Introduzione

Nell’era moderna, la crescente consapevolezza ambientale ha spinto le aziende a ridefinire sia le produzioni che le proprie strategie di marketing, evidenziando l’ecocompatibilità e la sostenibilità dei propri prodotti e servizi. Questo sarebbe un segnale generalmente positivo, essendo nient’altro che il riflesso di una crescente preoccupazione per il nostro pianeta, le specie che lo abitano e la loro salute. Tuttavia, i fatti ci hanno mostrato che dietro molte delle “rivendicazioni verdi” fatte dalle aziende si nasconde un fenomeno insidioso noto come “greenwashing,” una pratica che mina la fiducia dei consumatori e compromette gli sforzi delle aziende che si spendono per una vera sostenibilità.

Il greenwashing rappresenta la sfida tra l’aspirazione alla sostenibilità autentica e la tentazione di sfruttare il crescente interesse del pubblico per l’ambiente e la sostenibilità per scopi esclusivamente di marketing. Mentre le aziende abbracciano l’ecosostenibilità come parte della loro immagine, non tutte le dichiarazioni ecologiche sono fondate o oneste. In questa analisi approfondita, esploreremo il fenomeno del greenwashing, mettendo in luce le sue manifestazioni, il suo impatto sulla società e l’impianto normativo necessario per identificare e reprimere queste pratiche aziendali dannose. Soprattutto, cercheremo di chiarire il cammino verso un consumismo e una transizione più eticamente responsabile.

Indice

Contesto

Negli ultimi anni, si è assistito a un crescente interesse da parte di aziende e consumatori nei confronti della tematica dell’ecosostenibilità e degli impegni necessari per abbracciare le politiche volte alla tanto discussa transizione verde. In questo contesto, i green claims (pubblicità ambientale) hanno acquisito un ruolo di rilievo come strumento pubblicitario: oggi più che in passato, assumono un ruolo determinante nell’orientare le scelte d’acquisto dei consumatori. Quando si parla di pubblicità ambientale, ci si riferisce comunemente a promesse che riflettono, esplicitamente o implicitamente, il legame tra un prodotto o un servizio e l’ambiente. Queste promesse promuovono uno stile di vita ecocompatibile e delineano un’immagine aziendale caratterizzata da un forte impegno ambientale.

È fondamentale comunicare in modo trasparente e accurato gli sforzi delle imprese che ottengono risultati tangibili nella tutela dell’ambiente. Questo aspetto diventa ancora più rilevante nell’ambito della redazione di bilanci di sostenibilità e rapporti ambientali.

Alla luce di questi presupposti l’Art. 12 del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale – tutela dell’ambiente naturale, introdotto in Italia nel 2014 stabilisce standard precisi di correttezza. L’obiettivo, tra gli altri, è dunque quello di evitare la “sazietà semantica”, ovvero che gli slogan “ecologici” diventino mere frasi di uso comune, prive di significato concreto per quanto riguarda la caratterizzazione e la differenziazione di prodotti e aziende.

Le origini del Greenwashing

Sebbene il termine greenwashing possa sembrare al nostro orecchio un’espressione introdotta solo di recente nel vocabolario comune, le radici del fenomeno affondano nel passato, con origini che risalgono agli anni ‘70 e ‘80, quando i primi grandi colossi dell’industria chimica vi ricorrevano per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica e dei media dall’impatto ambientale negativo (talvolta disastroso) di alcune attività produttive del tempo.

Lo specifico vocabolo (un neologismo inglese, ovvero una parola di nuova formazione che riflette il costante rinnovarsi di una lingua) coniato negli anni ‘90 in sé è una combinazione delle parole “green” (verde), il colore simbolo dell’ecologismo e dei movimenti ambientalisti, e “washing” (lavare), richiamando direttamente il verbo “to whitewash,” il cui significato letterale è “imbiancare” ma, che per analogia significa più precisamente “dissimulare” o “nascondere.” Il concetto potrebbe essere meglio reso in italiano con l’espressione “darsi un velo di credibilità ambientale.” Un marketing di facciata, dunque, perpetrato attraverso attività di comunicazione (e non solo) orientate ad incidere sulla reputazione aziendale senza però avere alcun impatto reale sulla sostenibilità ambientale dei processi produttivi adottati o dei prodotti realizzati.

