La storia dell’uso di trattamenti termici sul latte è abbastanza antica: già 40 anni prima che Louis Pasteur conducesse i suoi studi, William Dewes raccomandava di riscaldare il latte a livello domestico prima di nutrire i bambini. Egli aveva infatti osservato che, quando il latte veniva portato ad ebollizione e rapidamente raffreddato, la tendenza al deterioramento si riduceva. Anche il contributo di Gail Borden è precedente a quello di Pasteur: infatti Borden nel 1853 brevettò un processo per scaldare e condensare il latte sotto vuoto con successiva aggiunta di zucchero per la conservazione. Va tuttavia specificato che l’effetto di distruzione microbica conseguito con la pastorizzazione non fu riconosciuto fino agli importanti lavori di Pasteur.

I trattamenti termici effettuati sul latte crudo devono essere tali da assicurare la distruzione di microrganismi patogeni nel caso di latte a breve conservazione a temperature refrigerate e di abbattere la flora sporigena nel caso di latte conservato a temperatura ambiente, fino ad arrivare al progressivo azzeramento della flora non patogena, a seconda della tipologia di prodotto. Per raggiungere tali obiettivi è importante che il processo di trattamento termico sia impostato in modo da fornire la sufficiente quantità di calore fino al raggiungimento della temperatura prefissata, da mantenere per un tempo prestabilito in base ad una corretta combinazione tempo/temperatura. Ma quali elementi considerare per impostare correttamente tale combinazione? Dal momento che l’effetto del calore è sia sulla flora microbica che sulla qualità del prodotto finito, le variabili da tenere in considerazione sono diverse, riconducibili essenzialmente a tre grandi categorie: qualità microbiologica del latte da trattare, temperatura del periodo di conservazione del latte trattato e requisiti di accettabilità nutrizionale e sensoriale del latte trattato.

La funzione primaria del trattamento di pastorizzazione è quindi quella di eliminare la microflora patogena non sporigena. Negli anni, l’entità del trattamento termico, definita in termini di combinazione tempo/temperatura, è stata stabilita in modo da assicurare l’eliminazione di Mycobacterium bovis Coxiella burnetii (microrganismo responsabile della febbre Q). Entrambi i batteri citati sono i più termoresistenti tra i patogeni. Una parentesi va aperta per il batterio Mycobacterium paratubercolosis, che è risultato più resistente rispetto a M. bovis alle usuali condizioni di pastorizzazione se presente nel latte crudo in numero maggiore di 10 UFC/ml. In letteratura, ci sono studi che hanno valutato la sopravvivenza di M. paratubercolosis al trattamento in batch (63°C per 30 min) e in continuo (HTST, 72°C per 15 s) per contaminazioni iniziali del latte crudo pari ad almeno 100000 UFC/ml. Vi sono poi studi che hanno determinato che in condizioni controllate di flusso turbolento e con certezza effettiva della durata della sosta alla temperatura di pastorizzazione, i cinque ceppi analizzati di M. avium spp. paratubercolosis non sopravvivono al trattamento. Come previsto dal Reg. (CE) n. 853/2004 che stabilisce norme specifiche in materia di igiene per gli alimenti di origine animale, in particolare dal punto II del Capitolo II (requisiti per il trattamento termico), allegato III:

“1. Quando il latte crudo, il colostro, i prodotti lattiero-caseari e i prodotti ottenuti dal colostro sono sottoposti a trattamento termico, gli operatori del settore alimentare devono garantire che ciò avvenga nel rispetto dei requisiti di cui all’allegato II, capitolo XI, del regolamento (CE) n. 852/2004. In particolare, quando utilizzano i processi di seguito elencati, provvedono affinché essi si svolgano alle condizioni sottoindicate:

a) la pastorizzazione è ottenuta mediante un trattamento che comporti:

i) un’alta temperatura per un breve periodo (almeno 72 °C per 15 secondi);

ii) una bassa temperatura per un periodo lungo (almeno 63 °C per 30 minuti); oppure

iii) qualsiasi altra combinazione tempo/temperatura che consenta di ottenere un effetto equivalente;

in modo che, immediatamente dopo aver subito il trattamento, i prodotti reagiscano negativamente all’eventuale test della fosfatasi alcalina.”

