«Le scuole per pastori sono delle realtà consolidate all’estero che, negli ultimi tempi, si stanno facendo strada anche in Italia. Paesi come la Spagna, la Francia, il Portogallo e la Svizzera hanno  situazioni attive sul territorio da decenni che, addirittura, rientrano nell’offerta formativa ministeriale. In Italia siamo ancora lontani da questo tipo di organizzazione, ma, dal 2021, sono state avviate alcune iniziative. C’è stata quella di Coldiretti Cuneo, in assoluto la prima a partire, poi quella in Piemonte organizzata dalla Regione, il CREA, l’Università di Torino e la Rete APPIA (che quest’anno sarà replicata in Sicilia nel Parco delle Madonie), e ancora quella della Regione Sardegna, partita lo scorso anno e rivolta a chi già era pastore (e quest’anno dovrebbe aprire anche agli aspiranti), nonché la nostra “ShepherdSchool“, giunta alla sua seconda edizione».

Si apre con questa panoramica l’intervista rilasciataci da Tommaso Campedelli, responsabile del Progetto LIFE ShepForBio cofinanziato dall’Unione Europea nell’ambito del programma LIFE. Il progetto, che ha come obiettivo più ampio il miglioramento dello stato di conservazione di determinati habitat (praterie e pascoli) in alcuni siti toscani e romagnoli della Rete Natura 2000, prevede, tra le varie azioni, l’istituzione appunto di una scuola di formazione per pastori, che fornisca strumenti teorici e pratici per svolgere l’attività pastorale. Questa può, infatti, rappresentare un mezzo per contrastare lo spopolamento delle zone rurali e montane, favorire il ricambio generazionale e garantire il mantenimento della biodiversità di certi luoghi. Giunta, come sopra dicevamo, al secondo dei quattro cicli formativi in programma tra il 2023 e il 2027, anche l’edizione appena avviata, come la precedente, ha registrato numeri di candidature da record. Giusto per dare un’idea, le domande pervenute per il 2024 sono state 94, di cui ammesse a colloquio 38 e selezionate 8, come il numero di posti disponibili.

Considerato l’interesse che sta riscuotendo questa iniziativa, abbiamo voluto conoscerla più da vicino, chiedendo a Tommaso di fornirci un po’ di dettagli, a partire dal profilo dei candidati che hanno partecipato alle selezioni per questa edizione per arrivare alla didattica e gli sbocchi professionali.

«Provenienti da tutt’Italia, con prevalenza dalle regioni Emilia-Romagna e Toscana, e di età principalmente inferiore ai 30 anni, i candidati hanno mostrato diversità sia dal punto di vista della formazione, con presenza anche di laureati in discipline del settore, sia da quello occupazionale, con persone già impegnate professionalmente nel settore del progetto e altre impiegate in tutt’altri ambiti ma intenzionati a cambiare il proprio progetto di vita. Delle otto persone selezionate quattro sono ragazzi e quattro ragazze; uno sotto i 30 anni, cinque tra i 30 e i 40 anni e due sopra ai 40; quattro  partecipanti provengono dall’Emilia Romagna, due dalla Toscana, uno dal Veneto e uno dall’Alto Adige».

Facendo un attimo un passo indietro, cosa vi ha spinto ad organizzare una scuola per pastori?

«I problemi della pastorizia li conosciamo bene, si tratta di un lavoro dove non c’è ricambio generazionale, dove la remuneratività è poca ed i fattori socio-culturali di certo non spingono ad una riscoperta delle sue potenzialità. Parliamoci chiaro, in alcuni contesti il termine “pastore” è utilizzato ancora con accezione quasi dispregiativa. C’è però anche un aspetto più strettamente tecnico: questo lavoro è stato tradizionalmente tramandato in maniera verticale all’interno delle famiglie, quando il cambiamento della società ha interrotto questa continuità comportando lo spopolamento delle montagne e l’abbandono di certe situazioni, si è venuto a creare un vuoto, sul quale ci siamo un po’ interrogati, domandandoci se ci fosse necessità di fornire una adeguata formazione a chi volesse intraprendere questo lavoro non avendo la possibilità di acquisire competenze in altro modo. Il mondo pastorale è un mondo ancora molto chiuso, tanti ragazzi ci hanno evidenziato la difficoltà di entrare in contatto con le aziende. Da tutto ciò si è quindi consolidata in noi la convinzione dell’importanza di istituire una scuola, che da una parte formi professionalmente, e dall’altra, crei un vero e proprio ponte con il mondo del lavoro;  il tutto all’interno di un quadro generale più ampio di conservazione di determinati habitat che rappresentano una fonte di biodiversità per tutti noi».