L’introduzione del termine “greenwashing” nella nostra lingua e nella nostra coscienza comune è attribuita all’ambientalista statunitense Jay Westerveld, noto per aver coniato il termine nel 1986, con la pubblicazione di un saggio sulle pratiche del settore alberghiero. Nel suo scritto, Westerveld metteva in discussione le pratiche di alcune catene alberghiere che sfruttavano l’idea dell’impatto ambientale connesso al lavaggio della biancheria, cercando di convincere gli ospiti a ridurre il consumo di asciugamani, nonostante il motivo principale non fosse affatto quello di ridurre gli sprechi energetici quanto piuttosto quello di aumentare il profitto.

Il lavoro pionieristico di Westerveld ha contribuito notevolmente a sensibilizzare il pubblico sull’importanza di esaminare criticamente le rivendicazioni ecologiche delle aziende. Il termine “greenwashing” è diventato un concetto cardine nel mondo del marketing e dell’attivismo ambientale, poiché continua a essere utilizzato per identificare e denunciare le situazioni in cui le dichiarazioni, gli spot pubblicitari e le campagne di comunicazione sulla sostenibilità potrebbero risultare fuorvianti, poco sincere o semplicemente false.

La linea sottile tra greenmarketing e greenwashing

Il greenmarketing e il greenwashing rappresentano due facce della stessa medaglia nel mondo del consumo sostenibile, ma la loro differenza sostanziale risiede nelle fondamenta su cui le due pratiche si basano. Le aziende che abbracciano il greenmarketing dichiarano apertamente la loro responsabilità sociale nel ciclo di vita dei prodotti, presentandoli come opzioni preferibili per l’ambiente rispetto alla concorrenza. È pacifico sostenere che la chiave di questa strategia sia quindi la verificabilità dell’effettivo basso impatto ambientale del prodotto.

Le aziende ecologicamente impegnate che adottano strategie di marketing verde si sottopongono a una valutazione completa di ogni aspetto della produzione, dal monitoraggio e analisi del ciclo di vita al packaging, alle emissioni. L’impegno è totale e l’obiettivo è garantire che ogni fase del prodotto sia genuinamente sostenibile.

Il concetto di trasparenza diventa fondamentale per le aziende che scelgono di adottare strategie di greenmarketing, sia nella comunicazione interna che esterna. Claim e strategie di comunicazione devono essere veritieri e verificabili, riflettendo dati concreti dell’impatto ambientale del prodotto dall’inizio alla fine del suo ciclo di vita. Queste aziende si impegnano a garantire informazioni chiare e comprensibili, alimentando la fiducia del consumatore attraverso una politica di comunicazione trasparente.

Dall’altro lato della medaglia, come già accennato il greenwashing si basa su un presupposto diametralmente opposto: ingannare il consumatore utilizzando claim e comunicazioni aziendali riferite all’ecologia e alla sostenibilità per occultare il reale impatto negativo del prodotto. In tal senso le aziende adottano una strategia di comunicazione forviante con l’obiettivo di manipolare la percezione del consumatore, utilizzando claim e slogan opachi per costruire un’immagine ambientale che non trova riscontro nella realtà.

Alcune forme di manifestazione del greenwashing

  • Mancanza di dati concreti. Le affermazioni sull’ecosostenibilità non sono supportate da dati o informazioni specifiche.
  • Certificazioni non riconosciute. Vengono dichiarate certificazioni o riconoscimenti che in realtà non sono erogati da organi autorevoli.
  • Enfatizzazione selettiva. Vengono evidenziate solo alcune caratteristiche sostenibili, mentre si evita di menzionare gli aspetti non sostenibili.
  • Informazioni generiche. Le affermazioni sono così generiche da confondere i consumatori anziché informarli.
  • Etichette false o contraffatte. Possono essere utilizzate etichette o marchi falsi o simboli diversi da quelli ufficiali, per creare l’illusione di sostenibilità.
  • Affermazioni non veritiere. Sono fatte affermazioni ambientali che non corrispondono alla realtà.

Gli effetti

Effetti sulla percezione del consumatore

Il greenwashing può influenzare profondamente la percezione del consumatore, che spesso si basa sulle dichiarazioni ambientali delle aziende per prendere decisioni di acquisto. Quando si scopre che un’azienda pratica il greenwashing, nel consumatore ingannato si verifica un senso di tradimento e diffidenza. Questo produce un effetto a macchia d’olio che mina indiscriminatamente la fiducia dei consumatori nelle dichiarazioni ambientali in generale, rendendo più difficile distinguere le aziende realmente impegnate nella sostenibilità e comunque danneggiandole.

