Sembra un’ovvietà dire che gli allevamenti dovranno essere sempre più belli e funzionali in modo da dare un’impressione di bellezza a chi li visita e offrire agli animali che li ospitano il massimo del comfort, facendolo percepire alla gente. Il modello che fin qui ha prevalso, e s’impone tuttora, è che un allevamento deve essere essenzialmente funzionale a massimizzare i ricavi e ridurre al minimo i costi.

Tra queste due affermazioni non ci dovrebbe essere una contraddizione ma quello che cambia è il presupposto. Si può dire che un allevamento possiede un’estetica funzionale quando “asseconda” i gusti estetici dell’opinione pubblica, o di parte di essa,  i diritti delle bovine di fare una vita dignitosa e il più simile possibile a quella che avrebbero fatto in natura e garantisce un equa remunerazione per l’allevatore. Questo concetto è a mio avviso l’unica strada possibile per riqualificare il latte bovino da commodity a no commodity, che in pratica significa avere un prezzo del latte tendenzialmente più alto e più stabile nel tempo.

L’opinione pubblica è purtroppo condizionata dall’antropomorfizzazione, ossia dall’attribuire agli animali gli stessi desiderata in termini di comfort e benessere che pensa siano giusti per le persone. Anche la selezione genetica a cui sono assoggettati i cani in particolare tende a reprimere tutte le caratteristiche etologiche e morfologiche tipiche della specie canina per farli assomigliare in tutto e per tutto ad essere umani. I modelli di allevamento possibili, verso i quali l’opinione pubblica è chiamata ad esprimere il proprio gradimento, vanno da quelli ipertecnologici a quelli paradisiaci “modello Heidi”. La comunicazione dell’industria del latte e dei Consorzi di Tutela ha proposto con forza e con continuità negli anni il modello “altoatesino” fatto di contadini felici e vacche su pascoli colorati e rigogliosi, e le associazioni animaliste utilizzano fotografie di allevamenti ipertecnologici come immagine negativa che testimonia la sofferenza e l’innaturalità di come l’uomo alleva gli animali. Ma come avviene per tutte le questioni culturali umane, una mediazione ancora è possibile.

Sembra ormai assodato che i prodotti del latte devono scalare il consenso dell’opinione pubblica per arginare la disaffezione al loro consumo e intraprendere urgentemente la trasformazione da cibo indifferenziato ad esperienza sensoriale oltre che nutrizionale. Un esempio su tutti è il percorso vincente fatto dal vino dopo gli episodi di alterazione con il metanolo del 1986. Ovvio è che per il vino è stato tutto molto più facile perché non c’è di mezzo la qualità della vita di esseri viventi. A partire dalle etichette sulle bottiglie dei vini, dal fluente parlare dei sommelier e dalla bellezza struggente delle cantine, tutto sa di bello e tutto questo ha pervaso l’immaginario collettivo. Non credo siano molti quelli che sanno oggettivamente distinguere degustandolo il valore, anche economico, di un vino dall’altro, ed io sono uno di questi. La suggestione del nome del vino, l’immagine e l’ubicazione della cantina condizionano maggiormente la propensione all’acquisto rispetto alla sola degustazione. In sostanza, il vino ha trasformato la sua immagine e funzione da un cibo immancabile sulle tavole della gente, il cui principale valore era la genuinità, ad esperienza sensoriale, e ciò gli ha permesso di uscire dalla bagarre delle commodity. In Italia il consumo procapite di vino era nel 1961 di 17,3 litri a testa, calcolato come consumo di alcol in esso contenuto. Nel 2018 siamo passati a 5.08 litri e si stima che questo calerà ancora. Nonostante questi dati apparentemente negativi, il nostro Paese, con la sua produzione di 47,200 milioni di ettolitri, è il più  grande produttore di vino del mondo. Nel 2020 la filiera del vino ha fatturato 13 miliardi di euro, ha coinvolto 310.000 imprese vinicole con 671.000 ettari di superfici investite, e 46.000 aziende vinificatrici. Pur tuttavia, esiste ancora e ci sarà sempre un’ampia produzione di vino acquistato con il criterio di un ragionevole rapporto qualità prezzo e il vino commodity.