Come avete strutturato la vostra offerta didattica?

«La scuola si svolge in un arco temporale di tre mesi, in cui vengono alternate attività teoriche ad attività pratiche. Uno dei tre mesi è interamente dedicato allo svolgimento di un tirocinio, e questa è una grande occasione sia per chi partecipa che per chi ospita, perché consente di creare una rete di scambi difficilmente realizzabile in altri modi. Chiaramente, essendo limitata la durata delle attività, al momento della selezione dei partecipanti viene data priorità a chi già lavora nel settore o ha esperienze collegate, in quanto ci rendiamo conto che non è possibile “diventare pastore” in così poco tempo, ma ciò che è fattibile è fornire degli stimoli di crescita, delle occasioni di confronto che altrimenti difficilmente si presenterebbero per chi lavora in certi ambiti».

Quanto è importante la voglia di mettersi in discussione nell’intraprendere questo percorso formativo?

«Mediamente la maggior parte dei candidati sono ragazzi molto giovani, e vi assicuro che sono pieni di risorse. Quando si trovano a frequentare la scuola spesso esce la riflessione sulla possibilità di fare una certa attività in maniera differente da come la conoscono. Vi dirò di più, i ragazzi che hanno partecipato alla formazione, nel momento in cui entrano in azienda a fare il tirocinio portano degli approcci diversi che aprono molto al confronto. Si creano così, in maniera non invasiva, delle occasioni di crescita che risultano di un’importanza veramente strategica per ambo le parti».

Considerando i risultati ottenuti finora, come vedi il futuro della scuola?

«La scuola può dare nozioni tecniche, ma soprattutto stimoli affinché le persone siano spinte a migliorarsi e condurre le attività diversamente, a gestire l’agricoltura in modo nuovo, a parlare di agroecologia e agroforestazione, tutti temi che un allevatore di oggi non può non conoscere, e soprattutto che possono rappresentare un’interessante opportunità economica per lo sviluppo delle aziende. Acquisire la consapevolezza che l’allevatore non è più solamente colui che produce il latte, la carne e il formaggio, ma ha un ruolo decisamente più ampio, ecco la scuola serve a questo! In generale c’è un ritrovato interesse verso la natura e verso certi stili di vita, ma ci sono anche delle cose preoccupanti come queste campagne contro il consumo di carne che sparano nel gruppo senza basarsi su dati scientifici e senza differenziare chi ha allevamenti super intesivi da chi pascola un gregge di 150 pecore in montagna. Detto ciò, tutte le posizioni per me sono legittime, purché non ledano il diritto degli altri, e la mia sensazione è che in certi casi, invece, si stia arrivando a questo. Questo è ciò che mi spaventa, quando c’è una polarizzazione estrema non è mai favorevole, in nessun caso. Perciò ritengo di grande importanza il mantenimento ed il consolidamento delle scuole di pastorizia nel nostro Paese.»

In che modo si potrà assicurare una continuità nell’offerta formativa?

«Sicuramente è un momento favorevole, di fermento. C’è interesse, ma a livello politico ci deve essere l’impegno nel garantire continuità e sostegno adesso. Ci sono delle amministrazioni “illuminate” che riconoscono le potenzialità del comparto ovicaprino, ma per molte altre invece è ancora considerato in maniera troppo marginale. Il supporto lo intendo riferito non solo ai sostegni economici, ma a moltissime altre sfaccettature: la burocrazia, l’accesso alla terra, le figure professionali stesse che ruotano nel comparto. Mi spiego meglio. Non si può pensare che nel 2024 chi fa questo mestiere non possa avere dieci giorni l’anno per andare in vacanza. Questi aspetti si possono gestire con attività consortili, con dei contributi che possono essere usati per pagare un guardiano adeguatamente formato, che abbia la competenza per sostituirsi al pastore. In Francia e in Svizzera ci sono queste figure, e ci sono italiani che vanno a lavorare li. Queste cose fanno la differenza nella qualità della vita di ognuno di noi. Continueranno ad esserci pastori disposti a vivere isolati su un cucuzzolo di una montagna, ma non saranno mai un numero sufficiente a risollevare tutto il comparto. Se vogliamo riavvicinare i giovani a questo mondo dobbiamo metterli in condizione di lavorarci senza che questo rappresenti una scelta di vita estrema. Abbiamo bisogno di più pastori, non di eroi!»

Ringraziando Tommaso per i notevoli spunti di riflessione che ci ha fornito, invito chiunque voglia approfondire la conoscenza del progetto “Life Shep For Bio” a visitare il sito (QUI) e la pagina Facebook (QUI)!