Dust bowl. Negli anni trenta, in quell’area di pianura degli Stati Uniti in cui per anni si è coltivato e sfruttato il suolo con la nuova agricoltura chimica “come se non ci fosse un domani”, oltre 300 episodi di tempeste di sabbia resero evidente un caposaldo dell’agricoltura (da sempre conosciuto): la produzione di cibo non può prescindere dalla fertilità del suolo, che si mantiene con la rotazione delle colture e con l’aumento della sostanza organica stabile (humus) nell’orizzonte coltivato.

L’indiscriminato sfruttamento del suolo con l’agricoltura intensiva, ha ridotto questa risorsa ad un substrato sterile, sul quale si interviene con sementi performanti (quando non OGM), pesticidi e fertilizzanti di sintesi per ottenere il raccolto previsto.

  • Primo risultato: scomparsa della fauna terricola.
  • Secondo risultato: diminuzione drastica della sostanza organica.

Oggi basta chiedere ad un operatore agro-meccanico (meglio noto come contoterzista) che abbia almeno superato la soglia della pensione per sentirsi dire che, rispetto a 30 anni fa, la potenza necessaria per arare lo stesso campo è – come minimo – triplicata, ma forse anche peggio. E questo non è altro che il risultato del continuo sfruttamento del suolo agrario con colture sempre uguali o con rotazioni striminzite.

In Pianura Padana, quando si parla di fertilità, si alzano gli scudi: “Sono i migliori terreni d’Italia, qui si produce il massimo per ogni coltura…”, ma il presupposto di questa produzione è la fertilità labile dovuta al continuo utilizzo dei reflui zootecnici. Però così non si crea sostanza organica stabile, che è il cuore della fertilità.

L’agricoltura biologica, da sempre e molto prima che venisse normata, prevede nelle sue linee guida l’aumento della fertilità dei suoli e del loro contenuto in humus.

E’ stato recentemente pubblicato un libro molto interessante, “La storia del biologico, una grande avventura”, scritto da Alberto Berton: si può dire che la storia moderna del biologico sia nata cento anni fa, quando – nel 1924 – Steiner organizzò il suo famoso ciclo di conferenze e parallelamente, Sir Albert Howard con la moglie Gabrielle fondarono in India l’Institute of Plant Industry.

Da allora in avanti, un succedersi di eventi interessanti portarono il movimento “organico” alla situazione attuale. Una menzione speciale, in Italia, spetta al Prof. Alfonso Draghetti. Direttore per molti anni della Stazione Sperimentale Agraria di Modena, scrisse nel 1948 “Principi di fisiologia dell’azienda agraria”, un interessantissimo testo nel quale descrive la sua idea di azienda agraria, biologica, corpo unico che si sviluppa e mantiene grazie alla circolazione tra gli elementi che lo compongono: terreno, coltivazioni, animali. Egli riconosce una piccola circolazione, descritta come la restituzione della fertilità al terreno attraverso le coltivazioni, e una grande circolazione, intesa come la restituzione della fertilità alla terra attraverso gli animali.

I regolamenti comunitari hanno mutuato – non certo inconsapevolmente – da questo studio e dagli altri che lo hanno preceduto, il mantra dell’allevamento biologico: rapporto funzionale dell’allevamento con il terreno, che deve produrre foraggio e al quale si deve restituire sostanza organica.

La normativa prevede che il carico di bestiame su un ettaro di terreno agricolo connesso all’allevamento non superi il limite imposto anche per le zone vulnerabili ai nitrati, pari a 170 kg/ha di azoto per anno. Ovviamente, questo rapporto sarà da declinare per ogni specie allevata, determinando il numero di animali che ogni ettaro potrà sopportare.

Ma questa è solamente la norma: al fine di realizzare ciò che auspicano alcuni considerando del vigente regolamento comunitario, è necessario migliorare la fertilità del suolo, così che possa sempre produrre il foraggio necessario per l’allevamento, e contemporaneamente sia in grado di aumentare la sostanza organica stabile.

Come abbiamo visto, non esiste allevamento biologico senza connessione diretta con il terreno. Ciò significa che l’azienda zootecnica deve mettersi nelle condizioni di avere a disposizione superficie coltivabile sufficiente per coprire il carico di peso vivo del proprio allevamento. Per fare un esempio: il Reg. UE 2018/848 prevede che ogni ettaro di terreno coltivabile possa mantenere al massimo 2 bovini adulti.

Purtroppo, come sempre succede quando si tratta di normativa, prendere il dato così com’è permette di rispettare i parametri, ma non è detto che rispetti il terreno. Ma vedremo più avanti il motivo di questa affermazione. La normativa regola anche le condizioni minime di gestione della rotazione dei terreni coltivati in biologico, sia destinati alla produzione primaria (cibo per le persone), sia destinati alla produzione di foraggi (cibo per gli animali).

