Non credo si possa contestare il fatto che il latte e la carne, e con essi gli allevamenti, siano oggetto di una continua e martellante campagna di denigrazione da parte delle associazioni animaliste, che non si battono per migliorare la qualità della vita degli animali d’allevamento ma in nome del veganesimo.

Questi movimenti vegani mascherati di animalismo combattono affinché non esistano più le specie allevate per produrre cibo per l’uomo, ovvero bovini, bufali, pecore, capre, conigli, polli, galline e suini, e quindi ne auspicano l’estinzione di massa in nome di una presunta salute dell’uomo e del pianeta.

Non mi risultano esistere (e se esistessero sarebbero in netta minoranza) associazioni animaliste che lottano affinché gli animali d’allevamento facciano una vita migliore, degna di essere vissuta. Non mi risulta neppure che ci siano, almeno in Italia, associazioni animaliste che hanno come obiettivo quello di migliorare la qualità della vita degli animali da compagnia e di quelli da sport.

Queste associazioni, e alcuni giornalisti della stessa idea, vogliono che l’umanità mangi solo vegetali e cibi ultraprocessati, la cui esistenza non solo è tollerata ma anche implicitamente consigliata, anche se produrre cibo di sola origine vegetale con la terra coltivabile di cui disponiamo non basterebbe per garantire la sicurezza alimentare di ogni uomo che abita la terra.

Avere dalla propria parte le multinazionali del cibo che hanno di fatto il monopolio degli alimenti ultraprocessati è indubbiamente più vantaggioso dal punto di vista economico e sociale che difendere allevatori e contadini che coltivano la terra e allevano gli animali. Il “dona ora” che compare sulle loro newsletter, e la potenziale o effettiva ovvia benevolenza dei giganti del cibo è sicuramente molto attraente.

In una società come quella occidentale, dove la religione e le ideologie stanno perdendo potenza, l’animalismo emotivo e poco argomentato, insieme al negazionismo-complottismo-revisionismo, trovano terreno fertile perché danno sicurezza psicologica alla gente, lavoro e prestigio sociale. Gli animalisti, siano essi giornalisti, politici o associazioni, attingono a mani basse alla retorica populista sottraendosi al confronto tecnico-scientifico e filosofico con chi non vuole che gli animali d’allevamento, gli allevatori e l’agricoltura si estinguano.

Appartiene alla retorica vegana la convinzione antropocentrica che dalle fabbriche dell’uomo e dalla sua possibilità di manipolare la materia possa sgorgare quel cibo artificiale raccontato da decenni da quella cinematografia che parla di un futuro sulla terra più o meno distopico. E’ destino dell’uomo, secondo loro, mangiare le crocchette come i cani e come i gatti, e come dopotutto fanno anche gli astronauti.

Gli animalisti, e anche molti ambientalisti, non hanno un rapporto sereno e vero con la natura. Conoscono spesso solo quella artificiale dei parchi cittadini che condividono con i loro animali da sport e d’affezione, ormai sempre più simili nell’aspetto e nel comportamento all’uomo. Per i tanti che vivono nelle città, e che non hanno più rapporti né con il mondo rurale né con la natura selvaggia, gli animali provano gli stessi sentimenti dell’uomo e hanno desideri di benessere tipicamente umani. Non si pongono il problema se la castrazione e il costringerli a vivere negli angusti e innaturali spazi delle città sia gradito ai cani e gatti, e se le atroci sofferenze delle tante razze deformi di questi animali sia moralmente accettabile.

Si parla delle “lobby” che sono dietro agli allevamenti e all’agricoltura intensiva. Ma perché quelle che “spingono” il cibo artificiale non lo sono? O esistono lobby del cibo buone e cattive?

Sembra che ormai si faccia a spintoni a chi grida più forte quanto la carne e il latte facciano male alla salute e all’ambiente mentre il silenzio sul cibo artificiale è assordante. Ma è anche giusto così, altrimenti cosa mangerebbe un vegano?

Si accusa la coltivazione della soia di essere la causa della deforestazione dell’Amazzonia, affermando che se non ci fossero più gli allevamenti questa pratica sparirebbe, ma quando si pubblicano i dati su che fine fa la soia e su quale ruolo abbia nell’alimentazione umana cala la consueta coltre di silenzio, come cala quando si parla di natura, quella vera, delle sue leggi e di cosa vorrebbero realmente gli animali d’allevamento per avere una vita degna di essere vissuta. In un articolo pubblicato da Ruminantia a fine 2022 dal titolo “I ruminanti non mangiano la soia ma i suoi scarti” ho cercato di fornire dati a chi vuole parlare della soia con onestà intellettuale e non in modo ideologico.

E’ l’uccisione degli animali per mangiarseli un problema? Ma la morte di vecchiaia in natura non esiste perché lì l’economia circolare è perfetta e, a differenza di quello che pensa l’uomo, non è l’individuo ma la specie e la sua diffusione sul pianeta l’obiettivo prioritario.

Cosa dovremmo fare? Allevare gli animali da cibo per poi non mangiarli o non consumare uova e bere il loro latte? E dove troveremo le risorse economiche per farlo?

Ma quello che è ancora più sconvolgente del mondo occidentale è che all’aggressiva retorica animalista nessuno si oppone. Sono proiettati in tutta l’Italia, ma anche in Europa, documentari come Food For Profit di Giulia Innocenzi e Pablo D’Ambrosi (che abbiamo recensito in questo articolo) a cui nessuno risponde.

Non con la censura, perché la libertà di parola e di pensiero sono dogmi su cui non si deve discutere, ma con il dialogo e il dibattito pubblico.

Nei paesi non occidentali, dove religioni e le ideologie sono ancora molto presenti, non c’è traccia del populismo animalista, non perché siano popolazioni culturalmente arretrate ma perché non c’è la necessità di riempire un vuoto culturale. Il vero e unico obiettivo di questo animalismo vegano occidentale non è tanto battersi per far star meglio gli animali e il pianeta quanto sostituirsi alle grandi ideologie e alle religioni traendone notorietà e profitto.

Ma i sindacati agricoli e la politica rimangono in silenzio, e questo mettere la testa sotto la sabbia giorno dopo giorno sta allontanando la gente dall’agricoltura e dalla zootecnia stendendo un tappeto rosso all’avanzata del cibo artificiale.