Come si può evincere dai dati del Report Osservatorio Immagino relativo al primo semestre del 2022, nonostante il fortissimo interesse dei consumatori ai temi della sostenibilità ambientale e lo smisurato incremento di etichette che comunicano l’impegno per ridurre l’impatto ambientale (oltre 36 mila codici) si sono rilevati due movimenti di segno opposto, con fatturati e offerta in crescita ma con volumi generalmente in calo. Questo non ci sembra riconducibile al fenomeno dell’inflazione, almeno non in maniera esclusiva. Infatti, il paniere dei prodotti collocati nell’area della sostenibilità, ha ottenuto rispetto al 2021, una crescita a valore del +8,6%, e un calo a volume del -4,3%, nonostante i trend di offerta e domanda siano entrambe in crescita (rispettivamente +5,4% e +3,2%) portandoci a supporre che alcuni di questi claim potrebbero non essere supportati da dati facilmente verificabili oppure che siano usati impropriamente cosa che, come già detto, si ripercuote sulla percezione dei consumatori ingenerando in loro sfiducia.

Effetti sulle aziende

Sebbene l’utilizzo della pratica del greenwashing possa inizialmente portare a un aumento delle vendite, nel lungo periodo può avere effetti devastanti sulle aziende che la adottano. La perdita di fiducia da parte dei consumatori può tradursi in una diminuzione delle vendite e in danni irreparabili alla reputazione aziendale. Inoltre, le autorità di regolamentazione possono infliggere multe e sanzioni, creando ulteriori oneri finanziari.

Le aziende che si impegnano sinceramente in pratiche sostenibili, invece, subiscono conseguenze economiche a causa della concorrenza sleale del greenwashing. Queste imprese possono trovarsi in una posizione svantaggiata, non solo a causa della perdita di clienti a favore di aziende meno etiche, ma anche per il costo aggiuntivo di mantenere standard sostenibili autentici.

Alcuni esempi

Sono numerosissimi i settori in cui è stato possibile riscontrare questo fenomeno, dall’industria della moda e dell’agroalimentare, a quella automobilistica e petrolifera. A titolo esemplificativo, e non esaustivo, riportiamo alcuni dei casi più noti.

BP (British Petroleum): BP è stata al centro di accuse di greenwashing, soprattutto a seguito della catastrofe della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon nel 2010. Prima dell’incidente, BP aveva lanciato una costosa campagna pubblicitaria che enfatizzava il suo impegno per le energie alternative e la sostenibilità, mentre la società continuava a essere fortemente impegnata nell’estrazione di petrolio e gas.

Volkswagen (2015): Il colosso tedesco delle automobili è stato coinvolto in uno scandalo noto con il nome di “Dieselgate”. L’azienda aveva installato un software nei propri veicoli diesel per manipolare i test sulle emissioni, facendo apparire i veicoli meno inquinanti di quanto fossero in realtà. Forbes stima che questo scandalo sia costato alla Volkswagen circa 35,4 miliardi di dollari.

H&M Conscious Collection: Molti retailer di abbigliamento, inclusa H&M, negli ultimi anni hanno lanciato linee di prodotti “sostenibili” o “ecologiche”. Tuttavia, la comunicazione dietro a queste linee di abbigliamento è da considerarsi forviante in quanto l’azienda continua a produrre grandi quantità di indumenti non sostenibili e incoraggia il fast fashion.

McDonald’s: anche il fast-food colosso degli hamburger è stato oggetto di pesanti critiche per le sue campagne di marketing che già dal 2009 hanno cercato di promuovere l’immagine di un’azienda ambientalmente responsabile, nonostante le questioni legate agli imballaggi, agli sprechi alimentari e non solo, non fossero neanche sulla via della risoluzione.

Le molte facce del marketing ingannevole

Per estensione, sebbene impropriamente, il termine “greenwashing” viene utilizzato anche per indicare altre azioni di «marketing di facciata» non collegate a questioni ambientali, ma ad ulteriori aspetti della sostenibilità e della responsabilità sociale d’impresa, come il rispetto dei diritti dei lavoratori o la tutela dei consumatori.

