Il Formai de Mut DOP è, ormai da secoli, il tradizionale formaggio tipico dell’Alta Valle Brembana, prodotto esclusivamente con il latte vaccino, intero, crudo che viene munto e lavorato nelle stalle a fondovalle e nelle casere abbarbicate sugli alpeggi.

Dal luogo dove avviene la mungitura e la lavorazione del latte hanno origine due differenti tipologie dello stesso formaggio: il “Prodotto a fondovalle” (periodo di produzione dal 1° Gennaio al 31 Dicembre) e il “Prodotto in alpeggio”, ottenuto nel periodo compreso dal 20 Maggio al 20 Ottobre sui pascoli in quota. Quando sono sottoposti ad una stagionatura superiore ai sei mesi, entrambi riportano la dicitura “riserva”.

Il comprensorio di produzione del Formai de Mut è situato entro i confini del Parco delle Orobie Occidentali Bergamasche e, più specificatamente, nel territorio di ventuno comuni vallivi, tutti appartenenti alla provincia di Bergamo, quali: Averara, Branzi, Camerata Cornello, Carona, Cassiglio, Cusio, Foppolo, Isola Di Fondra, Lenna, Mezzoldo, Moio De Calvi, Olmo Al Brembo, Ornica, Piazza Brembana, Piazzatorre, Piazzolo, Roncobello, Santa Brigida, Valleve, Valnegra e Valtorta.

Uno dei tanti panorami prealpini dell’Alta Valle Brembana (Foto: Olivari, 2019)

Un ameno ambiente prealpino

L’Alta Valle Brembana si apre geograficamente lungo l’alto corso del fiume Brembo ed è racchiusa da una catena montuosa che si snoda dalle pendici del Monte Ortighera (1.631 m.s.l.m.) e dalla Cima di Menna (2.300 m.s.l.m.) fino alla ripida cresta del Pizzo dei Tre Signori (2.554 m.s.l.m.) e alle guglie rocciose del Monte Venturosa (1.999 m.s.l.m.) lungo un variegato crinale che annovera una serie di cime e di selle che sovrastano un articolato sistema di valli e di versanti: su tutti svetta il Pizzo del Diavolo di Tenda che, con i suoi 2.914 m di altitudine, troneggia lungo lo spartiacque che separa la provincia di Bergamo da quella di Sondrio.

Questo territorio montano, le sue caratteristiche climatico-ambientali, la sua variabilità geologica, la sua ricchezza faunistica e della flora, oltre all’abbondanza di acqua, hanno incentivato, nel corso dei secoli, l’allevamento delle bovine da latte unito alla pratica della monticazione; in particolare, l’eterogeneità della composizione floristica dei pascoli verdeggianti, che si estendono oltre il limitare superiore del bosco, è tra le più ricche fra quelle rinvenibili sulle Alpi e conferisce gli aromi e i profumi peculiari ai prodotti caseari locali.

Un tipico alpeggio dell’Alta Valle Brembana (Foto: Olivari, 2019)

Un’avvincente storia locale

L’Alta Valle Brembana fu anticamente denominata “Valle Brembana oltre la Goggia” e, a partire dal 1364, rappresentò un’entità amministrativa dotata di un proprio ordinamento statuario che fu, peraltro, confermato dalla dominazione veneziana. Oltre all’intero territorio, la Serenissima concesse degli statuti particolari anche ad Averara e alla Val Taleggio, come pure a Valtorta, le quali costituirono delle “valli separate”. Nel 1500 circa, le cronache redatte da Giovanni da Lezze sull’economia della valle, riportano come l’allevamento del bestiame bovino, basato sullo sfruttamento dei pascoli montani, costituisse la più prospera delle attività locali.

Le attività produttive furono legate alle principali risorse naturali del territorio, cioè ai boschi e ai pascoli, tanto che la Valle Brembana divenne la valle dei mandriani che furono chiamati (e lo sono tuttora) i bergamì e la mandria di bovini fu detta (e lo è ancora oggi) la bergamina. L’etimologia del vocabolo bergamina affonda le sue radici nel nome che fu usato per designare le Prealpi di Bergamo dove le vacche venivano demonticate al termine della stagione di alpeggio; in seguito, lo stesso sostantivo definì la vacca lattifera e l’impresa locale di allevamento dei bovini da latte.