E i parametri minimi per “stare nelle regole” sono i seguenti: in caso di seminativi, la medesima specie, al termine del ciclo colturale, è coltivata sulla stessa superficie solo dopo l’avvicendarsi di almeno due cicli di colture principali di specie differenti, uno dei quali destinato a leguminosa, maggese o coltura da sovescio. Pare evidente che ci troviamo di fronte ad una rotazione striminzita, nemmeno quadriennale come la leggendaria (per chi ha studiato agraria) rotazione di Norfolk (grano, rapa, orzo, trifoglio). Questa rotazione triennale minima garantisce all’operatore solo l’assenza di Non Conformità al momento dell’ispezione annuale dell’Organismo di Controllo, ma non garantisce certamente il risultato che si vuole ottenere, cioè il miglioramento della fertilità del suolo e della vita nel suo strato coltivato.

Bisogna, però, rendere merito agli allevatori biologici: sono anch’essi impegnati a rispettare la normativa, ma hanno dalla loro la possibilità di “allargare” la rotazione, quanto meno perché risulta normale inserire una leguminosa pluriennale come la medica che permette di far riposare il terreno, rifornendolo di prezioso azoto, sintetizzato a partire dall’azoto atmosferico dai rizobi, ospiti delle loro radici. Inoltre, il lungo periodo (almeno tre anni, a volte di più) di permanenza dell’erba medica in campo permette una stabilizzazione della fauna terricola, in quanto il suolo non viene coltivato durante questo periodo.

Comprensibilmente, perciò, le migliori condizioni perché il terreno coltivato in biologico esprima il massimo delle sue potenzialità, sono quelle di minor disturbo. Significa che è necessario mettere in pratica almeno queste due modalità: aratura – possibilmente – mai, e terreno sempre coperto. L’industria delle macchine agricole ha fatto passi enormi negli ultimi anni per poter mettere a disposizione degli agricoltori attrezzature in grado di ottenere buoni risultati prescindendo dalle grandi lavorazioni: ormai è possibile affinare il terreno per la semina anche con un solo passaggio, senza perciò arare e affinare il terreno con erpici di varia natura. Ed è altresì possibile ottenere una buona pulizia meccanica delle colture con strigliatori in grado – se utilizzati con criterio – di eliminare la maggior parte delle piante spontanee dai seminativi.

Operando in questo modo, cioè ampliando la rotazione, utilizzando macchine per lavorazioni superficiali al momento della semina, macchine dedicate al diserbo meccanico in coltivazione, e mantenendo il terreno coperto tutto l’anno, un allevatore biologico troverà soddisfazione nella resa delle sue colture destinate al foraggiamento, e vedrà un miglioramento tangibile delle condizioni del terreno che – alla verifica analitica – dimostreranno un aumento della sostanza organica stabile e un incremento della popolazione vivente del suolo, indice di vitalità.

Da quanto esposto finora, appare chiara la correlazione stretta tra allevamento biologico e terreno agricolo, a patto però che l’allevatore intenda operare per ottenere il massimo risultato dal suo complesso organismo biologico (Draghetti: terreno – coltivazione – animali), e questo risultato si ottiene solo se si riesce ad implementare il primo considerando del Reg. 2018/848 che recita così: la produzione biologica è un sistema globale di gestione dell’azienda agricola e di produzione alimentare basato sull’interazione tra le migliori prassi in materia di ambiente e di azione per il clima, un alto livello di biodiversità, la salvaguardia delle risorse naturali e l’applicazione di criteri rigorosi in materia di benessere degli animali e norme rigorose di produzione.

Purtroppo, nel nostro Paese, la produzione biologica in campo zootecnico non è particolarmente sviluppata: come per tutti i settori dell’agricoltura non basta produrre bene e qualitativamente per ottenere il giusto prezzo di vendita, ma bisogna contrarre quanto più possibile i costi di produzione, almeno fintanto che non si riuscirà a ribaltare le condizioni di mercato che vedono la distribuzione farla da padrona. E questo problema, per gli agricoltori e allevatori biologici è ancora più evidente, viste le limitazioni che il regolamento impone.

Ma è importante crederci e impostare la propria attività con una visione di lungo periodo, sapendo che vi sono le condizioni per ottenere grandi soddisfazioni, non fosse altro che per il fatto che i nostri famosi prodotti italiani, se declinati in BIO, otterranno sempre l’apprezzamento dei consumatori. Inoltre, ne beneficeranno sempre più terreni, che vedranno migliorare le proprie caratteristiche vitali, ad esclusivo beneficio delle generazioni che si succederanno impegnandosi nel nobile lavoro dell’agricoltore/allevatore.