Alle temperature previste dal processo ad alta temperatura per breve periodo (High Temperature Short Time, HTST), vengono disattivati quindi i batteri patogeni, tra i quali ricordiamo: Brucella abortus (disattivato a 71°C per un parametro D di 0,17 min), Campylobacter jejuni (55°C per un parametro D di 1 min), Escherichia coli O157:H7 (64,5°C per un parametro D di 0,27 min), Staphylococcus aureus (71,7°C per un parametro D di 0,29 min), Salmonella Senftenberg 775W (62,8°C per un parametro D di 0,22 min), Listeria monocytogenes (71,5°C per un parametro D di 0,07 min).

La legislazione europea in materia di igiene alimentare prevede la valutazione dell’efficacia del trattamento di pastorizzazione, vero e proprio punto critico di controllo nel processo produttivo del latte pastorizzato, tramite il test della fosfatasi alcalina, che deve dare esito negativo (il risultato del test della fosfatasi alcalina è considerato negativo se l’attività misurata nel latte vaccino non è superiore a 350 mU/L, come da Reg. (CE) n. 2074/2005) per dimostrare l’efficacia del trattamento applicato, sia che si tratti di HTST sia di qualsiasi altra combinazione tempo-temperatura, incluso il processo a cosiddetto LTLT (Low Temperature Long Time, bassa temperatura per lungo tempo: di fatto, il trattamento a 63°C per 30 min).

L’applicazione del test della fosfatasi alcalina non è l’unico obbligo al quale è necessario ottemperare in fatto di igiene del latte pastorizzato. Vanno considerati anche i cosiddetti criteri microbiologici, cioè quei criteri che definiscono “l’accettabilità di un prodotto, di una partita di prodotti alimentari o di un processo, in base all’assenza, alla presenza o al numero di microrganismi e/o in base alla quantità delle relative tossine/metaboliti, per unità di mas­sa, volume, area o partita” e che sono specificati dal Reg. (CE) n. 2073/2005. In particolare, detto regolamento stabilisce i criteri d’igiene di processo (ovvero i criteri microbiologici che definiscono il funzionamento accettabile del processo di produzione; tali criteri non si applicano ai prodotti immessi sul mercato e fissano valori indicativi di contaminazione microbiologica al di sopra del quale sono necessarie misure correttive volte a mantenere l’igiene del processo di produzione in ottemperanza alla legislazione in materia di prodotti alimentari) per il latte pastorizzato:

 

Il criterio “Enterobatteriacee” va a sostituire quello riferito ai coliformi nel latte pastorizzato e previsto dalla norma nazionale ex DPR 54/2007, come indicato nelle “Linee guida relative all’applicazione del Regolamento (CE) n. 2073/2005 e successive modifiche ed integrazioni sui criteri microbiologici applicabili agli alimenti” approvate dall’intesa Conferenza Stato Regioni del 2016. Tra i criteri di sicurezza alimentare (definiscono l’accettabilità di un prodotto o di una partita di prodotti alimentari e sono applicabili ai prodotti immessi sul mercato), vanno considerati i limiti previsti per L. monocytogenes (assente in 25 g di prodotto prima che il latte pastorizzato non sia più sotto il controllo diretto di chi lo produce) ed inferiore a 100 UFC/g per il latte pastorizzato in fase di commercializzazione. Vi sono poi altri valori rilevanti ai fini dell’igiene del latte pastorizzato, quale gli stafilococchi coagulasi positivi che devono essere inferiori a 100 UFC/ml (in caso di superamento di 105 UFC/ml è prevista la ricerca di enterotossine stafilococciche) e Salmonella spp. (assente in 25 g di prodotto).

 

Riferimenti bibliografici

V.H. Holsiger, K.T. Rajkowski, J.R. Stabel, 1997. Milk pasteurisation and safety: a brief history and update. Scientific and Technical Review of the Office International des Epizooties

Germano Mucchetti, Erasmo Neviani, 2006. Microbiologia e tecnologia lattiero-casearia. Qualità e sicurezza. Tecniche nuove