Parallelamente, anche la parola bergamì subì un’evoluzione linguistica in bergamino che tuttora designa, in italiano, colui che ha cura dei bovini da latte. All’attività dei bergamini che, di solito, indicava colui che eseguiva la transumanza stagionale per la monticazione e la demonticazione del bestiame bovino, subentrarono i mandriani valligiani che avviarono l’allevamento e la trasformazione casearia affittando i pascoli alto-brembani e li sfruttarono monticando il loro bestiame oppure le mandrie che furono affidate a loro in affitto. In origine, la razza più allevata a questo scopo era la Bruna alla quale, in tempi più recenti, si è aggiunta la Pezzata Rossa e qualche capo di razza Frisona: già nel XVI secolo si ha notizia di cospicue importazioni di bestiame bruno dalla Svizzera e, persino, dalla Germania. La tradizione dell’alpeggio e della trasformazione casearia in quota, fra i 1.300 e i 2.500 m.s.l.m., è stata tramandata fino ai giorni nostri. Infatti, il Formai de Mut deve il suo nome non alla montagna (mut=monte), bensì al pascolo montano: anticamente, la parola “monte” designava il pascolo in quota che veniva affittato per far pascolare i bovini durante la stagione estiva. Da questa assonanza si sono sviluppati tre tipici modi di dire: ‘ndà al mut, ossia andare all’alpeggio;  cargà ‘l mut, cioè condurre il bestiame in alpeggio (monticazione) e, infine, descarga ‘l mut (letteralmente, scaricare l’alpeggio) che definisce la demonticazione. In alpeggio, la trasformazione casearia, operata dal casaro (ol casér), avveniva, e avviene tuttora, in baite attrezzate, chiamate casere, destinate alla lavorazione del latte, alla conservazione delle forme e ad ospitare i mandriani. Fin dai tempi passati, il Formai de Mut si distinse dagli altri formaggi locali, o prodotti nelle zone limitrofe, per il processo di lavorazione e per le sue caratteristiche, ma soltanto agli inizi del ‘900 la denominazione cominciò ad indicare tutta la produzione casearia dell’Alta Valle Brembana.

L’incentivato sviluppo alla diffusione di questo formaggio avvenne, però, soltanto a partire dal secondo dopoguerra quando fu fondata una piccola latteria che, nel 1954, assunse il nome di Latteria Sociale di Valtorta; nei primi tempi, la latteria lavorava solo cinque mesi all’anno, ovvero da Gennaio a Maggio, mentre sul finire degli anni Ottanta, estese la propria produzione a tutto l’arco dell’anno.

In alpeggio, subito dopo la mungitura del mattino, il latte è versato nella coldéra (Foto: Olivari, 2023)

Il processo di trasformazione casearia

Il latte vaccino intero, ottenuto da una o da entrambe le mungiture giornaliere e caratterizzato da una debole acidità naturale, viene raccolto nella caldaia (in dialetto locale è chiamata “coldéra”) di rame e riscaldato a 35-37°C. La cagliata, ottenuta dopo circa 30 minuti dall’aggiunta di caglio bovino o, in alternativa, anche di un innesto naturale o di un fermento selezionato, subisce una prima rottura superficiale usando una spannarola; dopodiché viene lasciata riposare per 3-5 minuti (eventualmente è possibile rompere la cagliata in strisce parallele adoperando la spada). Al termine di questa breve sosta, la cagliata è rotta con uno spino fintantoché i grumi non raggiungono le dimensioni di un chicco di riso.

