Il latte di capra in Italia è principalmente destinato alla trasformazione casearia. Esiste una notevole variabilità di produzioni casearie a puro latte di capra, molte delle quali “orgogliosamente” prodotte con latte crudo. Dallo yogurt, alla robiola e tutti i suoi derivati a fermentazione lattica lenta e bassa temperatura, fino alle caciotte e tome a coagulazione presamica più o meno stagionate, la qualità del prodotto finito dipende sempre dalla qualità del latte di partenza.

Il latte di capra presenta alcune caratteristiche che lo rendono interessante per il consumo umano. Grazie al caratteristico profilo degli acidi grassi, infatti, assume un ruolo nutraceutico importante nell’alimentazione umana, ritagliandosi uno spazio nel complicato mondo delle allergie ed intolleranze alimentari. Parlando di latte vaccino, spesso si associa l’intolleranza al latte con l’intolleranza al lattosio, forse perché le manifestazioni cliniche gastroenteriche sono abbastanza sovrapponibili. La prima però riguarda una specifica reazione immunitaria, che spesso però non si limita solamente ad una sintomatologia gastroenterica, ma che alcune volte può arrivare fino alla anafilassi. Questo aspetto si manifesta soprattutto verso la componente proteica del latte; per questo motivo sarebbe più corretto chiamarla allergia. La seconda, ovvero l’intolleranza al lattosio, è relativa alla carenza dell’enzima deputato alla digestione specifica del lattosio (lo zucchero del latte), questo enzima lattasi si trova in grande quantità nella fase di allattamento, e raggiunge il suo livello massimo attorno alla 34° settimana per poi decrescere dopo lo svezzamento. La presenza dell’enzima nei soggetti adulti permane in circa il 30% della popolazione con variabilità molto alta, fino a raggiungere la quasi totale assenza per esempio nella popolazione asiatica. Consumare latte di capra o di altri mammiferi diversi dalla bovina non risolve il problema perché lo zucchero del latte è sempre il lattosio (Lomers et al., 2008).

Di fronte ad una intolleranza, o meglio di fronte ad un’allergia al latte vaccino, consumare latte di capra o altri mammiferi può portare benefici? Le proteine del latte vaccino sono molto simili a quelle del latte di altri mammiferi, compresa la capra, pertanto chi manifesta allergia al latte bovino solo talvolta trova benefici nel consumare latte di capra (Infante et al., 2003). Allora perché, nell’immaginario comune, il latte di capra sembrerebbe più tollerato rispetto a quello bovino? Semplicemente perché è più digeribile. Ha un minor contenuto di grasso, proteine e zuccheri e, riguardo la componente lipidica, presenta un minor contenuto di acidi grassi saturi rispetto al latte vaccino.

La componente solida del latte però assume un significato importante in termini di trasformazione casearia. Sono infatti le proteine ed il grasso che in caseificio, oltre a condizionare la resa casearia, rendono uniche le eccellenze che ben conosciamo. Il processo di caseificazione inoltre, trasformando le proteine e consumando il lattosio, spesso risolve i problemi legati ad intolleranze ed allergie. Nell’allevamento della capra da latte, ottimizzare o, meglio, uniformare la qualità del latte, risulta molto più complicato rispetto all’allevamento della bovina da latte. Per capire quali strategie sia possibile attuare per migliorare la qualità del latte occorre rivedere i meccanismi di sintesi, specificatamente di grasso e proteine.

Il grasso del latte è principalmente costituito da trigliceridi. Il latte di capra rispetto al latte vaccino presenta un profilo di acidi grassi abbastanza diverso: risulta infatti particolarmente ricco di acidi grassi a medio-lunga catena e, in termini assoluti, presenta acidi grassi con un minor grado di saturazione (Chillard et al., 2003). Questo aspetto, abbiamo già sottolineato, lo rende particolarmente interessante per la salute umana. Gli acidi grassi a corta catena vengono sintetizzati a livello mammario da precursori derivati dalla fermentazione ruminale (acetato e butirrato). Gli acidi grassi a lunga catena vengono invece trasferiti direttamente alla mammella dal torrente circolatorio. Quelli a media catena hanno una genesi mista.

La percentuale di grasso del latte di capra risulta più alta all’inizio della lattazione per poi calare nella maggior parte della lattazione. Verso la fine della lattazione può nuovamente aumentare (Sauvant et al., 1991). Questo fenomeno dipende da due motivi: il primo è rappresentato dall’effetto diluizione che concentra di più il grasso ad inizio e fine lattazione, ovvero quando abbiamo produzioni inferiori; il secondo è legato alla mobilizzazione dei NEFA, quindi è specifico dell’inizio della lattazione.