Quello di cui ci stiamo occupando qui è solo la punta dell’iceberg in un panorama in cui le imprese cercano di guadagnare credibilità e clienti attraverso approcci ingannevoli. Dal “greenwashing” si sono sviluppati altri neologismi che identificano condotte aziendali simili, sfruttando diverse questioni sociali. Il “pinkwashing”, ad esempio, mira a dirottare l’attenzione dal prodotto in sé, presentandolo con il distintivo fiocchetto rosa, simbolo della lotta al tumore al seno, o proponendo articoli che promuovano l’emancipazione femminile. Allo stesso modo, il “genderwashing” cerca di distrarre il consumatore dall’aspetto qualitativo del prodotto, promuovendolo con riferimenti all’abbattimento delle differenze di genere.

Altri esempi includono il “rainbowashing”, che utilizza attività promozionali inclusive per differenziare prodotti simili, spesso senza effettive differenze sostanziali, attraverso rappresentazioni non stereotipate della vita omosessuale o etichettando i prodotti con simboli e colori associati al mondo LGBTQ+. Queste pratiche, insieme a varianti come il “purplewashing” e il “redwashing”, si inseriscono in un fenomeno più ampio noto come “washing”.

L’efficacia di tali tattiche si basa sulla supposizione che l’opinione pubblica sia sempre più sensibile alle tematiche ambientali e sociali. Tuttavia, questa sensibilità è spesso accompagnata da una mancanza di conoscenza reale o da una prospettiva distorta, in parte dovuta a precedenti azioni di “washing”. In conseguenza a queste pratiche, i consumatori non solo vengono ingannati, ma rischiano anche di distorcere ulteriormente la loro percezione delle questioni ambientali e sociali. Pertanto, è essenziale lavorare affinché i consumatori sviluppino maggiormente la propria consapevolezza critica.

Panorama normativo

Il legislatore nazionale e transfrontaliero si impegna da tempo per combattere il greenwashing e stabilire regole chiare per le dichiarazioni di marketing ambientale.

Negli Stati Uniti, l’Agenzia nazionale di protezione ambientale ha introdotto nel 1992 linee guida per le dichiarazioni di marketing che rappresentano le prime regole sul greenwashing, con particolare attenzione alle agenzie pubblicitarie.

Il governo britannico, nel 1998, ha istituito il Green Claims Code, definendo regole specifiche sui messaggi ecologici e le dichiarazioni di prodotto. In Inghilterra, l’Advertising Standard Authority (ASA) valuta attentamente le pubblicità e interviene in caso di sospetto greenwashing, costringendo le aziende a ritirare le campagne.

In Canada, il Competition Bureau ha stabilito linee guida vincolanti per le aziende al fine di evitare di ingannare i consumatori, prevedendo sanzioni amministrative e/o penali.

In Italia, pur non esistendo ancora una normativa specifica sul greenwashing, è applicato il quadro normativo vigente in materia di pubblicità ingannevole delineato nel Codice del Consumo, specificamente negli Artt. 18-27 quater del D.lgs. n. 206 del 2005 che disciplina i diritti dei consumatori, vietando pratiche commerciali che possano trarli in inganno. In particolare, gli Artt. 21, 22 e 23 del Codice del Consumo offrono una tutela specifica ai consumatori contro pratiche ingannevoli e aggressive.

Un altro strumento normativo rilevante in questo contesto è il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, gestito dall’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria (IAP). Il codice contiene disposizioni etiche per la pubblicità, inclusa quella di natura ambientale. L’articolo 12 in particolare stabilisce che la comunicazione commerciale che afferma o suggerisce benefici ambientali deve essere supportata da dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili. Inoltre, la comunicazione deve chiaramente indicare a quale aspetto del prodotto o dell’attività si riferiscono i vantaggi dichiarati.

Nel contesto legislativo, l’Art. 2598 del Codice civile affronta il “mendacio concorrenziale”, che si verifica quando un imprenditore attribuisce alla propria impresa, o ai propri prodotti, pregi inesistenti. Tale comportamento è considerato lesivo su due fronti: nelle relazioni tra imprese e nei rapporti tra l’impresa e il consumatore, evidenziando così l’interconnessione di questi diritti.

Il quadro normativo europeo per contrastare il greenwashing

Economia circolare: l’emancipazione dei consumatori per la transizione verde

L’economia circolare è un concetto chiave nella transizione ecologica. Si basa sull’idea di ridurre, riutilizzare e riciclare al massimo i materiali e le risorse, in modo da ridurre al minimo lo spreco e l’impatto ambientale.

