«Come accennavo, dopo essere venuti a conoscenza del protocollo EPD, abbiamo fatto una serie di riflessioni, in merito alle quali vorrei sottolineare una cosa: ai giorni nostri, l’attenzione alla sostenibilità rappresenta sostanzialmente un rating, un valore intrinseco, un indicatore di affidabilità legato all’impresa che ormai anche le banche tengono molto in considerazione. La scelta di essere sostenibili può, a mio parere, quindi, essere considerata innanzitutto una scelta “patrimoniale”. Poi, non da meno, una scelta di responsabilità sociale e culturale, che presuppone di avere rispetto per il mondo in cui viviamo e per chi ci sta intorno. La certificazione crea orgoglio, crea consapevolezza in chi ci lavora, e permette di introdurre in azienda un cambiamento culturale importante. Quanto vale questo? Nell’immediato non lo so, ma credo che nel medio-lungo periodo porterà i suoi frutti».
Per quel che avete potuto constatare finora, vi ritenete soddisfatti della scelta di cambiare l’oggetto della certificazione?
«Avendo ottenuto il riconoscimento solo quindici giorni fa – interviene il dr. Dubini – gli elementi in nostro possesso sono ancora scarsi per tirare le somme. Sicuramente l’interesse c’è, perché in così poco tempo siamo stati già contattati da diversi rappresentanti della GDO locale, interessati alla nostra carne. Vorrei però chiudere sottolineando un ulteriore aspetto: molto spesso l’atteggiamento più diffuso è quello di fare uno sforzo e intraprendere una nuova strada per ottenere un riconoscimento immediato. Io credo che prestare attenzione alla direzione in cui si sta andando e muoversi per tempo, sia già di per sé fondamentale e possa rivelarsi lungimirante. Ed è questo il motivo per cui prima parlavo di lavorare su questo protocollo anche nelle aziende italiane, perché sappiamo tutti quali sono gli obiettivi dell’UE per il 2030. Ad oggi non esiste un mercato per il nostro prodotto, siamo stati pionieri e il futuro è incerto, ma in qualche maniera stiamo costruendo un percorso in cui crediamo fermamente!»