Esiste una correlazione diretta tra il contenuto ematico di NEFA e la concentrazione di grasso nel latte, essendo questi diretti precursori per la sintesi lipidica mammaria. Ricapitolando, all’inizio lattazione: bilancio energetico negativo, aumento della concentrazione di NEFA, maggiore sintesi lipidica mammaria. Inoltre, nella normale stagione riproduttiva con parti a fine inverno, si supera il picco di lattazione tra la primavera e l’estate, periodo in cui si registrano i più bassi titoli di grasso in assoluto fino a raggiungere addirittura l’inversione grasso-proteine: l’enorme rompicapo per chi si occupa di alimentazione della capra da latte.

La proteina del latte è principalmente rappresentata dalla caseina (75-80%) seguita da lattoglobuline, lattoalbumine e immunoglobuline soprattutto. Una piccola quota, a completare la componente azotata del latte, è costituita dall’azoto non proteico di cui la principale è l’urea. La proteina del latte viene sintetizzata a livello mammario, anche se il meccanismo di sintesi non è ancora completamente conosciuto. La via di sintesi della proteina a livello mammario deriva dalla disponibilità dei suoi costituenti, ovvero gli aminoacidi. Occorre ricordare che gli aminoacidi si suddividono in essenziali, semiessenziali, ovvero quelli che devono essere assunti con la dieta perché l’organismo non è in grado di produrli, e non essenziali, cioè quelli che l’organismo è in grado di produrre. Risulta piuttosto chiaro che l’assenza di amminoacidi essenziali pregiudica la normale sintesi proteica in termini generali.

La ghiandola mammaria è inoltre un organo molto avido di aminoacidi essenziali. La proteina del latte rappresenta circa la metà della proteina apportata con la dieta. Questo significa che, in un animale in lattazione, la ghiandola mammaria rappresenta la maggiore utilizzatrice di amminoacidi della dieta (Lapierre et al., 2012). A livello mammario la questione si complica ulteriormente. Gli aminoacidi essenziali infatti vengono ulteriormente divisi in due classi (Mepham M.P., 1982): la prima che comprende aminoacidi che hanno un trasferimento pressoché stechiometrico tra input e output mammario (tra questi ricordiamo la Metionina, Fenilalanina, Tirosina, Triptofano), la seconda invece comprende amminoacidi in cui l’input risulta superiore all’output mammario; questi sono tipicamente quelli ramificati. Più semplicemente alcuni aminoacidi essenziali, ovvero quelli del primo gruppo, risultano limitanti per la sintesi della proteina del latte. Quelli del secondo gruppo, avendo significato anche per altri processi metabolici, potrebbero avere un ruolo inferiore in termini di fattori limitanti ma comunque non trascurabile.

Strategie nutrizionali

Le strategie nutrizionali per migliorare la qualità del latte non sono semplici, ma le soluzioni derivano dai concetti appena esposti. Occorre ricordare che la stagione influisce in maniera sostanziale sulla qualità del latte. Tendenzialmente i titoli sono più alti in autunno-inverno e tendono ad abbassarsi in primavera-estate quando infatti viene chiesto al professionista di intervenire. Vediamo come:

La componente lipidica

Abbiamo visto che gli acidi grassi a corta catena derivano da acetato e butirrato prodotti a livello ruminale. L’acido acetico deriva dalla degradazione della cellulosa operata dalla microflora ruminale e rappresenta la quota di acidi grassi volatili (AGV) maggiormente presente (circa il 70%). L’acido butirrico invece è presente in quantità decisamente inferiore. La strategia migliore per aumentare la sintesi mammaria di grasso è favorire la formazione di acetato al livello ruminale e quindi ottimizzare l’utilizzo della fibra (NDF).

Oltre al contenuto di fibra della dieta, un ruolo ancora più decisivo è determinato dalla degradabilità della fibra. Rispetto ai carboidrati non strutturali, la degradabilità della fibra è molto più lenta e dipende da molti fattori. Parlando di foraggi, che rappresentano sicuramente gli alimenti apportatori di fibra per eccellenza, vediamo di capire quali sono i fattori che ne influenzano la degradabilità.

