Cinghiali fuori controllo: situazione attuale e possibili strategie di contenimento
Una specie che da anni cresce in maniera esponenziale nel nostro Paese, con conseguenti ricadute economiche, ambientali e sociali. In questo articolo lo stato dell'arte e le possibili azioni da mettere in campo spiegate da Barbara Franzelli di ISPRA

Il tema cinghiali e loro contenimento, da tempo non è più di esclusivo interesse agricolo, anche se è innegabile che i danni alle colture ed i maggiori costi che le aziende si trovano a sostenere poiché obbligate ad acquistare alimenti dall’esterno, sono tra i più ingenti registrati.
Le politiche di ripopolamento sostenute negli anni ’70 per finalità venatorie, ed il contestuale progressivo abbandono delle aree rurali da parte dell’uomo con conseguente incremento delle coperture boschive, hanno contribuito a una crescita numerica esponenziale e all’espansione sul territorio di questa specie che, allo stato attuale, risulta molto difficile contenere. Lo sviluppo dei boschi fino alle zone urbane ha, inoltre, creato un’elevata promiscuità che consente il passaggio indisturbato di questi animali anche all’interno dei centri abitati, con conseguente incremento di incidenti automobilistici e problematiche di tipo igienico-sanitario. A tal proposito, infatti, il carattere ubiquitario di questi ungulati massicciamente diffusi nel nostro Paese, desta, ulteriore preoccupazione se si considera il loro ruolo di vettori nella trasmissione di malattie, come ad esempio la Peste Suina Africana, fortunatamente non trasmissibili all’uomo ma responsabili di ingenti danni all’intera filiera produttiva.
Alla luce di tutto ciò, riteniamo interessante approfondire la questione per conoscere lo stato attuale delle misure introdotte in Italia per il contenimento dei cinghiali, ed esaminare gli strumenti a disposizione delle aziende agro-zootecniche nella prevenzione dei danni da essi causati. Ci siamo, per questo, rivolti alla dott.ssa Barbara Franzetti, biologa che dal 2008 lavora per ISPRA, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (leggi anche il nostro articolo “Contro la disinformazione, la scienza: guida agli istituti che fanno chiarezza” ) e dal 2024 ricopre l’incarico di Responsabile della Sezione Mammiferi, gestione conflitti uomo-fauna e specie aliene.
Vogliamo, innanzitutto, provare a delineare insieme la situazione attuale in Italia?
«La frammentazione gestionale del territorio, ripartito in aree protette e zone destinate alla caccia, rende il problema della presenza del cinghiale più difficile da risolvere. Questa divisione ostacola, infatti, una pianificazione efficace degli interventi, creando dinamiche in cui le aree protette fungono da rifugio temporaneo per gli animali durante la stagione venatoria, quando il disturbo antropico sul territorio è massimo. Le aree contigue, istituite dalla Legge n. 394/91, potrebbero svolgere un ruolo cruciale come “zone cuscinetto” tra le aree protette e quelle cacciabili, permettendo una gestione integrata e sostenibile. Tuttavia, in molti casi non sono state istituite, e questa assenza, insieme alla mancanza di coordinamento tra le diverse istituzioni locali (piani regionali) e alla carenza di dati completi e affidabili su quanto viene realizzato, limita l’efficacia degli interventi. Per affrontare efficacemente la questione, è necessaria una strategia nazionale che armonizzi le diverse politiche gestionali, operi attraverso un approccio coerente e concordato sul territorio, sulla base delle risultanze scientifiche derivanti da tutte le informazioni raccolte sulla specie (dagli impatti ai prelievi). A tal proposito, già nel lontano 2003 ISPRA pubblicò un documento intitolato “Linee guida per la gestione del cinghiale“, nel quale la tematica è stata analizzata da diverse angolazioni e dal quale emerge un’importante priorità, tra le tante, ovvero la cura della raccolta dei dati su cui si deve basare un piano specificatamente calibrato alla risoluzione degli impatti registrati. Sappiamo bene, infatti, che per essere statisticamente significativi, i dati devono essere confrontabili, e quindi è fondamentale standardizzarne la raccolta. È poi indispensabile definire con attenzione la fase organizzativa, poiché anche un piano ben strutturato può fallire senza un coordinamento tra le diverse componenti coinvolte. La pianificazione deve mirare all’efficienza e alla semplicità di attuazione delle attività, coinvolgendo attivamente tutte le parti interessate, come cacciatori, agricoltori, enti locali e istituzioni. Un coordinamento efficace può essere realizzato attraverso la creazione di un nucleo operativo composto da figure responsabili, designate da ciascun gruppo di interesse, in particolare in ambiti gestionali di grandi dimensioni, come le province e le regioni.»