A questo punto, la massa caseosa subisce una seconda sosta di 10 minuti e, poi, viene riscaldata fino a 43- 50°C. Dopo la semicottura la cagliata subisce, dapprima, un’agitazione fuori fuoco (la coldéra è allontanata dal fuoco facendola ruotare su un braccio, detto “sìgogna”, usato per sostenerla), condotta con movimenti continui e delicati, e successivamente è lasciata giacere nel siero. Terminata questa fase, la cagliata che giace sul fondo della caldaia viene pressata manualmente, porzionata, estratta, avvolta in tele e messa in fascere (“fassere”) dove viene ulteriormente pressata con le mani; il completo spurgo del siero si ottiene, però, sovrapponendo dei pesi. Nei due giorni che seguono le tele vengono sostituite e le forme vengono rivoltate 2-3 volte. Al momento della formatura in fascera, avviene l’identificazione delle forme mediante l’apposizione sullo scalzo di  una  matrice a rilievo che riporta, oltre alla data di produzione, anche il bollo CE che contraddistingue il caseificio di produzione. Poi, le forme vengono estratte dalle tele, lasciate riposare nelle fascere a temperatura ambiente e rivoltate 3-4 volte. Al termine, si procede alla salatura che può avvenire a secco o in salamoia. La salatura a secco è eseguita utilizzando il sale fino depurato seguendo questo procedimento: si sala una faccia della forma e, dopo 24 ore, si rivolta e si sala l’altra faccia; l’operazione è ripetuta per 8-12 giorni consecutivi. Invece, la salatura in salamoia è ottenuta immergendo, per 2-3 giorni, le forme in una soluzione salina (12-14° B). Alla salatura segue la stagionatura: le forme vengono poste su appositi ripiani in legno chiamati in gergo “scalére”. Il formaggio deve stagionare per almeno 45 giorni, ma il periodo può protrarsi anche per uno o, addirittura, più anni; perciò, i periodi di stagionatura sono due: dai 45 giorni ai 6 mesi e superiore ai 6 mesi.

Le erbe dei pascoli nel sapore del formaggio

Il Formai de Mut è un formaggio grasso (tenore minimo pari al 42% sulla sostanza secca), a crosta sottile, compatta, di colore giallo paglierino e non edibile che, al progredire della stagionatura, tende a scurire fino al grigio. All’interno, la pasta ha un colore avorio, leggermente paglierino e una consistenza compatta, elastica e morbida che presenta delle occhiature diffuse con un diametro variabile da un minimo di 1 mm fino alle dimensioni definite “occhio di pernice”; talvolta sono presenti anche piccoli strappi. Il sapore è delicato, leggermente salato, non piccante e al palato sprigiona la fragranza e i profumi tipici delle essenze erbacee che crescono sui pascoli dell’Alta Valle Brembana.

Quando la cagliata è lavorata in alpeggio su un fuoco di legna, con il calore della bocca, il formaggio rilascia gradualmente un delicato sapore di affumicato accompagnato dall’aroma del latte di alpeggio e da un piacevole retrogusto di latte cotto e di burro. Gustando un prodotto di media stagionatura si può apprezzare, invece, un sapore più deciso, floreale e molto persistente, mentre le forme più stagionate sono caratterizzate da una struttura e da una fragranza che racchiudono una notevole complessità organolettica perché, al palato, esaltano la spiccata sapidità conferita dalle erbe pascolate dalle bovine sugli alpeggi accompagnata da un sapore molto persistente contraddistinto da lieve sentore di nocciola nonché di sottobosco.

Come si presenta il prodotto

Il prodotto è confezionato in forme cilindriche di peso compreso fra gli 8 e i 12 kg (sono ammesse delle variazioni ponderali fino a un massimo del ± 10%) con un diametro di 30-40 cm e uno scalzo, dritto o leggermente convesso, che misura 8-10 cm di altezza. Sulle facce piane o semipiane della forma è apposto il marchio che, oltre al nome, riproduce la sagoma stilizzata del tipico campanaccio che pende dal collo delle vacche durante la loro permanenza sull’alpe: la particolarità di questo logo consiste in una forma di formaggio, dalla quale si stacca una fetta, disegnata al centro del campanaccio.

Le forme prodotte a fondovalle sono contrassegnate da un marchio di colore rosso, a differenza di quelle ottenute in alpeggio che presentano un marchio dal caratteristico colore blu. Nel marchio rosso, il logo è ripetuto per ventidue volte lungo tutto il perimetro della circonferenza della forma, mentre nel marchio blu è accompagnato alla scritta “d’alpeggio”, ripetuta per un uguale numero di volte.

L’autore ringrazia per la collaborazione i titolari dell’Azienda Agricola Salvini Juri di Mezzoldo (BG) ed Elisa Morotti laureata in Allevamento e Benessere Animale.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
1) Disciplinare di produzione della Denominazione di origine del formaggio “Formai de Mut dell’Alta Val Brembana”- DPR 10 settembre 1985 – GURI n. 112 del 16 maggio 1986.
2) Registrazione della modifica del disciplinare della DOP «Formai de Mut dell’Alta Valle Brembana» ai sensi del regolamento (UE) n. 1151/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 novembre 2012, sui regimi di qualità dei prodotti agricoli e alimentari. (23A01680) (GU Serie Generale n.67 del 20-03-2023).