Il 30 marzo 2022 la Commissione europea ha proposto il primo di una serie di interventi di aggiornamento della normativa europea in materia di tutela dei consumatori per dare agli stessi gli strumenti necessari per affrontare la transizione verde e compiere scelte informate e rispettose dell’ambiente durante l’acquisto di un prodotto.

Questo assetto normativo si propone di tutelare i consumatori contro affermazioni ambientali inaffidabili o false, vietando espressamente il “greenwashing”, l’obsolescenza programmata e introducendo informazioni sulla durabilità dei prodotti.

Infine, modifica ulteriormente la direttiva sulle pratiche commerciali sleali (UCPD) aggiungendo nuove pratiche alla “lista nera” delle pratiche commerciali sleali già vietate, tra le quali:

  • Non informare su funzionalità introdotte per limitarne la durata, ad esempio un software che interrompe o riduce la funzionalità del bene dopo un determinato periodo di tempo;
  • Fare affermazioni ambientali generiche e vaghe laddove non è possibile dimostrare l’eccellente prestazione ambientale del prodotto o dell’operatore commerciale. Esempi di tali affermazioni ambientali generiche sono “rispettoso dell’ambiente”, “eco” o “verde”, che suggeriscono o creano erroneamente l’impressione di eccellenti prestazioni ambientali.
  • Fare un’affermazione ambientale sull’intero prodotto, quando in realtà riguarda solo un determinato aspetto dello stesso.
  • Visualizzazione di un’etichetta di sostenibilità volontaria che non è basata su uno schema di verifica di terze parti o stabilita dalle autorità pubbliche.

Nell’elaborare la proposta, la Commissione ha consultato oltre 12.000 consumatori, nonché aziende, esperti dei consumatori e autorità nazionali. La verifica dell’affidabilità delle dichiarazioni ambientali sui prodotti è stata vista come il più grande ostacolo che impedisce ai consumatori di impegnarsi nella transizione verde.

La direttiva Green Claims

Con la proposta del 22 marzo 2023 la Commissione europea individua norme più specifiche sulle dichiarazioni ambientali, oltre a un divieto generale di pubblicità ingannevole. Integrando così la proposta del marzo 2022 sulla responsabilità dei consumatori per la transizione verde.

La proposta introduce norme minime per le aziende che fanno dichiarazioni ambientali, richiedendo verifiche indipendenti e prove scientifiche prima della comunicazione di qualsiasi “dichiarazione verde”. Si mira ancora a vietare indicazioni ambientali generiche e a regolare le etichette ambientali per evitare confusione tra i consumatori.

Infatti, uno studio della Commissione europea condotto nel 2020 ha evidenziato che il 53,3% delle asserzioni ambientali esaminate nell’UE sono risultate vaghe, fuorvianti e il 40% infondate.

Questa iniziativa si allinea con l’impegno della Commissione nell’ambito del Green Deal europeo, affrontando la mancanza di norme comuni per le dichiarazioni ambientali volontarie e contrastando il greenwashing che crea disuguaglianze nel mercato dell’UE.

La proposta prende di mira affermazioni esplicite, come ad esempio: “T-shirt realizzata con bottiglie di plastica riciclata”, “erogazione compensata in termini di CO2”, “imballaggio realizzato con il 30% di plastica riciclata” o “crema solare rispettosa dell’oceano”. Mira, inoltre, ad affrontare la proliferazione delle nuove etichette ambientali pubbliche e private, e copre tutte le affermazioni volontarie relative agli impatti, agli aspetti o alle prestazioni ambientali di un prodotto, servizio o del commerciante stesso.

Prima che le aziende comunichino ai consumatori uno qualsiasi dei tipi di “dichiarazioni verdi” coperte, tali affermazioni dovranno essere verificate in modo indipendente e dimostrate con prove scientifiche. Nell’ambito di questa analisi, le aziende identificheranno gli impatti ambientali effettivamente rilevanti per il loro prodotto, oltre a individuare eventuali compromessi, per fornire un quadro completo e accurato.

Le multe o le sanzioni, previste dal Regolamento, dovrebbero essere sufficientemente severe da impedire effettivamente all’azienda di ottenere vantaggi economici dal proprio comportamento sleale. Ciò può includere sanzioni fino al 4% del fatturato annuo dell’azienda.

Si prevede che la proposta entrerà in vigore nel 2024, con un periodo di avviamento tra il 2024 e il 2027, seguito successivamente dal funzionamento su vasta scala da parte di ciascuno Stato membro.