Come dovrebbe essere attuata e gestita la raccolta dati, affinché i piani di controllo locali risultino efficaci?
«La raccolta dei dati deve considerare i vari aspetti che riguardano la specie, tra cui l’attività di prelievo, le caratteristiche degli animali abbattuti, i danni alle colture e le attività di prevenzione. Ogni azione di prelievo dovrebbe essere identificata univocamente, e ogni animale abbattuto dovrebbe essere contrassegnato con un numero univoco, riportato su un’apposita scheda contenente informazioni dettagliate. Per organizzare la distribuzione delle schede necessarie, si potrebbero raccogliere in registri prestampati da distribuire alle squadre di caccia e a chi esercita l’attività di controllo. Ogni squadra dovrebbe avere una figura responsabile della raccolta delle informazioni e della compilazione delle schede, opportunamente formata per garantire l’omogeneità delle modalità di rilevamento. La raccolta e l’analisi dei campioni biologici, come mandibole e apparati riproduttivi, dovrebbero essere affidate a personale qualificato, con attenzione particolare alla corretta associazione tra i campioni e i dati biometrici dell’animale. L’individuazione di punti di raccolta per le schede e i reperti biologici è fondamentale; questi punti dovrebbero essere limitati e distribuiti strategicamente sul territorio. Il personale incaricato dell’analisi dei reperti dovrebbe visitarli con frequenza minima settimanale, effettuando la determinazione delle mandibole e ritirando le schede e gli apparati riproduttivi. È importante sottolineare che tali attività, insieme a quelle di archiviazione e analisi dei dati, comportano un dispendio significativo di tempo e risorse, inclusi i costi per lo smaltimento dei campioni analizzati, che devono essere gestiti secondo le normative vigenti.»
Quali sono le soluzioni che gli agricoltori hanno a disposizione?
«Nella sua attività di ricerca, ISPRA ha condotto diverse sperimentazioni in campo al fine di valutare l’efficacia dei metodi di contenimento e prevenzione dei danni. Nella pubblicazione “Linee guida per la gestione del cinghiale (Sus Scrofa) nelle aree protette – II edizione” sono state prese in esame diverse tecniche, tra cui quelle basate sul dissuasori acustici e olfattivi, e quelle che prevedevano recinzioni meccaniche ed elettriche; tra tutte, la recinzione meccanica e quella elettrificata dei terreni sono risultate i sistemi più efficaci ed efficienti, se correttamente installati e manutenuti.
- Le recinzioni meccaniche sono generalmente realizzate con reti metalliche, di acciaio con maglia di 20 cm e spessore 3 mm, e pali in castagno di 220 cm di altezza, di cui 100 cm interrati. I pali vanno posti a circa 4 metri di distanza e la rete interrata per 20 cm, rafforzandola con fili supplementari per impedire ai cinghiali di sollevarla dalla base. I vantaggi di questa soluzione sono la grande resistenza, l’elevata efficacia e la lunga durata nel tempo con manutenzioni limitate; di contro, però, essa richiede un elevato investimento iniziale, una limitazione al passaggio di altre specie selvatiche ed un ostacolo per le lavorazioni dei campi.