L’utilizzo dell’NDF dipende, oltre che dalla microflora presente nel rumine, anche da alcune caratteristiche intrinseche della fibra stessa, ovvero la capacità che ha di stimolare l’attività ruminativa (masticazione e ruminazione), caratteristica che è indicata come peNDF. Occorre ricordare che per avere un’efficace attività ruminativa almeno 2/3 dell’NDF deve essere peNDF!

Indipendentemente dal tipo di foraggio (prato polifita, medicaio, loietto), ed anche dal periodo di taglio (primo, secondo, terzo taglio), la condizione fondamentale per preservarne le qualità nutrizionali è rappresentata dallo sfalcio al giusto stadio vegetativo, ovvero la prefioritura che, a colpo d’occhio, significa il momento in cui si vede circa il 10-15% di fiori nel prato da sfalciare. Più si tarda, più l’NDF si sposta verso ADF e ADL o, più semplicemente, la componente fibrosa diventa sempre meno degradabile. Questo semplice e banale concetto rappresenta ancora oggi il più insidioso limite all’utilizzo efficiente della componente fibrosa.

Le imprevedibili condizioni climatiche spesso però impediscono di intervenire al momento giusto. Per questo, anche nell’allevamento della capra da latte, sta crescendo l’utilizzo di foraggi fasciati. Occorre però ricordare che lo stesso foraggio fasciato o affienato avrà caratteristiche differenti che devono essere tenute in considerazione. Ad esempio, un fieno di prato polifita, se venisse fasciato, avrebbe il medesimo contenuto in NDF, ma circa il 20% in meno di peNDF, con un aumento della seppur bassa frazione A dei carboidrati (AGV e zuccheri semplici) e la B1 (amidi, ma soprattutto fibra solubile) e ovviamente una riduzione della quota di B2 (la fibra disponibile insolubile). Ricapitolando, il processo di insilamento del foraggio migliora la degradabilità della fibra ma contemporaneamente riduce la peNDF.

Per massimizzare la concentrazione lipidica del latte occorre pertanto focalizzarsi sulla qualità della fibra sotto tutti gli aspetti appena presi in considerazione. Quando la qualità dei foraggi non è ottimale, una strategia efficace potrebbe essere quella di fornire della fibra degradabile alternativa, altrettanto nobile, come per esempio le polpe di bietola e i distillers. Garantiremo però la funzionalità ruminale ad esempio introducendo della paglia che, a fronte di una fibra poco degradabile (frazione B e C), assume un significato soprattutto funzionale.

Per quanto riguarda la componente lipidica di derivazione non ruminale (ac. grassi a media e lunga catena), abbiamo visto che dipende direttamente dalla quota lipidica della dieta. L’aumento del contenuto lipidico della dieta può essere una strategia utile. Alcuni studi (Inglingstad et al., 2017) hanno efficacemente dimostrato che anche nella capra l’aggiunta di grassi idrogenati ha contribuito ad aumentare la concentrazione di grasso del latte (come peraltro è già ampiamente conosciuto per la bovina da latte (Rabiee et al., 2012)). Anche il profilo degli acidi grassi però si sposta verso quelli a media e lunga catena e soprattutto a minor grado di saturazione. Questo scenario potrebbe rappresentare un valore aggiunto per la commercializzazione del latte come alimento. In fase di trasformazione, invece, questo particolare aspetto del profilo degli acidi grassi rappresenta un problema per le caratteristiche strutturali del prodotto.

Occorre però ricordare che, per soddisfare il fabbisogno energetico già in situazioni normali, le razioni tipiche delle capre in lattazione vengono formulate con concentrazione di grasso variabile tra il 4-4,5% della SS. Questo perché nella capra si rischia facilmente di eccedere in amidi o NSC, esitando inesorabilmente nella patologia (SARA). Contemporaneamente però un eccesso della componente lipidica ha una azione negativa sulla microflora ruminale. Per questo motivo occorre fare molta attenzione.

In sintesi, per aumentare il contenuto di grasso del latte le strategie da sfruttare sono: ottimizzare la componente fibrosa della dieta e aggiungere una certa quota di grassi, meglio se frazionati e by-pass.

La componente proteica

Abbiamo visto che la concentrazione della proteina del latte dipende dalla disponibilità di aminoacidi e che, di questi, quelli essenziali risultano essere fattori limitanti per la sintesi del latte. E’ utile inoltre ricordare che la caseina, essendo una proteina di origine animale, ha un profilo ricco di aminoacidi essenziali. Questo significa che gli aminoacidi che arrivano alla mammella devono essere di alto valore biologico. Le strategie nutrizionali per aumentare la concentrazione di proteina del latte non sempre raccolgono i risultati sperati. Spesso l’unico obiettivo perseguibile è quello di scongiurarne un calo, soprattutto nel periodo più difficile dell’anno che è l’estate.

