Rò e Bunì nomi di buoi romagnoli

T’amo, o pio bove; e mite un sentimento / di vigore e di pace al cor m ‘infondi, / o che solenne come un monumento / tu guardi i campi liberi e fecondi / o che al giogo inchinandoti contento / l’agil opra de l’uom grave secondi … “. Così inizia Il bove, uno di quei sonetti che molti decenni fa s’imparavano a memoria dalla terza alla quinta elementare, quando i campi italiani erano ancora arati dai buoi che per il toscano Giosuè Carducci erano di razza bianca chianina o maremmana e che tutti i giorni erano governati dai contadini, buoi non anonimi perché ognuno di questi animali aveva un nome proprio.

Tradizionali sono i nomi dati ai bovini, alcuni dei quali di lontana, millenaria origine, come quelli medievali di Rò e Bunì, che fino alla metà del secolo scorso erano in uso in Romagna. Rò e Bunì sono anche i comandi che il contadino romagnolo di un tempo passato dava ai buoi che trainavano l’aratro per andare a destra o a sinistra, sempre che i buoi, essendo anche questi romagnoli, e di conseguenza cocciuti, gli dessero retta, o almeno questa è la tradizione e l’opinione di Eraldo Baldini e Giuseppe Bellosi (Calendario e folklore in Romagna – Ravenna, Il Porto, 1989). Nella Romagna del passato, l’aratura era compiuta con un paio di buoi: il bue aggiogato a sinistra era chiamato Rò e quello aggiogato a destra Bunì, una tradizione antica che certamente risale al medioevo, quando in molte immagini anche di miniature non solo si vede l’aratro trainato da due buoi, ma questi sono spesso raffigurati di colore diverso, uno con il mantello bianco o chiaro e l’altro con il mantello rosso, rossiccio o chiazzato. Rò è il bue dal mantello rosso o rossiccio, Bunì è il bue con il mantello biancastro, ed in un antico documento (1461) si parla di un bue albus sive bonellus. Molti sono i colori dei mantelli bovini del passato ai quali si attribuiscono significati e valori tradizionali. I buoi di mantello rosso o rossastro sono ritenuti più forti e per questo sono aggiogati a sinistra dove lo sforzo dell’aratura è maggiore. Per lo stesso motivo, la maggior parte delle coppie di buoi, venduti o concessi in soccida, è costituita da un esemplare rossiccio ed uno biancastro (rosso e bonello).

L’uomo dà un nome agli animali

Dare un nome alle cose ed agli animali ha la precisa connotazione antropologica di un possesso che troviamo già nei primi libri della nostra civiltà. Nella Bibbia è l’uomo, non Dio, che dà il nome agli animali: “Dio, il Signore, avendo formato dalla terra tutti gli animali dei campi e tutti gli uccelli del cielo, li condusse all’uomo per vedere come li avrebbe chiamati, e perché ogni essere vivente portasse il nome che l’uomo gli avrebbe dato. L’uomo diede dei nomi a tutto il bestiame, agli uccelli del cielo e ad ogni animale dei campi; ma per l’uomo non si trovò un aiuto che fosse adatto a lui” (Genesi 2:20-21). Nell’Odissea molti sono gli animali ma di questi solo uno ha un nome, ovvero Argo, il cane che riconosce il suo padrone Ulisse. Secondo la tradizione, il cavallo di Alessandro Magno è chiamato Bucefalo, o testa di bue, probabilmente per la sua forza. Per i bovini, si hanno indicazioni che un nome fosse dato ai tori delle tauromachie o taurocatapsie dell’antica civiltà cretese. Anche nel culto della divinità egizia Api, i tori venerati, neri con macchie bianche, scelti in base a particolari forme delle macchie stesse, considerate segni sacri se raffiguranti una mezzaluna sul fianco ed un triangolo bianco sulla fronte, probabilmente avevano un nome.

Nomi di bovini

Fino alla metà del 1900, nelle stalle, i bovini hanno nomi in gran parte tradizionali. Nella pianura padana i nomi spesso si riferiscono al colore del mantello (Bianca, Bianchina, Rossa, Mora, Morella ecc.), alla taglia (Piccola, Granda ecc.) o alla provenienza dell’animale (La Modenesa o La Modena, La Romagnola ecc.). Nella seconda metà del novecento non mancano stalle nelle quali le vacche hanno nomi che riflettono le passioni del proprietario e tra queste stalle, per testimonianza personale, vi sono quelle nelle quali il proprietario dà alle vacche nomi di pesci (Trota, Anguilla, Carpa ecc.), motociclette (Guzzi, Laverda, Lambretta ecc.) o attrici (Sofia (Loren), Grace (Kelly), Gina (Lollobrigida) Ava (Gardner), Marilina), senza dimenticare qualche nome di sapore politico. I nomi dei bovini sono accuratamente scritti con il gesso sulla targa di legno nero posizionata sulla posta assegnata all’animale, dove sono segnate anche le date dell’ultima fecondazione o del parto probabile.

Ogni regione italiana, ma soprattutto ogni allevatore, ha la massima libertà nella scelta dei nomi dei suoi animali che possono anche divenire filastrocche, come quella di Vallo di Nera in provincia di Perugia dove, a metà Novecento, nella stalla di Andrea Ridolfi, contadino fantasioso, vivono contemporaneamente Capitano e Bersagliere, Barona e Cittadina, Capricciosa e Brillantina. I primi due sono una coppia di buoi destinati al giogo ed al biroccio, le seconde vacche, le terze giovenche e dopo di loro vengono Pulcinella, Parmigiana, Campagnola e Montagnola (mentre il somaro si chiama Poponese e la mula Rosina). In stalle vicine ci sono Biancuccia, Paesana, Bianca, Caporoscia, Ciuchetta, Rondinella, La Maremmana, La Mora, Broccoletta, Cardellino e Leoncino, nomi ispirati caratteristiche fisiche e funzionali degli animali o ai comportamenti più o meno vivaci.