Sono così sintetizzabili i 4 doveri fondamentali a cui le aziende dovranno adeguarsi in tema di green claim:

  • Obbligo di attestazione: un professionista designato dall’azienda deve definire in modo preciso e misurabile l’impatto della prestazione ambientale in tutte le sue componenti. I dati di supporto devono essere, per quanto possibile, raccolti direttamente dal professionista e devono essere significativi rispetto al ciclo di vita del prodotto. Inoltre, in conformità al principio di onestà, non devono enfatizzare aspetti positivi a discapito di svantaggi ambientali né evidenziare il mero rispetto degli obblighi di legge vigenti che l’impresa deve rispettare di per sé.
  • Obbligo di comunicazione: come precedentemente illustrato, tutte le informazioni relative all’analisi, ai suoi risultati e alle certificazioni da enti terzi devono essere rese disponibili al consumatore. Il documento deve essere redatto in modo facilmente comprensibile e nella lingua del consumatore.
  • Obbligo di verifica e certificazione: con riferimento alla direttiva sui Green Claims richiede l’intervento di un certificatore esterno accreditato. Questo soggetto è incaricato di verificare i risultati dell’analisi iniziale e di convalidarli ufficialmente attraverso un certificato di conformità riconosciuto.
  • Obbligo di revisione: periodicamente, l’impresa deve ripetere il processo di analisi, verifica e certificazione utilizzando dati aggiornati.

La tutela penale

Dopo tutte le considerazioni svolte su questa scorretta pratica commerciale che mette fortemente a rischio la tutela ambientale, che nega gli obiettivi del Green Deal, che rinnega i principi ispiratori delle norme europee in materia, che trasgredisce apertamente il diritto cogente, che si burla dei consumatori e dei loro diritti, e dopo aver parlato delle sue cause e delle conseguenze, e dell’impianto normativo di riferimento, che cerca di prevenire, arginare e contrastare questa pratica, dobbiamo farci una doverosa domanda: perché i responsabili di tali condotte, nel 2023, dovrebbero essere ancora dispensati da qualsiasi conseguenza penale?

Meglio ancora, perché il legislatore comunitario – e di conseguenza quello nazionale – si precludono a priori lo strumento penale?

Benché infatti la leva penale sia opportunamente da considerarsi l’estrema ratio sanzionatoria, è anche vero che beni giuridici di rango primario – come quelli che qui ci occupano – abbisognano soprattutto di tutela penale.

A rigore di ciò l’alternativa preferibile sarebbe quella di creare fattispecie incriminatrici ad hoc, in conformità agli obiettivi di efficacia della tutela nonché ai principi di tipicità e tassatività propri del diritto penale. Tuttavia, i tempi del legislatore penale sia comunitario che nazionale non sempre si confanno alle tempistiche dei ben più svelti trasgressori.

Per ovviare al problema, nel caso specifico del greenwashing, sembra ben possibile apprestare un certo grado di tutela mediante il ricorso a previsioni codicistiche già tipizzate. Considerando che nel nostro Codice penale sono già presenti almeno due fattispecie incriminatrici che si prestano abbastanza bene allo scopo.

Dunque, nell’attesa di poter contenere puntualmente il fenomeno criminoso, non ci resta che utilizzare gli strumenti che l’ordinamento ci mette già a disposizione.

Il primo reato che potrebbe assolvere opportunamente a questo scopo è la “frode nell’esercizio del commercio(art. 515 C.p.). Il precetto punisce con reclusione fino a due anni chiunque – nell’esercizio di una attività commerciale – consegna all’acquirente una cosa mobile per un’altra, ovvero una cosa mobile, per origine, provenienza, qualità o quantità, diversa da quella dichiarata o pattuita. La norma trova quindi la sua ragion d’essere nel noto principio dell’aliud pro alio. A tal proposito, secondo il parere della scrivente, ma più opportunamente anche secondo l’autorevole parere della Corte di Cassazione, vantare in capo ad un prodotto qualità ambientali che non gli appartengono dovrebbe rientrare nella fattispecie di cui qui si è solo accennato, qualificandosi come una divergenza qualitativa.