La valutazione generica della proteina della dieta non è più sufficiente per predire in modo completo il suo destino metabolico, ma converrebbe ragionare in termini appunto di proteina metabolizzabile (MP).

La MP è composta da:

  1. proteina batterica, che rappresenta in assoluto la miglior fonte di aminoacidi alto valore biologico;
  2. proteina che non viene degradata a livello ruminale.

Il punto 1 è favorire la sintesi di proteina batterica: occorre fornire un adeguato quantitativo di proteina degradabile (e di quella solubile). Paradossalmente, non c’è limite teorico al quantitativo di proteina degradabile. L’unico limite dipende dalla capacità della microflora ruminale di degradare tutta la proteina fornita ed è rappresentato dalla quantità di batteri in grado di processare tutta la proteina somministrata. Per questo aspetto non possiamo fare nulla. Possiamo però mettere la microflora ruminale nelle condizioni di essere il più efficiente possibile attraverso un adeguato apporto energetico.

È interessante osservare come la classificazione delle frazioni proteiche e dei carboidrati attraverso il sistema CNCPS abbia la stessa nomenclatura (A,B,e C) in relazione al coefficiente di degradabilità che queste hanno all’interno del rumine. Risulta allora intuitivo capire come le componenti dello stesso gruppo siano strettamente correlate tra loro. Quindi lo scenario ottimale risulta essere quello in cui le varie frazioni di proteine e carboidrati con lo stesso coefficiente di degradabilità devono essere rappresentate in uguale misura. A titolo di esempio, fornire proteina solubile (B1) o addirittura azoto non proteico sottoforma di urea (A), deve essere accompagnato da un corrispondente apporto di amidi (B1) e zuccheri (A).

Il punto 2 rappresenta la quota proteica non degradabile che bypassa il rumine. Abbiamo visto come la produzione di proteina da parte della mammella dipenda dalla quantità di aminoacidi essenziali, soprattutto quelli appartenenti al primo gruppo. Quindi, la strategia nutrizionale dovrebbe essere quella di fare in modo che buona parte della proteina non degradabile sia di alto valore biologico. Purtroppo però il mondo vegetale non è tanto generoso sotto questo aspetto. Alcuni alimenti, tuttavia, presentano un profilo aminoacidico interessante. Tra questi ricordiamo il girasole ed i suoi sottoprodotti, il glutine di mais, le trebbie di birra ed i sottoprodotti della distilleria.

Infine, anche nella capra da latte può risultare utile integrare la razione con un apporto di aminoacidi in forma rumino-protetta. La bibliografia a riguardo risulta modesta e gli effetti sulla qualità del latte non sono concordi. Alcuni autori (Flores et al., 2009) hanno evidenziato che la somministrazione di metionina rumino protetta in capre da latte determina un miglioramento sia della produzione che del contenuto di proteina del latte. Altri (Alonso-Mélendez et al., 2016) invece non hanno evidenziato miglioramenti significativi. Anche lisina e colina (che non è un aminoacido ma il cui destino metabolico è strettamente legato alla metionina) sembra determinino un miglioramento della quantità ma non ci sono evidenze sulla qualità del latte. Occorrerebbe pertanto approfondire l’argomento.

La capra da latte presenta delle caratteristiche uniche, anche in termini di fabbisogni nutrizionali. Per questo motivo, molto spesso gli interventi che vengono messi in atto per migliorare le caratteristiche qualitative del latte risultano deludenti. Abbiamo visto che non è possibile, per soddisfare il fabbisogno energetico, intervenire aumentando i carboidrati non strutturali. Questo obiettivo può essere raggiunto somministrando un giusto apporto di grassi. Questo però potrebbe avere un effetto negativo sulla microflora ruminale che è deputata altresì alla degradazione della proteina. Tutto questo per dire che esiste una stretta relazione tra principi nutritivi forniti con l’alimentazione e tutti i vari meccanismi implicati nella genesi dei tenori lipidici e proteici del latte.

In conclusione, per migliorare la qualità del latte occorre applicare puntualmente i concetti appena trattati in un’ottica di insieme.

Bibliografia

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