Massimo Matteo, oggi Responsabile Casaro del Gruppo Officine Gastronomiche Spadoni, racconta in una lunga e interessante chiacchierata la storia degli strumenti in caseificio, della loro evoluzione, da quando lui, giovanissimo, oltre 40 anni fa, ha iniziato ad affiancare suo padre nel caseificio di famiglia a Imola. 

I suoi ricordi d’infanzia ruotano attorno alla ‘mastella di legno’, dove si lavorava il latte nei primi anni 50 e di come bisognasse pulirla solo con acqua fredda per non togliere al legno il suo potere fermentativo. 

Il legno in quegli anni era il materiale più utilizzato in caseificio: oltre a mestoli e cucchiai, c’era lo spino, essenziale per le lavorazioni. Lo spino si ricavava dall’albero di biancospino ed era costituito da un bastone con rametti corti, sottili ma molto robusti, che ben rompeva la cagliata. Poi c’erano le assi, sempre in legno, su cui si stagionavano i formaggi e su cui si lasciavano maturare anche quelli a pasta molle.

È stato solo verso la fine degli anni ’60 che sono arrivati anche nei caseifici più piccoli strumenti innovativi, come il pastorizzatore, fino ad allora utilizzato solo nelle grandi centrali del nord Italia per il latte alimentare. 

È sempre di quel periodo l’introduzione dei fermenti, prodotti in Nord Europa, prima surgelati e poi liofilizzati. 

Nei caseifici, anche piccoli, si utilizzavano fermenti naturali, autoprodotti, siero-innesto o latto-innesto soprattutto. Il metodo per produrre fermenti autoctoni consisteva nello scaldare il latte nei bidoni d’acciaio a bagnomaria e poi portarlo a temperatura di sviluppo batterico in base al tipo di formaggio che si intendeva produrre.

Il latte arrivava in caseificio dopo la raccolta nelle stalle e veniva trasportato in bidoni di alluminio prima e di acciaio poi. Nei mesi invernali non c’erano problemi nel tragitto dalla stalla al caseificio, ma in estate bisognava trovare un modo per raffreddarli e si utilizzava l’acqua corrente per tenere bassa la temperatura. Quindi, non essendo diffuso l’impianto di raffreddamento (se non nei grandi caseifici), il latte veniva lavorato a temperatura appena arrivato nel locali di trasformazione. 

Dopo il legno, il contenitore per la lavorazione del latte era di vetroresina, poi alluminio, e infine acciaio.
Oggi sono molto diffuse le polivalenti per la trasformazione del latte, con enormi potenzialità, in grado di lavorare da 4 a 100 gradi, rendendo oltretutto molto sicuro il lavoro del casaro in ogni sua fase.

Tutti questi passaggi mettono in risalto l’artigianalità del lavoro del casaro, prima come adesso. 

Artigianalità, che vuol dire, nelle parole di Massimo Matteo:

l’adattamento del casaro al latte e non viceversa.

Tutte le mattine quando il latte arriva in caseificio dopo le analisi di routine, con macchinari ora sofisticati, lo si lavora rispettando le sue caratteristiche, che ovviamente sono influenzate da un numero pressoché infinito di fattori, e lo si trasforma in un prodotto che ha, ancora, un alone di magia fra caglio e formaggio.