È vero che i formaggi hanno anch’essi storie, sapori e odori da raccontare, e che esistono scuole per assaggiatori, ma nel sentimento collettivo la vigna e le cantine hanno un’immagine diversa rispetto agli allevamenti, specialmente quelli classificati dall’opinione pubblica come intensivi. Purtroppo il basso prezzo del latte alla stalla, la cultura delle economie di scala e il trascurare a volte l’opinione dei media e della gente non hanno stimolato tutti gli allevatori a ritenere che alcuni canoni estetici, l’igiene, la pulizia e la percezione di rispetto dei diritti delle bovine siano diventati un requisito della produzione al pari di avere la “626” e l’acqua potabile. Per capire bene questo fenomeno che sta investendo come uno tsunami ormai da molti anni i nostri allevamenti basta prendersi qualche ora di tempo e scorrere le immagini e le opinioni contenute nei siti delle associazioni animaliste e ambientaliste, oppure guardare lo streaming di trasmissioni come Report, essere animali, indovina chi viene a cena, etc. Molto significativo è vedere le immagini a cui viene associato un cattivo benessere degli allevamenti di bovine da latte per capire l’elevata incomprensione che c’è tra le gente e gli allevamenti dimenticando che quando questa diventa consumatore è oltremodo pericolosa per la nostra sopravvivenza.

Il concetto di “estetica funzionale” non è sinonimo di stalle chissà quanto costose ma sarà frutto di un confronto tra etologi, architetti o meglio designer, costruttori, veterinari, zootecnici e allevatori. Mi ha fatto molto riflettere il fatto che Israele abbia portato alla sezione architettura dell’edizione 2021 della Biennale di Venezia il suo modello di allevamento della bovina da latte (compost barn). Tutto il mondo del latte, soprattutto bovino ma anche bufalino, deve comprendere e condividere che il nostro futuro risiede in progetti condivisi da tutta la filiera, che con lo strumento dei contratti di filiera si possono formalizzare. La filiera del latte bovino deve capire che il suo futuro è intimamente legato al consenso dell’opinione pubblica e non allo scontro e alla contrapposizione con essa. L’estetica funzionale può essere un laboratorio dove immaginare un modo di allevare le bovine da latte diverso da quello che oggi è considerato il gold standard e che ogni volta che viene preso di mira dal giornalismo d’inchiesta e dalle associazioni animaliste suscita solo indignazione e rabbia e non stimoli utili cambiare i punti di vista.

Solo alcune DOP sono riuscite a retribuire in maniera equa gli allevatori mentre il resto del latte è in balia della speculazione finanziarie e delle visioni di breve periodo. Deve sopravvivere dal passato solo il concetto che l’allevamento ha come obiettivo principale quello di creare il maggiore reddito possibile per risorse economiche investite e superficie agricola dedicata. Questo obiettivo si può raggiungere a prescindere dalle performance tecniche oggi ritenute di riferimento. Oggi ci sono moltissimi allevamenti in Italia che fanno più di 40 kg di media e hanno una fertilità da guinness dei primati ma sono borderline dal punto di vista economico, mentre ci sono aziende più modeste che generano un reddito più che accettabile.

Il ritenere che l’obiettivo sia guadagnare e non avere performance tecniche a prescindere apre la strada a valutare se non sia il caso di partecipare alla discussione generale sull’estetica funzionale, abbandonare tutte quelle convinzioni e stereotipi che hanno trascinato il latte nell’inferno delle commodity e arricchire la filiera del latte bovino di argomenti più moderni quando si va a trattare il prezzo del latte con l’industria di settore. Se l’Italia seguirà con i dovuti distinguo la strada del vino dovrà cambiare la sua scala di valori e gli allevamenti dovranno generare tutti quegli argomenti o claim decisi e concordati con il resto della filiera del latte bovino, e che soprattutto il consumatore si aspetta di trovare nelle etichette e più in generale nella comunicazione.