Linguistica dei nomi bovini

Dare un nome proprio agli animali domestici, soprattutto a quelli di grossa taglia, è una consuetudine irrinunciabile che fissa l’appartenenza dell’animale al nucleo familiare e che, alla luce di recenti ricerche, può essere considerato persino fruttuoso. Secondo uno studio dell’Università di Newcastle diffuso dall’ESIGEA, ente di sviluppo per l’energia e l’ambiente, le bovine battezzate arriverebbero a produrre decine di litri di latte in più: il nome permetterebbe infatti lo sviluppo della personalità, ed uno stato di felicità e di relax favorevole alla lattazione. I nomi propri che l’uomo dà agli animali, ed in particolare ai bovini, è un campo ancora quasi inesplorato. In Italia vi è un’unica ricerca maturata da Mauro D’Aveni (Torino 1958), un perito agrario che in un’ultradecennale attività lavorativa di assistenza tecnica specialistica agli allevamenti piemontesi, matura una profonda conoscenza del mondo agricolo, interessandosi soprattutto dei fenomeni linguistici e socio-culturali che lo caratterizzano. Nel 1993 D’Aveni si laurea in Lettere Moderne nell’Università di Torino con una tesi in Geografia Linguistica intitolata Boonimia in provincia di Torino: un percorso di ricerca, che poi si sviluppa nel volume Bandiera, Gentila & le altre. I nomi dei bovini in provincia di Torino (Paperback – January 1, 1994). Questo studio sui boonimi (nomi propri dei bovini) è una novità linguistica nel panorama linguistico italiano e riguarda 1716 nomi diversi attribuiti a 5646 bovini del territorio piemontese. Attraverso una classificazione per categorie strutturali e grammaticali e per aree semantiche, il nome degli animali diviene uno strumento d’indagine di un immaginario, perché il nome non è una vuota etichetta ma rappresenta anche un indicatore culturale che mette in luce la complessità e la tipicità che vi era nell’immaginario contadino, facendo emergere le matrici sociali e culturali che lo sostanziavano e che tendono a perdersi con l’industrializzazione agrozootecnica.

Bovini dai nomi ai numeri

Così come cambiano i nomi umani anche quelli degli animali si modificano nel tempo. Per convincersene basta guardare i nomi delle bovine campionesse e premiate nelle Mostre Nazionali delle diverse razze o dei tori da riproduzione dei Libri Genealogici dove abbondano nomi stranieri composti da quelli dei progenitori. Inoltre, i bovini oggi tendono a perdere il nome a favore di un numero e ad essere identificati con un codice che può essere riportato in un contrassegno auricolare (marca in plastica, marca metallica, tatuaggio) o nel trasponder del collare e, salvo poche eccezioni, il mungitore che opera in una sala di mungitura può solo leggere il numero della bovina nella marca che porta all’orecchio, mentre il robot di mungitura legge il numero contenuto nel collare. Spesso, oggi, l’animale non è più un individuo che con il suo nome ha un diretto e personale rapporto con l’allevatore, ma un numero che è letto dal robot, venendo a far parte di una macchina da allevare della quale l’animale è divenuto parte indissolubile. Con la scomparsa del nome scompare anche un mondo nel quale non è più l’uomo che dà il nome agli animali, ma è una macchina che dà loro un numero.

Ro e Bunì trainavano l’aratro dei nostri contadini. Ro era quello posizionato a destra, Bunì o Bì a sinistra. Ro era rosso, Bi era bianco. Xilografia. Ettore Nadiani. Raccolta privata.

 

 

 

Giovanni Ballarini, dal 1953 al 2003 è stato professore dell’Università degli Studi di Parma, nella quale è Professore Emerito. Dottor Honoris Causa dell’Università d’Atene (1996), Medaglia d’oro ai Benemeriti della Scuola, della Cultura e dell’Arte del Ministero della Pubblica Istruzione della Repubblica Italiana, è stato insignito dell’Orde du Mérite Agricole della Repubblica Francese. Premio Scanno – Università di Teramo per l’Alimentazione nel 2005, Premio Giovanni Rebora 2014, Premio Baldassarre Molossi Bancarella della Cucina 2014, Grand Prix de la Culture Gastronomique 2016 dell’Académie Internationale de la Gastronomie. 

Da solo ed in collaborazione con numerosi allievi, diversi dei quali ricoprono cattedre universitarie, ha svolto un’intensa ricerca scientifica in numerosi campi, raggiungendo importanti ed originali risultati, documentati da oltre novecento pubblicazioni e diversi libri. 

Da trenta anni la sua ricerca è indirizzata alla storia, antropologia e in particolare all’antropologia alimentare e anche con lo pseudonimo di John B. Dancer, ha pubblicato oltre quattrocento articoli e cinquanta libri, svolgendo un’intensa attività di divulgazione, collaborando con riviste italiane, quotidiani nazionali e partecipando a trasmissioni televisive. Socio di numerose Accademie Scientifiche è Presidente Onorario dell’Accademia Italiana della Cucina e già Vicepresidente della Académie Internationale de la Gastronomie.