- La recinzione elettrificata rappresenta, invece, una soluzione efficace ed economica per proteggere le colture agricole dagli animali selvatici, a condizione che si effettuino regolari ispezioni e manutenzioni. Tra i principali vantaggi c’è il costo contenuto, il minor impatto sull’ambiente circostante, il fatto che non impediscono il passaggio alle specie non dannose e sono semplici da montare. Tra gli svantaggi necessitano però di ispezioni frequenti, almeno settimanali, in caso di condizioni metereologiche avverse, manutenzioni regolari e gestione della vegetazione circostante che, se crescesse troppo, potrebbe invalidarne il funzionamento. Per il controllo si consigliano strumenti come il “Voltmetro a LED”, utile per piccole installazioni, permette di verificare rapidamente la presenza di corrente, e il voltmetro digitale e juolimetro: indispensabili per impianti di dimensioni medio-grandi (oltre 2.000 metri di perimetro), consentono misurazioni più precise e dettagliate.»
A livello di singole Regioni, ci sono delle realtà che stanno raggiungendo dei risultati concreti nella gestione di questa problematica?
«Assolutamente sì, esperienze condotte in diverse aree protette italiane dimostrano che il ricorso a misure integrate, come recinzioni elettrificate e le catture e i prelievi selettivi possono ridurre i danni, ma necessitano di una pianificazione accurata e di risorse adeguate (p.e. Parco dei Gessi Bolognesi; Parco Regionale dei Colli Euganei; Parco Regionale della Maremma; i Parchi del Piemonte). Qui il contenimento dei cinghiali viene gestito attraverso una combinazione di metodi cruenti e non, e il coinvolgimento di personale formato e specializzato. Il Parco Naturale delle Capanne di Marcarolo in Piemonte, ad esempio, è stata la prima area protetta, nel 2001, all’interno del territorio piemontese ad organizzare un corso per “Selecontrollori”, ovvero addetti al controllo della specie cinghiale nelle Aree protette, istruendo ben 32 cacciatori residenti. Anche la Lombardia ha lavorato e sta lavorando molto sul contenimento della specie, considerando l’urgente necessità di scongiurare il disastro economico che potrebbe comportare un ulteriore diffusione della PSA in questo territorio, in cui sono ospitati oltre il 50% dei suini presenti in Italia. I piani straordinari attuati in questi anni si avvalgono dell’uso di tecniche come il prelievo selettivo, anche notturno mediante i visori a infrarossi, nonché il ricorso a società di “professional hunters” e ai finanziamenti alle Province per supportare tali attività (nel 2024 sono stati stanziati circa 700.000 euro), o ancora la costruzione di barriere fisiche, come le recinzioni lungo l’autostrada A4 nel comune di Bernate Ticino (MI), per impedire il passaggio dei cinghiali.»
In considerazione di quanto fin qui emerso, secondo lei, dott.ssa Franzetti, cosa si potrebbe migliorare nella gestione e nel contenimento dei cinghiali?
«Come già evidenziato, Ispra raccomanda come prima azione fondamentale di armonizzare le modalità di raccolta dati, in modo da poter monitorare in maniera scientifica l’efficacia dei piani messi in atto a livello regionale e capire se si stanno effettivamente ottenendo i risultati sperati. Le informazioni provenienti dalle stime dei danni potrebbero rappresentare un buon indice dell’efficacia degli interventi di contenimento della specie, ma spesso arrivano con molto ritardo, poiché le pratiche di refusione sono rallentate dai passaggi burocratici, o non sono corrette, ad esempio, rispetto all’andamento del prezzo di mercato dei beni danneggiati. Per chiarire il concetto: il danno economico subito per la distruzione di un campo di mais prima dello scoppio della guerra in Ucraina era decisamente minore rispetto alla cifra stimata successivamente, a causa del vertiginoso aumento dei prezzi di tale materia prima. Un altro aspetto che potrebbe fare la reale differenza è quello di mettere a disposizione delle aziende agricole del personale tecnico specializzato, che fornisca supporto sia nella messa a punto di misure di prevenzione, che nel contenimento quando si rileva la presenza degli animali. Infine, un tema su cui si è iniziato a lavorare da poco, ma che merita grande attenzione, è quello della gestione delle carni di questi animali selvatici. In un panorama in cui il consumatore ricerca sempre più l’allevamento libero e il non utilizzo di antibiotici, la selvaggina potrebbe rappresentare un’ottima risposta, ma va costruita e gestita a livello locale l’intera filiera. Dunque, direi che di lavoro da fare ce n’è ancora moltissimo!»