Una volta chiarito il rapporto evidentemente stretto tra il greenwashing e la figura della frode in commercio, è importante sottolineare che non esistono motivi validi per escludere che la pratica commerciale in questione, in determinate circostanze, possa configurare addirittura il più grave reato di truffa (Art. 640 C.p.). Questo è particolarmente rilevante per quanto concerne la “truffa contrattuale”, argomento sul quale la Corte di Cassazione ha stabilito principi di diritto che sembrano applicabili anche al fenomeno del greenwashing, nonostante le apparenze di distinzione tra le diverse fattispecie.

Una variante peculiare della suddetta fattispecie incriminatrice è stata recentemente analizzata dalla Suprema Corte, che ne ha delineato i requisiti costitutivi, oggettivi e soggettivi. In particolare, in una Sentenza del 3 dicembre 2020, la Corte ha affermato che “risponde di truffa contrattuale l’idraulico che, facendo credere al cliente che la caldaia non è più funzionante, lo induce a versare un acconto per la sostituzione, senza poi adempiere a tale sostituzione”. Questo perché la vittima è stata spinta ad accettare il preventivo per la nuova caldaia, erroneamente convinta che quella esistente non fosse più idonea.

Inoltre, un’altra Sentenza della Corte di Cassazione del 30 settembre 2021 ha affermato che “nel contesto della truffa contrattuale, il mancato rispetto da parte di uno dei contraenti delle modalità di esecuzione del contratto, concordate inizialmente con l’altra parte, mediante condotte artificiose atte a causare un danno con conseguente profitto ingiusto, configura l’elemento degli artifici e raggiri richiesti per il reato di cui all’art. 640 C.p.

Pertanto, non sussistono ostacoli significativi all’applicazione del reato di truffa nel contesto del greenwashing, né nella formulazione letterale della fattispecie penale (art. 640, c. 1, c.p.), né nella giurisprudenza della Suprema Corte, caratterizzata da un’interpretazione estensiva di questo illecito, specialmente in merito al rilievo truffaldino della menzogna.

La corrente dominante della giurisprudenza, anche quella più recente, ritiene che il mendacio possa costituire artificio o raggiro semplicemente perché, rappresentando una forma di inganno mediante la creazione di un’illusione per convincere la persona offesa di una situazione inesistente, è considerato idoneo a trarre in inganno l’altro contraente (C., Sez. II, 20.9.2011). Quest’orientamento si inserisce in un filone interpretativo consolidato, il quale sostiene in modo quasi costante che la sola menzogna sia sufficiente per integrare gli elementi costitutivi del delitto di truffa.

Entrambe le figure possono offrire uno strumento efficace per contrastare il greenwashing, tuttavia, è importante che l’applicazione di tali norme sia accompagnata da una corretta valutazione delle circostanze e delle prove a disposizione.

Inoltre, l’implementazione di una tutela penale contro il greenwashing dovrebbe essere supportata da una maggiore consapevolezza e formazione delle autorità giuridiche, dei consumatori e delle stesse imprese. Solo attraverso un approccio integrato che coinvolge aspetti normativi, educativi e di sensibilizzazione si potrà realmente contrastare efficacemente il fenomeno del greenwashing e garantire una transizione verso un consumo più eticamente responsabile e sostenibile.

Considerazioni finali

Per contrastare il greenwashing è essenziale riconoscere che il fenomeno non solo danneggia la credibilità delle singole aziende, ma ha anche un impatto più ampio sulla lotta globale per la sostenibilità. Consumatori informati e attenti sono fondamentali per promuovere un reale cambiamento, e il greenwashing mina questa fiducia, creando un ambiente in cui le aziende potrebbero essere tentate di compromettere la sostenibilità a vantaggio di un ritorno di immagine immediato.

L’analisi del fenomeno ci ha permesso di comprendere le sue varie manifestazioni, evidenziando la necessità di un impianto normativo robusto per identificare e reprimere queste pratiche dannose. La regolamentazione efficace è cruciale per proteggere i consumatori, garantire la trasparenza aziendale e stimolare l’adozione di pratiche sostenibili autentiche.

Infine, la strada verso un consumismo eticamente responsabile richiede la collaborazione tra aziende, governi, organizzazioni non governative e, soprattutto, i consumatori stessi. È fondamentale educare il pubblico su come riconoscere il greenwashing, premiare le aziende autenticamente impegnate nella sostenibilità e incoraggiare scelte di consumo più consapevoli. Solo attraverso un impegno congiunto possiamo sperare di raggiungere una vera sostenibilità, preservando il nostro pianeta per le generazioni future.

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