Le proteste degli agricoltori, includendo in essi anche gli allevatori, stanno continuando a crescere in tutta Italia e, tranne singoli episodi, si stanno svolgendo in maniera molto civile. Altro aspetto molto positivo è che ad oggi gli agricoltori hanno respinto qualsiasi tentativo di strumentalizzazione da parte delle forze politiche, anche se queste non hanno mai smesso di provarci.
A differenza di tutte le proteste che mi è dato di ricordare, questa dei trattori d’inizio 2024 non ha una specifica motivazione. Un tempo ci furono rimostranze sulle quote latte o sui prezzi bassi del latte crudo alla stalla, ma questa mobilitazione ha ragioni molto complesse e profonde, che oserei definire anche umanistiche. In primis la rabbia e la frustrazione verso l’industria di trasformazione del latte e la GDO. La produzione primaria, non essendo sufficientemente tutelata a monte nei confronti del mercato dei mezzi tecnici di base, come possono essere gli alimenti zootecnici, l’energia, le sementi e i concimi, e a valle per il prezzo del latte e della carne alla stalla, è troppo esposta alle speculazioni sia finanziarie che economiche. L’agricoltura e gli allevamenti, essendo settori strategici per i popoli, dovrebbero essere protetti in questo senso. Questo non significa sussidi a pioggia, perché con il tempo potrebbero cambiare le cose sia a livello UE che italiano. I governi non possono non cercare soluzioni che siano l’intervenire con azioni di controllo su ciò che serve agli agricoltori, generalmente gestito dal potere finanziario, o in alternativa proteggere i prezzi di cessione dei prodotti agricoli e zootecnici con dei meccanismi di indicizzazione di cui abbiamo più volte parlato e scritto.
Se gli agricoltori sono in piazza da settimane è evidente che il meccanismo che condiziona il loro reddito è troppo fragile. Gode di una certa stabilità a valle solo chi trasforma i propri prodotti e li vende direttamente, ma ovviamente ciò non può rappresentare la soluzione per tutti anche se è altamente consigliabile per le piccole aziende. Anche se può sembrare un’eccessiva ingerenza dello Stato, il gap tra prezzo di cessione dei prodotti agricoli e zootecnici e quanto si trova nei super e negli ipermercati deve essere in qualche modo regolamentato. È impensabile che la GDO faccia il buono e il cattivo tempo sul cibo, e che i loro periodici presunti mancati guadagni si riversino a cascata erodendo il ricavo della produzione primaria. Quanto sono “letali” per la produzione primaria le campagne del “sottocosto” della grande distribuzione! Il liberismo economico potrebbe anche andar bene, ma sicuramente non può funzionare quando si parla di cibo.
A differenza delle imprese non agricole, gli agricoltori hanno poche o nulle possibilità di innovare la loro offerta per adattarla ai sempre mutevoli desiderata dei consumatori. Sicuramente la gente cerca nelle etichette aspetti etici e salutisti rassicuranti sul cibo che vuole comprare. Molti dei percorsi previsti dal Green Deal europeo non nascono dalle idee “green” dei politici dell’attuale governance europea ma da quello che la maggior parte degli europei vuole quando è in modalità “consumatore” ma anche “elettore”. Questa attenzione alla sostenibilità dei prodotti e al “benessere animale” contenuta nel Green Deal non è solo europea, e deve essere vista dagli agricoltori come un’opportunità per veder accrescere il proprio profitto. Questo non è avvenuto perché è mancato il dialogo tra la produzione primaria e l’Europa, e poche o nulle sono state le iniziative “strutturali” introdotte per proteggere e migliorare il reddito degli agricoltori.
A mio avviso, per non perdere l’appoggio della gente, non va contestato il Green Deal Europeo ma come è stato gestito a livello UE e a livello nazionale. Questa cultura dilagante del negazionismo-revisionismo-complottismo ha sicuramente giocato un ruolo decisivo nel delegittimare quella che avrebbe dovuto essere un’opportunità sia per i cittadini e sia per gli agricoltori.
Il settore primario ha un ruolo fondamentale come produttore di cibo, è quindi ovvio che gli obiettivi dei cittadini e quelli degli agricoltori coincidono. Non lo fanno quando in mezzo si inseriscono interessi politici, ideologici e finanziari. Gli agricoltori dovrebbero essere più chiari nel dire che non stanno lottando contro l’Europa ma contro il modo con cui questa prende le decisioni, perché forte è il sospetto nell’opinione pubblica d’ingerenze straniere su questa sacrosanta lotta degli agricoltori per la tutela dei loro diritti.
Chiedere di annullare il Green Deal non fa bene all’immagine dell’agricoltura. Dà invece un ulteriore aiuto alle multinazionali del cibo che hanno tutto l’interesse a delegittimare la produzione primaria a vantaggio del cibo ultraprocessato, che è bene chiarire per evitare ulteriori confusioni non è né la farina d’insetti e neppure la “carne” coltivata. L’industria del cibo ultraprocessato ha ormai fatto passare il concetto che è bene dare ai cani e ai gatti le crocchette perché i cibi primari fanno male. Sembra incredibile ma stanno tentando di farlo anche con l’uomo.
Oltre a queste aziende, altri nemici dell’agricoltura sono le cosiddette associazioni animaliste e ambientaliste, che sono la prima fonte di disinformazione e con le quali è difficile organizzare ogni tipo di dialogo e confronto. Relativamente alla zootecnia non è chiaro quello che alcune di loro chiedono: vogliono l’estinzione degli animali d’allevamento a vantaggio di un comportamento alimentare vegano oppure un miglioramento della qualità della vita di questi animali? Ma quest’ultimo aspetto come può non essere condiviso da chi alleva animali?
Un altro rischio di questa sacrosanta protesta è che si strumentalizzi in chiave antieuropea. Girano sui social alcuni post che fanno sorgere un ragionevole dubbio sulla loro autenticità e che potrebbero essere diffusi da profili falsi di chi, italiano o straniero che sia, è poco interessato all’agricoltura ma lo è all’indebolimento dell’Europa.